Se penso alle volte in cui negli anni ho applicato la definizione di "grande disco", mi vengono in mente lavori del tutto diversi tra loro. Folksinger americani e cantautori nostrani, punk e scappati di casa vari, artisti minimali e altri ben più pretenziosi. La grandezza, oltre a essere meravigliosamente soggettiva, dipende da parecchie variabili, dal contesto storico e da quello geografico, dagli intenti e dalle prospettive, dal budget (poco) e soprattutto dalle emozioni. Con queste premesse di metodo, risulta evidente che Francesco Bianconi ha fatto un grande disco.
Forever, il suo primo lavoro solista, esce il 16 ottobre, epilogo di una serie infinita di recenti tormenti che ben si adattano al periodo che viviamo e al protagonista di questa vicenda. Le 10 tracce dovevano uscire ad aprile, solo che allora non potevamo uscire nemmeno noi stessi dalle nostre abitazioni. E così il disco è rimasto lì, senza invecchiare neanche di un giorno, come capita solo ai capolavori e agli stralunati.
I singoli pubblicati negli scorsi mesi – Il bene e L'abisso – hanno lasciato intravedere le profondità a cui l'artista di Montepulciano intendeva accompagnarci. Certi uomini, l'anti-hit uscita pochi giorni fa, ha spennellato un po' la tela, contribuendo a renderla più comprensibile, con il ritorno a metriche e tematiche più Baustelle-friendly (chi cita invece De André, a cominciare dalla voce, va compreso eccome). Ma da soli, sebbene lascino intuire la decisa svolta verso sonorità più scarne e arrangiamenti minimi e illibati – non è un caso che Bianconi citi come riferimento Desert Shore di Nico –, i tre pezzi non possono bastare, perché questo è appunto un disco. Un grande disco di canzoni.
Forever è ambizioso perché non è né qui e né ora: un ammutinamento al regime degli algoritmi che ha svuotato di senso persino la matematica, un autentico sollievo. L'album è stato prodotto da Amedeo Pace dei Blonde Redhead e registrato ai Real World Studios di Bath (studio fondato da Peter Gabriel nel Somerset inglese, ndr). Al centro di tutto ci sono la voce di Francesco, le note di un piano – suonate da Michele Fedrigotti, già collaboratore di Battiato, e Thomas Bartlett – e la magia degli archi del quartetto rumeno Balanescu Ensemble. Chitarra e batteria svaniscono, senza rimpianti.
Le ballate hanno testi in italiano, in inglese e in arabo. Con il frontman dei Baustelle cantano artisti meravigliosi come Rufus Wainwright e Kazu Makino – un altro terzo dei Blonde Redhead –, oltre all'americana Eleanor Friedberger e alla marocchina Hindi Zahra, che hanno contribuito alla stesura dei brani in cui sono stati coinvolti.
Entriamo nello studio milanese di Francesco Bianconi con un'idea ben precisa del suo disco. Circondato da pianoforti, valvole e carta da parati, è visibilmente gratificato dal nostro entusiasmo. Deve averne incamerato parecchio dagli ascolti degli ultimi giorni, eppure la tensione accumulata nei mesi in cui il suo debutto solista è stato costretto all'anticamera si legge ancora sul suo viso. Sopra di noi la testa di un cerbiatto ci invita a non farla troppo lunga.
Eri in sbattimento, come dicono i milanesi più impuniti?
È stato tutto molto strano: i pezzi sono stati registrati più di un anno fa (Francesco ha iniziato a scriverle dopo il tour di L'amore e la violenza - Vol.2, ndr), e solo ora ho le prime reazioni. Finalmente li abbiamo scongelati.
Senti che questo è il momento giusto per uscire?
Sicuramente non lo era aprile. La gente non poteva uscire di casa, non portavano nemmeno il disco fisico nei negozi e per me quella è ancora una cosa importante. Rimane un periodo penalizzante per un musicista, ma più di tanto non puoi tenere le cose ingabbiate.
Ti pesa l'idea di non poter portare Forever dal vivo?
Decisamente. Per fortuna il disco è già molto "ridotto", per cui sto iniziando a immaginarmi dei mini-set piano e voce per poche persone e a prezzo contenuto. Ho una voglia di suonare pazzesca, di farmi vedere al mondo come mai prima d'ora. Sono convinto che valga la pena aguzzare l'ingegno per trovare soluzioni alternative, non si può rimanere fermi e attendere l'ipotetico ritorno alla normalità.
Ti vedremo live in un drive-in o cose così?
Difficile. Piuttosto mi ha fatto sorridere un'intervista ai Flaming Lips, che durante i live suonano dentro le bolle, e che stanno studiando il modo per mettere nelle bolle anche il pubblico, a tre per volta. Mi pare l'attitudine giusta. Bisogna inventarsi delle cose e tenere alta l'asticella della qualità, visto che viviamo in un'epoca "lo-fi" e di bassa qualità imperante: lo trovo un po' deprimente.
A posteriori lo si può applicare un po' a tutto, ok. Ma per intimità dei contenuti e semplificazioni negli arrangiamenti si può dire che hai fatto un disco da pandemia.
In maniera del tutto involontaria, ma un po sì. Spero che il fatto che siamo costretti a passare molto più tempo a casa, faccia tornare a un po' di gente la voglia di ascoltare musica un po' diversa, slegata dalle logiche del momento e dai ritmi più in voga.
Che obiettivi ti eri posto con Forever?
Di fare una vera raccolta di canzoni, senza concept o cornici. Era quello che avevo pianificato: un disco pianoforte e voce e poco più, radicale, senza compromessi.
Perché Forever?
Volevo chiamarlo "Francesco Bianconi". Ma mi hanno detto che un titolo è sempre meglio metterlo, e mi hanno convinto. Forever è saltato fuori un po' a caso, sfogliando le foto sul cellulare. A un certo punto ne ho trovata una che mi pareva adatta per diventare la copertina, in cui c'ero io con una maglietta con la scritta "Femme Forever" (e non "Fun Forever" come scritto in un primo momento nell'articolo, ma come posso anche solo averlo pensato, ndr). E ho pensato che "Forever" è proprio una bella parola.
Perché hai fatto un disco in più lingue?
L'idea da cui sono partito era quella di fare un disco senza sezione ritmica. Mi sono reso conto che più cose togli e più una canzone diventa sospesa, senza luogo e senza tempo. Più la spogli e più la musica diventa un grande folk universale, che potrebbe essere fatta allo stesso modo nelle strade di Los Angeles, a Tunisi oppure addirittura provenire dal passato, dal 1700. Ho voluto rafforzare questa idea, mettendo nel disco diverse lingue.
Com'è andata con gli ospiti?
Io scrivevo dei pezzi aperti, una melodia ipotetica e una mia parte in italiano. Poi ho contattato le voci che idealmente avrei voluto nel disco e loro hanno lavorato sulle loro parti. A me non serve sottolineare di essere italiano, credo che lo si capisca da parecchi dettagli che lo sono. Ma questa volta ho voluto fare un disco con l'ambizione che un giorno, magari, lo ascoltino anche uno di Tokyo o di New York.
Le parole non contano?
Contano fino a un certo punto. Il disco più conosciuto nel mondo (che David Byrne mette tra i 10 migliori di sempre) del nostro artista più santificato, Fabrizio De André, è tutto in dialetto genovese, e nessuno capisce una parola di quello che dice. Le canzoni hanno prima di tutto un suono. In Italia spesso ce ne dimentichiamo: pare che per noi esistano solo i pezzi commerciali oppure la grande canzone d'autore, che deve indicarci la via. Invece ci sono delle meravigliose vie di mezzo tra questi due estremi.
Può risultare singolare che un simile approccio arrivi da un autore che ha dato vita a canzoni dall'immaginario ultrapop e a "punchline" come quelle dei Baustelle.
Se una canzone ha un senso, ben venga. Ma io sono sempre partito dal suono, la melodia è sempre venuta prima delle parole. Con i Baustelle facevo cadere gli accenti sbagliati sulle parole perché per me era più importante che suonassero bene.
In Certi uomini canti "Io so che son venuto dalla fica e so che lì voglio tornare": eccoli, i Baustelle.
Quello è un brano che parla del desiderio di ritorno all'origine, all'assoluto in un mondo non del tutto soddisfacente, una specie di centro di gravità permanente che faccia sì che all'improvviso la vita diventi talmente bella che di morire non ce ne freghi più nulla. Questa specie di illuminazione nel pezzo è messa in contrapposizione con tutta una serie di elementi, gli uomini che vivono per i soldi, per la droga, etc. Io sono uno di loro, non li guardo con fare moralizzatore. Però sono coscente del mio razzolare nel fango, e ambisco a qualcosa di più.
Sei anche tu un "cantante che ucciderebbe per apparire in un programma in televisione"?
In televisione no. Ma in generale sì, sono un narcisista dall'ego smisurato. Però almeno ne provo vergogna ogni tanto.
Ecco, nella tua risposta di prima sei stato davvero "deandreiano".
Però non è che De André abbia il monopolio di questi temi. Sono al centro, ad esempio, anche dell'universo di Cohen o di grandi della letteratura.
Anche in fase di registrazione avete cercato di semplificare al massimo?
Abbiamo proceduto in una maniera per me inedita. Abbiamo reigstrato in studio a Bath in una stanza in cui pianoforte e archi suonavano assieme contemporaneamente, mentre io cantavo chiuso in un booth. Poi abbiamo aggiunto sintetizzatori, mellotron e altri elementi, ma il nucleo forte del disco è stato suonato in quella stanza. Era quello che volevo: un suono da camera.
Ti ritrovi al 100% nelle canzoni, con il tempo che è passato e l'esperienza forte che abbiamo vissuto?
Questa è stata la mia grande angoscia degli ultimi mesi, l'idea di non essere più in sincrono con me stesso. Da un punto di vista sonoro rispondo serenamente di sì: non ci sono ammiccamente alla moda del momento, piano e voce va bene su tutto. Quello è Forever. Le cose che ho scritto, così personali e senza filtri, mi preoccupavano, perché temevo potessero invecchiare male. Invece mi ci ritrovo ancora, e sono molto contento che sia così. E poi le canzoni quando escono non sono più tue, quindi in fondo quello che sei o non sei tu non conta più nulla.
Qual è la cosa che più ti auguri per questo disco?
Che possa durare nel tempo, magari più a lungo persino di me. Penso sia il più grande privilegio di questo mestiere artigiano che facciamo.
Questo disco ci dice che un altro tipo di musica è possibile, anche nel 2020. È qualcosa che rivendichi?
Certo che si può fare, si possono e devono fare canzoni in tanti modi. Ma penso che questo sia un disco radicale soprattutto in relazione all'epoca che stiamo vivendo, dove tutto ciò che è leggermente fuori dal codice appare estremo e diverso. La parola "sperimentale" applicata alla mia musica mi piace, ma credo che sia piuttosto il resto che osa molto poco. Penso che le cose cambieranno, però: il manierismo non è mai per sempre.
Generico auspicio o premonizione?
Ne sono sicuro. Non so da che parte arriverà, o che aspetto avrà, ma un nuovo Rinascimento ci sarà. Ho fiducia nella musica che verrà e nelle nuove generazioni, che hanno la fortuna di non avere grandi idoli da venerare. Dobbiamo ripartire dalla foresta vergine.
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L'articolo Francesco Bianconi: "Ho fatto un disco estremo, perché nessuno osa più" di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-10-15 09:54:00
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