Gemitaiz: "Se il Davide ragazzino potesse vedermi, sarebbe fiero di me"

Il rapper romano non si dà tregua e sforna il nono capitolo della saga dei mixtape "QVC", il primo in cui diventa stabilmente produttore. Con il sogno di trasformarsi nel "Rick Rubin del rap" e la serenità di chi pensa di non aver mai tradito se stesso e quello che voleva divenire a 18 anni

Gemitaiz, rapper romano classe ’88, giunto al nono capitolo della saga "QVC"
Gemitaiz, rapper romano classe ’88, giunto al nono capitolo della saga "QVC"

Piaccia o meno, quella di Gemitaiz è sicuramente una delle più credibili parabole all’interno del contesto rap nazionale, uno status costruitosi brano dopo brano, album dopo album, in una carriera che non è mai stata caratterizzata da tempi morti. Un’iperproduttività determinata da un unico desiderio: la volontà i dimostrare a tutti di non essere, forse, il più grande mc italiano, quanto il più bravo.

Piaccia o meno, lo ribadiamo, nessuno può mettere in dubbio le skills tecniche del rapper romano, tantomeno, chi ha avuto modo di conoscerlo nel corso dei suo sei lavori ufficiali, nelle serratissime barre spartite con i più grandi mostri del rap italiano, attraverso gli ormai leggendari mixtape denominati Quel che vi consiglio. Il nono capitolo della saga QVC è sicuramente il più particolare, il primo a discostarsi completamente dai precedenti caratterizzati dall’interpretazione delle basi americane. Il primo, nel quale Davide, oltre che con la penna, si diletta come produttore.

Nel comunicato stampa spieghi come il mixtape sia uno spazio dove esprimersi con libertà, al di fuori di un disco ufficiale. Ma questo è il primo capitolo di QVC composto esclusivamente da brani inediti. Perché, quindi, non uscire con un vero e proprio album?

Innanzitutto, le basi americane ora non escono più. Le strumentali dei brani americani, tantomeno, quelle dei pezzi che piacciono a me, che più mi gasano. Era impossibile riproporre un mixtape con la stessa natura dei precedenti, nei quali, delle volte, dovevamo riprodurre noi stessi le basi originale. Tutto questo per non guadagnarci una lira e metterli in free download. Ma del resto il mood del progetto era quello, era fico, e noi ci credevamo. Adesso dovremmo rifare da capo tutti i beat, a sto punto mi sono detto “fanculo, non ha senso perdere tutto sto tempo per ricopiare qualcosa che hanno già fatto gli altri”. E nel frattempo, in quest’ultimo anno e mezzo, avevo iniziato anche a produrre…

Insomma, sei stato un po’ spinto a vestire questi nuovi panni…

Ho dovuto fare di necessità virtù. Certamente, le due cose andavano a nozze: in quest’ottica il mixtape era perfetto per la sua forma sperimentale, per cimentarmi le prime volte su basi che mi ero autoprodotto. Sinceramente non credevo di riuscirci, almeno, non pensavo di riuscire a comporre un beat che mi sarebbe piaciuto così tanto da registrarci sopra e inserirlo in QVC9. Farsi una base, poterla utilizzare, veder concretizzare quello che hai nella testa: credo, professionalmente parlando, sia stata una delle soddisfazioni più grandi degli ultimi anni. Sicuramente è una skill che mi ha fatto percorrere un piccolo passo in più nella vita, come nella carriera artistica.

Però non è stato un debutto assoluto: se non sbaglio, avevo già sentito un tuo beat negli ultimi lavori di Ensi e Dani Faiv. Non verrai più riconosciuto solo per le strofe…

Mi capita di comporre un beat e immaginarmi un rapper sul quale calzerebbe a pennello, ma, a dir la verità, non è che ancora mi chiedano le basi. Lavorando in questo campo da tanto tempo conosco tutti, magari glieli faccio ascoltare, da cosa nasce cosa. Lo stesso meccanismo è avvenuto con un altro paio di bei nomi, ma ancora non spoilero nulla perché non sono sicuro al cento per cento che li utilizzeranno. Sicuramente, il fatto di condividere un beat con altri artisti è fantastico. È un altro livello di connessione musicale che non avevo mai provato. Con Ensi avevamo composto tante tracce insieme, ma non gli avevo mai passato un beat. Il primo artista che ho sentito rappare su una mia base è stato proprio Dani Faiv. Il pezzo spacca, non scherzo quando dico che per me è stata un’emozione fortissima.

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Pensi un giorno questo possa essere il tuo futuro?

Più che come produttore mi immagino un futuro da direttore artistico, è una delle idee che m’intriga di più: prendere un artista che mi piace quando è ancora poco conosciuto, stare in studio con lui, provare a dargli una direzione. Avere un ruolo alla Rick Rubin del rap, effettivamente, mi farebbe impazzire. Ma è comunque un discorso parallelo, francamente non mi vedo a smettere con la musica, voglio dire, non sono sicuro che a 60 anni avrò ancora voglio di rappare – sempre se sarò vivo –, ma nel caso continuerei a pubblicare canzoni mie.

Uno dei tuoi meriti maggiori è essere stato il trait d’union tra la vecchia e la nuova scuola. Com’è cambiato l’ambiente che ti circonda negli ultimi anni?

È cambiato molto, e anche velocemente, i cambi generazionali ora avvengono con un ritmo decisamente più sostenuto. La novità più grande degli ultimi anni è stata sicuramente la trap. A molti ragazzini piace definirsi “trapper”, così come a gran parte dei media piace utilizzare questo termine. Ma in realtà quella roba è rap. Anni fa, i De La Soul e i Cypress Hill, non erano underground - "rap scacciafica", come direbbe Guè -, erano rap. Real hip-hop. Puff Daddy non era commerciale, era rap che ogni interprete rivisitava secondo il proprio stile. La trap è un mondo vastissimo, e i suoni sono stupendi, sicuramente ha dato una belle sferzata dal punto di vista melodico al genere. Ci sono artisti come Future che, a mio avviso, sono dei veri e propri geni, altri, come Travis Scott, al di là dei gusti, non si può dire che non spacchino. Ci sono molti artisti che provengono da quell’ambiente e che mi piacciono. Ma per me rimarranno sempre rapper.

Uno dei miei migliori amici è un tuo grande fan, ti segue da almeno dieci anni. Mi ha chiesto di confessarti che, anche se rimani uno dei suoi artisti preferiti, a lui manca quell’anima hardcore degli albori. Immagino non sia l’unico a pensarla così…

E ci sta, non posso dire nulla. Ma se guardi le sculture o i quadri di un grande artista, magari, le sue stesse opere dopo vent’anni saranno più belle. Io credo di essermi affinato nel tempo, essermi sgrezzato, ed è probabilmente il motivo per cui suono meno hardcore. Da pischello ascoltavo musica differente, ma sono felice del percorso che ho fatto, e lo ripercorrerei da capo, perché è quello che mi ha portato a essere il Gemitaiz d’adesso. Se potessi guardarmi con gli occhi del Davide diciottenne, credo che andrei comunque molto fiero della mia evoluzione. Sono cambiato, ma, come direbbero gli americani, sono rimasto true to myself. Capisco che, anche per alcuni dei miei fan più affezionati, quest’aspetto non sia concepibile al cento per cento, ma non credo di aver abbandonato del tutto quella sfumatura. Ad esempio, l’intro e l’outro di QVC9, a mio avviso, sono molto hardcore.

La cover di QVC9 realizzata dalla giovane artista inglese Oh De Laval
La cover di QVC9 realizzata dalla giovane artista inglese Oh De Laval

Per la copertina, invece, ti sei rivolto a una giovane artista inglese. Perché hai scelto proprio lei?

Quando ho scoperto Oh De Laval tempo fa non era così famosa, ora sta veramente spaccando. L’ho trovato casualmente su Instagram, le sue opere mi hanno immediatamente colpito e ho trovato il suo metodo di comunicazione fichissimo. Le ho scritto praticamente subito, senza pensarci, le ho mandato delle basi e le ho chiesto di attingere da quell’estetica per realizzare la copertina. Solo in seguito abbiamo parlato, ci siamo conosciuti un po’, anche se ovviamente non ho mai avuto la possibilità d’incontrarla. Le ho dato totalmente carta bianca, insomma, se mi chiedi una strofa non puoi obbligarmi a eseguirla come vuoi tu. Non volevo sopire la sua creatività, e ho avuto ragione: quando mi ha mandato la prima bozza era già perfetta.

Nell’intro di QVC9 ammetti che “ti fa schifo la roba che esce”, ti riferisci alla musica italiana? Perché in fondo hai rilasciato decine di feat, in quest’ottica, c’è qualcuno con cui non hai mai collaborato con il quale vorresti scrivere una canzone?

Ascolto veramente poca musica nazionale, e quel verso si riferisce proprio al rap italiano. Gli artisti con cui ho collaborato sono tanti, ma sono tanti anche i nomi che escono ultimamente. C’è un’attenta selezione, non riuscirei a spartire il microfono con qualcuno che non rispetto. Se dovessi citarti un artista internazionale, credo sarebbe interessantissimo lavorare con James Blake. Ci sono veramente sotto anche se non è rap. Rimanendo più nel mio ambito, sicuramente un feat con Young Thug non sarebbe niente male.

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Se non sbaglio hai mollato la scuola per inseguire il tuo sogno, eppure, vedendo le tue storie, sei uno dei rapper che si espone di più. Più sul pezzo. Mettiamola così, come hai sopperito a questa mancanza?

Con la musica, con la curiosità di viaggiare e provare cose che altri non avrebbero fatto, grazie al cinema, soprattutto, e ai miei genitori che, nonostante tutto, mi hanno sempre spronato. Con le canne. Molta gente, specialmente in Italia, associa ancora il rapper al misogino, il drogato al fallito, è una visione stereotipa che credo ponga dei limiti anche a chi ha studiato all’università. D’altro canto, chi si vanta di essersi laureato all’ “università della strada”non ha chiara la concezione del mondo. Nei miei testi sono molto sarcastico, spero la gente non colga il messaggio che la scuola non è importante. Il mio unico consiglio è non farsi deviare dal giudizio della gente, dedicarsi anche allo studio di quel che ci piace veramente come persone, come individui e non solo come studenti. Approfondire quello che realmente vogliamo imparare, non quello che siamo costretti ad apprendere.

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L'articolo Gemitaiz: "Se il Davide ragazzino potesse vedermi, sarebbe fiero di me" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-11-13 10:18:00

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