Poche ore prima del mio incontro con Gianluca detto Ghemon in via Adelchi 5 a Milano, vengo a scoprire della morte di Franco Sangiorgi. Un grande personaggio, la cui esistenza mi dolgo di non aver incrociato prima: docente universitario di Agraria, 25 anni fa capì che i tempi erano maturi in Italia per trattare la birra in maniera diversa. Grazie alle sue idee e ai suoi consigli, custoditi dai figli Giampaolo e Davide, nasceva il Birrificio Lambrate, tra le realtà pioniere di un movimento che oggi coinvolge migliaia di professionisti e che crea economie e cultura. Era il 1996, un anno prima che il clic di un mouse mandasse online Rockit: all’inizio era la tesi di un ingegnere appassionato di musica indipendente, si sarebbe sviluppato in mille maniere inaspettate.
Ghemon conosce bene questo posto. A Lambrate – il quartiere della Lambretta, delle lotte partigiane, dei fuori sede e oggi degli eventi della Design Week – è sbarcato quando ha deciso di trasferirsi a Milano da Roma per prendere ancora un po’ più sul serio il gioco della musica, qui ha vissuto e partorito uno spicchio importante del suo repertorio. Qui, anche se oggi si è spostato qualche quartiere più in là, ha voluto rimanesse il suo studio, a un paio di isolati di distanza dal luogo in cui ci troviamo ora.
Anche quella di Ghemon è una storia longeva, e una storia di intuizioni. Ha 39 anni, fa musica da quando era un ragazzino e dischi da quasi tre lustri. All’inizio erano le barre e le tag sui muri con i suoi amici ad Avellino, poi gli anni dell’università a Roma e i primi progetti che imposero il suo nome nel circuito hip hop, nel 2010 il trasferimento a Milano e l’incessante evoluzione e messa in discussione di sé stesso che lo ha portato a 9 album in studio – gli ultimi due, Scritto nelle stelle e E vissero feriti e contenti, nel giro di 12 mesi – e a gareggiare due volte a Sanremo. A dare un notevole contributo alla riscrittura dei canoni del rap in Italia.
Senza mai rinnegare il genere e la cultura su cui si fonda, proprio quando tutto era apparecchiato per la consacrazione nel mainstream e il monopolio delle classifiche, Ghemon decideva che i vestiti oversize iniziavano a stargli stretti. Ha studiato, sperimentato, contaminato i suoi suoni e la sua personalità. La sua black musica all’italiana ha anticipato tendenze, è stato tra i primi artisti provenienti dal rap a dotarsi di una band – la prima volta fu speciale per tutti: MI AMI 2014, la prima data del tour di Orchidee –, tra i primi del giro a portare davvero sé stesso nelle canzoni e persino tra i primi a parlare apertamente di un male che per fortuna inizia a non essere più tabù nel mondo dello spettacolo: la depressione.
“Ma se devo dire una cosa su cui ho anticipato i tempi e di cui vado fiero, è la passione per le sneakers”, dice, sorridendo. Siamo seduti uno di fronte all’altro a uno dei pochi tavolini del locale, rifiutiamo un giro di birre perché è davvero troppo presto anche per noi. Lui indossa gli abiti borghesi – comunque stilosissimi – dopo aver posato all’interno e all’esterno del Birrificio per le foto di Marco Previdi che vedete in questo articolo. Il mio pensiero corre alle infinite serate passate qua dentro, ai tempi della mia prima casa universitaria. Ho come l’impressione che anche Ghemon abbia una simile epifania, e parto da qui con la prima domanda.
Che ricordo ti accende questo posto?
Tante serate e tante birre, Sant’Ambreus su tutte. Abitavo proprio qua dietro, una decina d’anni fa. Nella posta accanto venivo quasi ogni giorno nei miei primi anni milanesi per spedire i dischi alle persone che li ordinavano sul mio sito. A mano, uno per uno. Ricordo le ore in coda, i bollettini delle raccomandate.
Che anni erano?
Erano i tempi di Macro Beats, ci facevamo le cose da noi in maniera indipendente, i gradini si salivano uno alla volta. Il digitale non era ancora così sviluppato e la distribuzione tutt’altro che a buon mercato per il circuito underground. I dischi si vendevano nei negozi specializzati o in quelli di streetwear – a Milano il mio, ad esempio, lo trovavi da Wag così come da Par5, che vende sneakers in Colonne –, ma se stavi a Calolzio Corte o in una qualunque altra provincia italiana, te lo dovevamo mandare a casa.
Qual è il segreto per restare negli anni?
Si deve essere disposti a diventare un po’ matti per questa cosa. Io sono uno che non ha mai scelto la via facile, motivo per cui un sacco di gente, per rassicurarmi, diceva “vedrai che è anche quella che dà più soddisfazioni”. Ma a me la cosa stava sulle palle, perché pensavo “io vorrei questo, questo, questo risultato”. E invece non sempre accadeva. Non è una cosa che si riesce sempre a prendere con filosofia. Però in fondo lo sai che, per te, è giusto così.
Come fai a saperlo?
Perché ciascuno conosce sé stesso meglio degli altri. Perché come dice un vecchio adagio cestistico “il vincente è un perdente che non ha mollato”. Perché le cose, per farle bene, vanno fatte con impegno e costanza, non bisogna meditare – o pregare, per chi crede – o allenarsi solo quando si sente di averne bisogno: non funziona così.
C’è un segreto per non mollare?
Svegliarsi ogni mattina e ricominciare da capo. Io l’ho sempre fatto, anche nei momenti più duri, anche quando ero depresso. Oggi che guardo indietro a questo percorso umano e professionale, che comincia a essere lungo, mi dico “ok, ha avuto senso”. Ci sono carriere che durano due settimane e altre che durano due stagioni, se punti ai due decenni vuol dire che qualcosa da dare lo avevi. Se devo riconoscermi un merito è quello di saper prendermi dei rischi, ascoltare la mia incoscienza stando “nel mercato” sempre a modo mio. Perché quando le generazioni più giovani rispetto a te cominciano non essere più una, ma quattro, devi decidere che corsa vuoi correre. E io ho scelto di provare a rinnovarmi sempre.
Irvine Welsh una volta ha detto – la quote mi è stata riportata da Fiz Bottura, se è imprecisa o peggio un falso storico prendetevela con lui – “all’inizio era tutta sostanza, poi tutto stile e infine diventa tutta simulazione”. Mi sembrano parole straordinariamente attuali per descrivere il rap italiano e forse, più in generale, i tempi che stiamo vivendo. Ti ci ritrovi?
Mi sembra una frase straordinariamente adatta al momento storico.
Da un punto di vista della musica, in questo “trittico” tu stai nella fase di mezzo. All’inizio ci fu l’hip hop pionieristico, tutto urgenza e attitudine hardcore, poi venne la tua generazione, che arrivò “all’avanguardia con le tecniche” e portò il gioco a un altro livello, facendo però perdere un po’ di quell’ingenuità e genuinità iniziale al rap. Ora l’apogeo, che coincide con il momento in cui è tutto o quasi fake, di plastica. Girano i coglioni?
Nì, sono abbastanza distaccato nei confronti di queste cose. Io auguro una carriera lunga a tutti, ma sono allo stesso modo convinto che se non vali un cazzo il tempo ti spezza le gambe.
Vedi le cose prima degii altri?
No, direi proprio di no. Ma sono un molto onesto, e quando sento un impulso che mi spinge a fare qualcosa devo seguirlo. Così nella musica, così nella vita. Sono fatto così, non è calcolo o paraculismo: non ho parlato di depressione per andare alla Vita in diretta e pigliarmi una pacca sulla spalla. Credo sia solo un po’ di coraggio e voglia di dare retta a sé stessi, se poi riesco a essere una voce credibile per quello che faccio tanto meglio.
Musicalmente come è avvenuta la tua “transizione”?
Era il 2014, l’anno di Orchidee. Ora è tutto diverso, mischiato, ma allora c’erano il circuito rap – che era abbastanza chiuso in sé, e non faceva un quinto dei numeri che fa ora – il circuito indie e poi il circuito pop. Molto ben distinti. Me la ricordo bene quell’estate, trascorsa in piazze e locali in cui chi ascoltava rap non andava mai. Ragazzi che, per restare a Milano, bazzicavano il Legend o il Barrio’s e che per sentirmi dal vivo si trovavano a dover andare ai Magazzini, con una band sul palco e la gente attorno a loro vestita in maniera irriconoscibile. Quel tour fu di rottura, e di creazione di nuovi spazi.
Che ricordo hai di quell’esordio con band, sul palco del MI AMI?
Un ricordo vivido anche perché, a distanza di anni, becco gente in giro per Milano che mi dice “la prima volta ti ho visto alla Collinetta”. Ricordo un sacco di persone sotto al palco e io che chiedo di perdonarmi se, mentre avessi cantato, mi fosse uscito un qualche gesto “troppo rap” con le mani, perché facevo ancora un po’ di confusione. Provo molta tenerezza verso quel primo passo, sapevo cosa volevo fare ma ero ancora lontanissimo dalla qualità a cui ambivo. C’è voluto parecchio lavoro per creare il mio suono.
Neffa diceva “non sono un cantante, sono un cantiere”. Mi sembra ti si addica…
Be’, sì, e da più di un punto di vista. Nel momento di passaggio verso Orchidee io e Giovanni ci siamo frequentati parecchio e lui mi ripeteva “sei sicuro? È quello che vuoi fare?”. Io, e a lui pareva un po’ strano, non avevo alcuna intenzione di smettere di rappare, volevo fare le due cose assieme. Perché, credo, sia io sia lui siamo cantieri: lui è nato batterista, poi è diventato mc e poi cantante, io pure mi sono mosso tra generi, stili e tradizioni senza mai fermarmi. Oggi mi sento lo stesso un cantiere, anche se in maniera diversa: ho ancora mille cose da fare, curiosità da sfogare. Ancora non so se sono capace di recitare o scrivere un romanzo, se saprò fare un album swing, se il mio disco migliore c’è già stato o arriverà.
Mi hanno fatto molto ridere Colapesce e Dimartino dicendo a Propaganda che tu sei “il generico di Neffa”.
Mi ha fatto ridere e di certo non mi offende. Gente come Neffa o come Tormento, che a suo tempo ha fatto cose che non si erano mai viste nel rap italiano, hanno tutta la mia stima e riconoscenza. Per aprire degli spazi si sono presi un sacco di insulti, anche se va detto che anche con me non ci sono mai andati leggeri.
Mentre il rap italiano è divenuta la fiera delle collaborazioni moltiplica-streaming, il tuo prossimo “feat.” sarà con tre artisti molto giovani: Voodoo Kid, Emma Nolde e Ethan Lara, con cui sarai protagonista il 24 giugno del prossimo episodio di Notturni di Rockit.
Sono tre ragazzi giovani con cui sento di aver una sensibilità, un universo in comune. Sono bravissimi, ciascuno a modo loro. Li seguo e li stimo, non vedo l’ora di cantarci assieme. Le uniche collaborazioni che hanno senso per me sono quelle basate sulla stima reciproca, umana e musicale.
Hai annunciato parecchie date per l’estate. Come ti dividi psicologicamente tra la fotta di tornare a suonare e la rottura di avere la gente seduta e le capienze ridotte?
Diciamo che un po’ ci ho già fatto l’abitudine, visto che già la scorsa estate ho fatto una decina di concerti in giro per l’Italia. Sono pronto all’impatto, e consapevole di come lavorare a questo tipo di live. Ho una super fotta di suonare dal vivo, non ho mai smesso di farlo in vita mia. E ho una voglia matta di fare “vivere” i due dischi che ho fatto uscire a così poco tempo l’uno dall’altro, vedere come saranno ricevuti dalla gente, come cambiano le facce delle persone durante gli ascolti.
Perché sono così importanti le facce?
Nell’ultimo anno e mezzo per la musica è stato un po’ tipo i ristoranti. Per lunghi mesi i cuochi cucinavano, spedivano via i loro cibi con Glovo e poi andavano a leggersi le recensioni su TripAdvisor, senza il piacere (utilissimo) di un feedback diretto da chi fruiva della loro opera. Quando suoni dal vivo capisci che ci sono pezzi su cui devi mettere mano perché non reggono, almeno in quella dimensione, altri che spaccano: è fondamentale.
La tua canzone sanremese racconta di quel “momento perfetto”, come da titolo, che non arriva mai. Per questo, aggiungo io, è come se il momento perfetto fosse sempre, perché non si può aspettare che arrivi.
In sostanza è così. E c’è una domanda in più: se fosse il momento perfetto, saresti in grado di riconoscerlo? Il pezzo racconta un po’ delle cose che ci siamo detti fin qui, il fatto che è proprio quando sei più a terra che ti devi rendere conto che il momento di darci dentro più convinto di prima è arrivato. Più che di opportunità, è una questione di come ciascuno di noi guarda alle opportunità
C’è una domanda che consiglieresti di porsi a tutti coloro che nell’ultimo periodo si sono trovati costretti dagli eventi ad aprire un dialogo interiore, senza magari avere gli strumenti o la consuetudine nel farlo?
Sai che non so se c’è una domanda giusta? Di certo so che non provare a porsele è inutile, che riempirsi le giornate di cose da fare o stare su uno schermo non aiuta. Ogni tanto è fondamentale prendersi il tempo di farsi delle domande e provare a mettere un po’ di ordine nella propria testa, tanto stai sicuro che si incasinerà di nuovo.
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L'articolo Ghemon: qui per restare di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2021-06-10 13:07:00
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