Go Dugong e il giro del mondo senza uscire da Milano

Go Dugong ci racconta "Novanta", un disco che parla di mescolanza, di tolleranza, ma anche di paura

- ph: Piotr Niepsuj

Il primo dei due dischi pubblicati quest'anno, "A Love Explosion" è stata una mattata, il colpo di testa di un producer innamorato che non può aspettare per condividere la sua musica, ed è finito nella top 10 dei nostri dischi dell'anno. Ma in verità Go Dugong stava lavorando da tempo a un altro disco, che invece è stato pubblicato dopo. In questa intervista ci racconta della lunga gestazione di "Novanta", un titolo programmatico che indica tante cose: il bus che percorre la circolare più esterna di Milano, gli anni in cui è cresciuto, ma anche la paura.

"Novanta", il tuo ultimo lavoro, non è proprio un disco nuovo: era già pronto da un po’ e ha avuto un lungo periodo di gestazione, possiamo dire anche di maturazione.
Ho iniziato a lavorarci quasi tre anni fa; quando è uscito "A Love Explosion" avevo appena finito i mixaggi ed era praticamente pronto per uscire e, tra le altre cose, al tempo non avevo nemmeno deciso a chi farlo distribuire. In quel periodo con Edoardo di Fresh Yo! ragionavamo appunto se farlo uscire proprio per loro, insieme magari a un’etichetta all’estero. Poi un giorno li ho chiamati e gli ho detto “ragazzi ho un disco pronto” loro hanno risposto “sì certo, "Novanta", abbiamo finito di lavorarci adesso, lo facciamo uscire”, in realtà io intendevo un altro lavoro. Passato lo sconcerto, gli ho spiegato che in due settimane durante le vacanze di Natale avevo registrato "A Love Explosion", e ho insistito sul fatto che dovesse uscire subito, entro Febbraio. Mi hanno dato del pazzo scellerato più volte ma li ho ricattati, gli ho spiegato che si trattava di un omaggio a una persona, che non ero interessato né alle recensioni, né alla promozione: era un lavoro istintivo, come tale doveva essere trattato e, soprattutto, doveva essere in free download perché era un disco d’amore e l’amore non si vende e non si compra. Fortunatamente hanno accettato quasi subito. Nel frattempo "Novanta" è rimasto lì pronto, solo da masterizzare, e mi sono solo limitato a suonarlo dal vivo. A lavoro completato l’ho mandato a un po’ di etichette tra cui 42 records, che poi è stata la prima a dirmi subito di sì e da lì è poi partito tutto.

È un lavoro che si discosta molto dai precedenti: non è un album elettronico né un album hip hop, mi sembra piuttosto un ottimo disco di world music.
Esatto! È un disco di world music elettronico nell’approccio, perché comunque la composizione avviene tramite software mentre di suonato con strumenti veri c’è pochissimo; prende sicuramente influenze dalla musica hip hop. I Beatnuts ad esempio, ma soprattutto - e lo voglio dire - è influenzato dai lavori di Biga: lui mi ha davvero aperto il cervello perché i suoi djset e la sua ricerca come collezionista di dischi sono incredibili, i suoi mixtape li ho letteralmente consumati. Dal vivo poi è fantastico, gli ho sentito davvero suonare cose incredibili che vanno dalla cumbia alla psichedelia turca e così via.
Per "Novanta" l’idea principale era quella di riunire tutte le influenze e culture che popolano la metropoli sotto un unico comune denominatore: la cultura urbana. Sicuramente l’hip hop in questo gioca un ruolo importante, ci sono cresciuto ed è la musica che mi ha educato e che ha fatto da trampolino anche verso altri tipi di ascolti. Alla fine per fare quest’album mi sono completamente isolato per tre anni, mi sono completamente staccato da tutto l’affare chill wave e sono andato a riesumare le cose che ascoltavo prima; ho lavorato partendo da quelle.

Sei soddisfatto del risultato finale?
Molto, ma non lo posso più sentire, dopo 3 anni che lo suono dal vivo e che ci lavoro sopra credo di essere incapace di dare un giudizio obiettivo però sì, sono soddisfatto e mi piace. 

Il 2015 è stato il tuo anno d'oro: dischi molto apprezzati dalla critica (e non solo quella specializzata), e dal pubblico. I social sono pieni di gente che posta il tuo video o la copertina del disco...
Ma no sai, ho tanti amici su Facebook! Però sì sono contento, poi vabbè io faccio uscire i dischi sempre nei momenti più sbagliati dell’anno ma davvero non sto a guardare molto queste cose, anche perché fondamentalmente la parte che mi piace di più del fare musica è la ricerca; passo giornate intere ad ascoltare le mie robe chiuso in camera, sono forse più ricercatore che musicista, per cui davvero mi accorgo che faccio poco caso a quello che succede dopo l’uscita dell’album. 

Parlando proprio di questa ricerca, come avviene il processo di creazione: parti dal sample o dalla base ritmica?
Parto dal sample: passo interi pomeriggi in casa in cui faccio degli ascolti, campiono e creo librerie infinite e magari alla fine il sample da cui sono partito lo tolgo perché mi serve solo come base, come ispirazione. Ho sempre prodotto così già da quando giocavo con l’amiga a 16 anni. Solo ultimamente con "A Love Explosion" e "Novanta" ho deciso di lasciarli a vivere nelle tracce.

Da dove nasce l’idea di dedicare un concept album alla linea 90 di Milano?
Quella della 90 è un qualcosa che si è sviluppata dopo. Il concept è partito dall’idea di fare un album sulla metropoli degli anni ‘10. Dal momento in cui mi sono trasferito qui a Milano, in un contesto molto diverso da Piacenza che, seppure non piccolissima, è una città di provincia dove non hai tutti questi stimoli anche solo visivi, il mio approccio è completamente cambiato sia musicalmente che visivamente. Musicalmente girando nei quartieri o nei mercatini dove potevo reperire musica, ho trovato altri generi, altri stimoli; visivamente invece basta andare al mercatino di piazzale Cuoco (una situazione bella hardcore), per vivere una realtà molto diversa rispetto a quella da cui provengo. Un giorno poi ad album fatto, proprio prendendo la 90 ho pensato che fosse la perfetta chiusura del cerchio: su quel bus alla fine ci sono tante etnie, tante persone diverse che interagiscono ogni giorno in un posto chiuso che si muove all’interno di una metropoli che non è propriamente loro e ho pensato: “perfetto ci siamo!” 

Anche perché l’impatto che può avere la 90 su un ragazzo di Piacenza, almeno inizialmente, è bello forte.
Infatti, poi considera anche che quel numero è anche un omaggio all’epoca in cui tramite l’hip hop sono maturato musicalmente, oltre al fatto che il numero 90 nella smorfia napoletana rappresenta la paura.

Ci sta. La 90 a Milano è anche un catalizzatore di tensioni e oscurità: di liti su quel bus se ne vedono a bizzeffe, tu questo lato negativo di quella linea l’hai volutamente evitato e il tuo lavoro è molto solare, positivo.
L’obiettivo era quello di far convivere e coesistere pacificamente tradizioni, culture, etnie diverse: in un pezzo senti un sample di musica sud americana con sopra una linea di musica araba che combacia perfettamente in modo armonico. Lo vedo molto come un invito a una maggiore integrazione dei tempi di oggi.

Indirettamente è anche un omaggio a Milano. Tu che idea ti sei fatto di questa città musicalmente parlando: ti piace? Ti sei ambientato?
C’è qualcosa che mi piace, ma ambientato non so. Musicalmente mi sento molto distante da Milano, dalla musica hip hop che gira qui o dalla scena clubbing. Massimo rispetto ci mancherebbe, ma non rientra proprio nei miei gusti, qualche serata figa l’ho fatta, tipo le serate Mandala Funk dove senti dischi introvabili; mi piacciono anche i sound system reggae, cose che ultimamente Milano ha un po’ perso in favore di una patina fashion molto presente. Va bene comunque anche cosi, rispetto a dove stavo prima sicuramente qualcosa d’interessante la trovo sempre, penso ai ragazzi di S/V/N o le serate di Lobo al Leoncavallo. Diciamo che devi un po’ scavare nella scelta, se vai nel sottobosco cose fighe ne trovi. Milano rimane comunque una città che ogni giorno m’ispira tantissimo. 

Per "Novanta" hai scelto MC lontani anni luce dal nuovo flow in voga in Italia e anche all’estero. È un rap che guarda moltissimo agli anni in cui sei cresciuto e che riesce a creare un’armonia totale, il rappato si fonde perfettamente al groove che gli hai cucito addosso.
È esattamente cosi, la roba nuova senza generalizzare mi piace poco, pochissimo. L’attitudine delle produzioni e i testi non mi colpiscono. Io ascoltavo Premiere, le produzioni del Wu Tang. In Italia Deda (forse uno dei primi a campionare i grandi maestri italiani delle colonne sonore anni ‘60/’70) e Ice One hanno fatto cose imbattibili, i Beatnuts come ti ho detto prima mi hanno segnato tanto e io vado a ricercare quelle cose lì. Per le feat del disco è andata benissimo, si è creata subito una forte empatia e chi ci ha rappato sopra ha fatto un lavoro superbo, in cui io sono intervenuto realmente pochissimo. Alcuni pezzi li ho mandati la sera e la mattina dopo già mi era arrivato il rappato.

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È un disco che se lo guardi dal lato hip hop suona molto vecchia scuola, pur suonando molto molto moderno.
Sì credo possa piacere molto ai vecchi b-boy che spero possano apprezzare certi riferimenti, penso a quelli che magari ricordano cosa andava nei "Novanta", tipo questa cosa di inserire gli scratch al posto del ritornello. Sul fatto della modernità non so, se lo senti così sono molto molto contento ma, stando poi isolato musicalmente cosi tanto tempo, non me ne sono accorto. Considera che il disco che ho sentito di più nel 2014 è un mixtape di Biga del “2007”: “El Climatico”.

"Novanta" si inserisce in un mucchio di bei dischi usciti nel 2015, un’annata importante per la scena italiana.
Ecco io un po’ di cose da dire su questa scena italiana le avrei: siamo tutti consapevoli che in Italia ci siano dei producer che spaccano il culo, il problema è che una scena si può definire tale se riesce ad uscire dai propri confini nazionali e questo in Italia non sta succedendo, per quello ti dico non credo si possa parlare di scena italiana, almeno per ora. Fuori da qui al di là di qualche mosca bianca che muove un po’ l’estero, per il resto tutto il lavoro passa inosservato. Una scena locale c’è ed è importante ma purtroppo come ti ha detto anche Montoya si ferma ancora lì.
Trovare una colpa e di conseguenza una soluzione non mi sembra facile, forse il motivo risiede nel fatto che in realtà chi lavora in Italia guarda anche giustamente solo in casa propria e lì lavora principalmente, la vera svolta e di conseguenza la creazione di una scena italiana ci sarà quando gli addetti ai lavori capiranno che il mercato italiano è purtroppo limitato. Bisognerebbe davvero allargare i propri confini, i propri contatti, forse dovremmo tutti osare di più.

C’è qualcosa su cui stai lavorando?
Ho quasi finito il prossimo disco! Un altro concept album ma questa volta sulla natura, molto psichedelico, molto ipnotico, molto diverso dalle produzioni precedenti, un genere in alcuni momenti quasi post rave (una di quelle cose che ti ascolti dalle 4 alle 5 del mattino), in altri abbastanza dub. Anche qui il lavoro è influenzato da un episodio particolare: questa estate sono stato a Tokyo, sono finito a Shibuya, il centro della confusione e delle luci di quella città, e ho pensato: “basta non ne posso più, ne ho abbastanza di casino, rumori, metropoli”. Ho sentito il bisogno di isolarmi, di riscoprire il suono degli animali, dei boschi della natura, in pratica quello a Tokyo è stato un viaggio autolesionista che mi è servito per capire che non volevo più le cose precedenti (nonostante sia stato benissimo sotto mille altri punti di vista).

Il pomeriggio finisce così tra un tè giapponese e Giulio che recupera il mac e mi fa sentire alcuni dei nuovi pezzi del prossimo album: ritmi tamburellanti, Sud America, e davvero una sensazione di trovarsi in una giungla a stretto contatto con la natura. Ci sarà da divertirsi.

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L'articolo Go Dugong e il giro del mondo senza uscire da Milano di Mirko Carera è apparso su Rockit.it il 2015-12-15 15:35:00

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