Come David Bowie: Garbo ci racconta i suoi anni ’80

In occasione della ristampe di “A Berlino che giorno è?” e “Scortati”, abbiamo fatto una lunga e bellissima intervista a Garbo tutta dedicata agli ’80 italiani.

“A Berlino che giorno è?” appartiene all’elenco di quelle frasi a effetto – oggi si direbbe: meme – che finisci per conoscere anche se non sai chi è Garbo. Anche se non hai mai sentito la canzone. Anche se sei tra quelli (ci sono: Garbo ride molto, raccontandolo) che ancora confondono Garbo, Mango e Gazebo. L’album – “A Berlino… va bene” – usciva il 21 settembre 1981: il 21 settembre di quest’anno Garbo ha suonato a Berlino e ha pubblicato una riedizione (di quell’album e del successivo “Scortati”, del 1982) con inediti e demo. Risentiti oggi, hanno un suono più vintage che datato, e quasi per nulla ingenuo. Ma ancora più pazzesco è il fatto che Garbo (60 anni il prossimo aprile) abbia mantenuto – nei quasi quarant’anni di carriera e 14 album pubblicati da allora – una inalterata qualità di scrittura e arrangiamento. “Che meraviglia” (da “Novecento”, del 2016) potrebbe stare dentro “Scortati”, e nessuno noterebbe la differenza. Il prossimo dicembre (venerdì 15 a Misano Adriatico e sabato 16 a Milano, al circolo Ohibò) finirà quello che lui un po’ per scaramanzia e un po’ per scherzo ha definito “L’ultimo tour”, ma quasi certamente aggiungerà un paio di date random in giro per l’Italia, dove suonerà solo i primi due album. L’abbiamo incontrato in un palazzone di cristallo dalle parti di piazzale Maciachini, a Milano: è molto simpatico. 

Grazie per aver tirato fuori dagli archivi i demo del periodo di “A Berlino… va bene” e “Scortati”: è sempre affascinante testimoniare la scintilla da cui è nato un pezzo di storia del pop…
Prego, prego: la ragione per cui ho pubblicato questi demo è che sono veramente preistoria. Risalgono a un periodo in cui “Garbo” addirittura non esisteva ancora: c’era solo un ragazzo – Renato – che, in provincia di Como, provava a trovare una sua strada. Ci sono cose ingenue, realizzate male, perché ovviamente non avevo uno studio.

Cosa avevi, il classico 4 piste a cassetta della Tascam?
Quello. Poi, dopo, con qualche soldo messo da parte ho preso un Fostex a nastro.

La versione demo di “A Berlino…” era pazzescamente Roxy Music, il che è interessante, perché loro non sono un modello esattamente facilissimo da imitare, e tu fra l’altro eri ancora molto giovane e inesperto…
Ero molto ambizioso, e ovviamente li amavo molto. Quando li sentii per la prima volta a “Supersonic” – che era un programma che andava in onda la sera sul secondo canale di Radio RAI – fui folgorato.

Che pezzo passava dei Roxy a “Supersonic”?
Sai che non me lo ricordo? Probabilmente “Street Life”… Ricordo però che nell‘inverno del 1972 tutte le sere speravo che mandassero “Walk on the Wild Side” di Lou Reed, e soprattutto Bowie



Volevi diventare una rockstar come Bowie?
Ma figurati, in quel momento non avevo neammeno chiaro chi ero, figurati immaginare cosa sarei voluto diventare… Quei provini servirono appunto a “capirmi” meglio, a fissare dei punti fermi.

Era già un suono molto strutturato, però: il suono di uno che aveva comunque le idee chiare in termini di arrangiamenti, e soprattutto di “qualità” complessiva…
Forse sì, ma se ripenso ora al me stesso di allora, ti direi che fino al ’79/'80 non avevo per nulla l’idea di chi ero e cosa volevo…

Ma eri da solo a registrare quei demo, o avevi un gruppo?
Beh, era il classico gruppo “da cantina”…

Che poi ti ha seguito anche nella trasformazione in Garbo, o sono rimasti lì a Como?
No, no, sono diventati persone serie, molti hanno iniziato a lavorare nel tessile, praticamente tutti sono padri di famiglia…

La versione poi passata alla storia di “A Berlino… va bene” è molto diversa rispetto al demo: anche del testo, sopravvivono più che altro dei frammenti. Quale è stato il processo che ha portato alla versione finale?
Forse a sentirlo non si nota, ma quel demo nacque ancora molto sulla scia di costrizioni “cantautorali”. Influenze anche involontarie, ma del resto era il 1974, quello era il suono “ufficiale” in Italia. La svolta c’è stata quando ho capito che ciò di cui avevo bisogno era un’operazione di sintesi, e paradossalmente (o forse no) la sintesi nei testi sono riuscito a trovarla dopo aver scoperto la musica elettronica. Probabilmente perché l’elettronica ti spinge di creare delle atmosfere che rifiutano la verbosità del testo. Meno racconto e più immagini: fotografie, quasi.

Che è poi – la cosa dello scrivere canzoni per immagini fotografiche, dico – anche quello che hai detto a Pippo Baudo mentre lui cercava di “spiegarti” al pubblico di Sanremo, nel 1984…
Questa è una cosa che mi è stata chiara da molto presto: io non racconto storie. È lì che la mia strada si allontana da quella dei cantautori.

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Preparando questa intervista mi sono reso conto di una cosa cui non avevo mai pensato: tu non hai mai avuto un produttore. Hai avuto collaboratori che ti hanno affiancato anche per lunghi periodi, ma mai un produttore nel senso di un Tony Visconti, quella persona che aiuta l’artista a processare la materia prima, a raggiungere il suono che ha in mente…
Ho lavorato con Roberto Colombo, Mauro Paoluzzi, ma se confronti i provini dei pezzi con la versione finita, vedrai che sono identici. La struttura dei pezzi, intendo: quello su cui si lavorava in studio era il suono, le rifiniture, ma i pezzi nascevano già finiti.

Sei, quindi, il tipo di artista che ha già chiaro nella testa come sarà un pezzo nel momento stesso in cui si siede davanti al quattro piste per fare il primo demo…
Probabilmente sì, quello che ho sempre cercato – più che un produttore – erano dei musicisti che facessero “meglio” le parti che io registravo nei demo.

Fra l’altro, alle tastiere in “A Berlino… va bene” c’era un personaggio di super-culto internazionale come Giuseppe “Baffo” Banfi… (tastierista del gruppo prog Biglietto per l’Inferno e autore di un paio di album solisti molto amati nei circuiti “kraut rock", NdR
Baffo fra l’altro ebbe un ruolo molto importante prima ancora che nascesse il disco, nel senso che fu lui a portarmi nella discografia…

Davvero?
Era quel periodo di confusione e indeterminatezza di cui ti dicevo prima: a me non interessava essere una rockstar, non mi interessava fare dischi: volevo solo registrare la mia musica, e quindi un sabato andai in questo studio, e coi soldi dei lavoretti estivi – quelli che i miei amici spendevano per andarsene a Riccione – mi pagai un turno in una sala di registrazione abbastanza attrezzata, a Lecco, collegata a un famoso negozio di strumenti musicali, “Battistini Centro Musicale”. Quel sabato come fonico c’era di turno Baffo Banfi, che sentì i miei provini – quella stessa session da cui arrivano i demo che ho inserito nella nuova edizione di “A Berlino… va bene” – e mi propose di lasciargli una cassetta, dicendo che l’avrebbe fatta ascoltare a qualcuno in discografia. Io non sapevo nemmeno bene cosa volesse dire “discografia”, ero un perito edile, ma pensai che non avevo nulla da perdere. Per farla breve, quindici giorni dopo mi telefonò per dirmi che avevo appuntamento con un certo Giampiero Scussel, direttore artistico della Fonit Cetra e futuro direttore artistico della EMI. Andai a quell’incontro e lui mi disse: “Tu sei la mia novità, verrai con me alla EMI”.

Scusa se faccio un brevissimo passo indietro: che lavoretti estivi facevi?
Ho lavorato in una fabbrica che produceva zeppe per scarpe, in una ditta che fabbricava quadri elettrici… poi altre cose che non ricordo.

Tornando alla EMI, questo incontro fece di te un caso abbastanza unico in Italia. In quel momento la scena new wave non aveva nessun rapporto con la discografia ufficiale, e anzi per molte band essere “ai margini” era quasi una questione identitaria…
Di tutto questo però io non me ne rendevo minimamente conto. Fu tutto molto veloce, o almeno a me sembrò veloce. Scussel mi disse: “Tu continua a scrivere, dammi il tempo di arrivare in EMI e poi entriamo in sala di registrazione”. Di lì a qualche mese, “A Berlino…” era pronto.

Berlino ovviamente veniva da Bowie…
In realtà per me era più “Berlin” di Lou Reed… E poi il fatto che Berlino in quel momento – era il 1981 – aveva il fascino di una capitale europea, nel senso di una ipotetica capitale di tutta l’Europa.

Tu non c’eri mai stato, giusto? La tua era una Berlino totalmente immaginaria, di testa…
No, non c’ero mai stato. Ci andai per la prima volta poco dopo, a registrare uno speciale per il programma tv “Mister Fantasy”. Due settimane facendo base in una suite dell’Hotel Intercontinental, a poche centinaia di metri dal palazzo della Mercedes… Sul finale della puntata che “Blob” mi ha dedicato a settembre si vede proprio quella suite, con la vetrata da cui partiva la prospettiva dei palazzoni.

La cosa che non ricordo è se “A Berlino…” – all’epoca – fu un successo. Nel senso che è evidentemente un disco (e soprattutto una canzone) che sulla distanza ha profondamente sedimentato nel DNA del pop italiano, ma non ricordo se all’epoca fu una sorta di tormentone.
Andò bene, ma sicuramente fu più l’effetto “novità” delle copie vendute. Tieni conto che non c’era niente di simile all’epoca, in Italia. Alla radio, ad esempio, non c’era niente di paragonabile. Ero una terza via tra la musica dei cantautori e le hit nazionalpopolari. Nessuno qui aveva idea di che cosa fosse la new wave.

“A Berlino…” fra l’altro è un album strano: un pezzo come “On the Radio”, ad esempio, è sicuramente molto bowiano, ma c’è pure qualcosa del Vasco Rossi di quegli anni… (anzi, per essere precisi di due anni dopo, visto che “Una canzone per te” è del 1983).
Beh, con Vasco avevamo le stesse radici, amavamo gli stessi dischi… se ascolti l’incedere di “Siamo solo noi”, quello è puro Lou Reed. Vasco all’epoca mi chiamava “il corvo”, perché vestivo sempre di nero, e mi prendeva in giro – ma con affetto, eh – perché quando iniziavamo tutti e due a essere ospiti in quegli show televisivi estivi, quelli con decine di ospiti, i primi tempi il mio nome sulla porta dei camerini era molto più grande del suo, poi mano a mano che le estati passavano il suo diventava più grande e il mio più piccolo… Mi diceva: “Vedi, corvo, la vita funziona così!”. Poi ridevamo, perché ci stavamo molto simpatici. Pensa che al pranzo di gala per l’uscita di “A Berlino…” uno dei capi della EMI mi chiese: “Ma in Italia chi c’è che ti piace?”. Io risposi: “Mah, c’è questo bravo in Emilia, si chiama Vasco Rossi”. Forse era appena uscito “Colpa d’Alfredo”, ma a quel tavolo di discografici nessuno lo conosceva. Qualcuno fece anche la battuta: “Ma con quel nome, dove vuole andare?”. 

Tra “A Berlino…” e il tuo secondo album, “Scortati”, ci sono pochissimi mesi: soltanto sette, mi pare…
Già, cosa che all’epoca fece molto incazzare qualcuno in EMI. Mi ricordo Michele Di Lernia, direttore romano dell’ufficio commerciale, che urla: “Ma Berlino sta appena cominciando a funzionare, e tu e quello stronzo del tuo discografico volete uscire con un nuovo singolo e un nuovo album?”. Ma ero giovane, avevo le canzoni che mi bruciavano dentro, e per fortuna avevo l’appoggio totale della parte artistica dell’etichetta. 

Un’altra cosa pazzesca di quel periodo fu Franco Battiato che ti chiese di aprire qualcosa come settanta date dal vivo: praticamente l’intero tour che avrebbe lanciato “La voce del padrone”…
Fu molto strano, perché iniziai quel tour ancora prima che uscisse “A Berlino… va bene”, e i primi tempi ero un assoluto sconosciuto che apriva le date di un cantante che invece stava salendo sempre più alto in classifica… Soltanto verso le ultime date, dopo che le prime radio avevano iniziato a suonare il singolo, iniziai a vedere in platea qualche darkettone, a sentire qualcuno che mi gridava “Joy Division! Killing Joke!!”. Nel complesso fu massacrante, avevamo un day off ogni dieci giorni di serate, ma ovviamente imparai moltissimo. Durante gli spostamenti da una città all’altra, in macchina eravamo Battiato, Giusto Pio e io: immagina già solo da quei viaggi quanto posso aver imparato… E poi pensa che io non ero mai salito su un palco prima di allora, e mi trovavo in media davanti duemila persone venute a sentire Battiato…

Wow! Terrore puro!
Le prime serate furono davvero terrore puro. Anche perché il mio live era abbastanza strano per l’epoca: ero io da solo, con le basi registrate. Sul palco c’era solo un Revox illuminato da un occhio di bue: quando era l’ora, un tecnico salva sul palco, schiacciava play e faceva partire il “Bolero” di Ravel, che su nastro era mixata con l’intro di “A Berlino… va bene”, e io facevo il mio ingresso e raggiungevo l’asta col microfono esattamente quando iniziava la parte cantata.

Beh, per l’epoca – e per il pubblico generalista italiano – era davvero una cosa molto avanti, anche visivamente…
Certo, poi tieni conto che ero truccato, vestito di nero…

Che poi pure Battiato esattamente da lì arrivava, prima di diventare il re della hit parade italiana: da queste vie di mezzo tra audio-arte, performance e tecnologia usata come feticcio…
Ma infatti lui adorava quella ventina di minuti che durava il mio show.

Poi a un certo punto ti sei smollato, immagino.
Persino troppo: a metà del tour facevo il figo, giocavo a salire sul palco esattamente un secondo prima che la base arrivasse al punto dove dovevo cantare. Una volta Giusto Pio mi fece uno scherzo, si mise in mezzo alla scala che portava al palco, facendomi perdere l’intro. Poi mi disse che l’aveva fatto perché imparassi a prendere quel mestiere sul serio…

L’unico salto nel buio paragonabile a quel primo tour, immagino sia stata – tre anni dopo – la partecipazione a Sanremo con “Radioclima”. Fra l’altro, un impeccabile Pippo Baudo ti presentò come “la new wave, ovvero il nuovo che avanza”, ma in quel momento tu eri già oltre: avevi un look post-new wave, retrò, più alla Elvis Costello, per certi versi anche Morrissey…
Ma perché mi guardavo in giro, volevo dare un respiro più internazionale a quello che facevo, alla canzone italiana…

Difatti arrivasti 18esimo… Non ultimo, però, perché sotto di te c’erano Enrico Ruggeri e gli Stadio!
Mi presi altre soddisfazioni: Mark Hollis dei Talk Talk e Brian May dei Queen – che presentavano “Radio Ga Ga”, difatti si scherzò anche sulla similitudine con “Radioclima” – mi dissero tutti e due: “Ma tu che c’entri con qui?”

Notevole anche il gesto – molto poco alla Elvis Costello, in realtà – di gettare (quasi) una grossa radio di radica sulla prima fila dell’Ariston, la sera della finale…
Abatantuono, che era uno dei comici di quell’edizione, mi prese in giro fino alla morte: “La getto o non la getto? La getto?”. Però vinsi il premio della critica.

E fu tra l’altro un’edizione “quasi” innovativa: tra i giovani c’erano i Canton – che erano una sorta di versione italiana molto blanda dei Japan - e poi Enrico Ruggeri, il Gruppo Italiano, Alberto Camerini, gli Stadio, oltre naturalmente a Eros Ramazzotti che debuttò con “Terra promessa”…
Merito di Gianni Ravera: se non era per lui, nemmeno io sarei mai andato a Sanremo. Fu lui – mi tenne al telefono più di un’ora – a convincermi a partecipare. Di certo fui molto libero, anche lì. Mi vestii come volevo, dissi quello che volevo, cantai un pezzo scritto e arrangiato da me… Non ebbi nessuna costrizione, nessuna pressione.

Ieri sera rileggevo una tua intervista di uno o due anni fa, e alla domanda “Come si vede Garbo tra vent’anni?” tu hai risposto: “Mi vedo come un Peter Gabriel”. Che trovo sia una bellissima risposta…
Ma sì, perché Peter Gabriel è un signore colto e timido che – giustamente – non ha più nulla da dimostrare. Ha fatto il salto, adesso è il grande saggio.

Come era Bowie, del resto…
Certo, ma Bowie era obbligato dal suo stesso “essere David Bowie” a nascondersi, e quindi non ha mai potuto mostrare al mondo il suo lato saggio. Meglio essere Peter Gabriel, alla fine.

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L'articolo Come David Bowie: Garbo ci racconta i suoi anni ’80 di Fabio De Luca è apparso su Rockit.it il 2017-10-30 11:13:00

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