Negli ultimi tempi il rap italiano ha preso a ragionare di frequente su stesso, il che mi pare un’ottima notizia. Nelle scorse ore è arrivato anche il punto di vista del numero uno di questo gioco, Salmo, che quando deve dire qualcosa di importante e spietato (come era già successo in questo caso), si mette comodo sul divano e si pianta la camera in faccia. “Il rap italiano non viene considerato all’estero perché non abbiamo un’identità, non siamo originali. Copiamo gli americani, i francesi, i tedeschi”, le sue parole. “La maggior parte dei rapper italiani, soprattutto quelli emergenti, si lamentano perché non riescono a trovare una posizione. Questo succede perché passate tutto il tempo a cercare di essere dei criminali credibili, però la musica è debole, ecco perché non combinate un cazzo”.
Le parole di Salmo, senza citarlo, riprendono la polemica di Sfera nei confronti del collega americano Young Thug, accusato di “razzismo inverso” per aver detto che i rapper europei parlano di ciò che non hanno vissuto e per questo non hanno alcuna credibilità. Ora, le generalizzazioni sono sempre fastidiose e sbagliate, ma al ragionamento di Thugger – e a quello di Salmo – è difficile dare torto.
Il rap, di per sé, è “solo” un generale musicale, “una forma di oratoria musicale” come lo definisce Wikipedia. Con la differenza che se uno fa bossanova o ragtime, o magari scrive un haiku, nessuno va a fargli le pulci, mentre se uno fa rap deve stare dentro determinati canoni, rispettare un codice e delle consuetudini. Questo perché la storia ha il potere di cambiare persino il significato delle parole e quella del rap, come hanno scritto David Foster Wallace e Mark Costello in Il rap spiegato ai bianchi, è la vicenda umana e artistica di un gruppo di persone che ha “trasformato l’orrore del suo mondo, tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violento nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita, ha trasformato questa specifica forma di orrore in una specifica forma d’arte d’avanguardia”.
Di questi temi, solo per rimanere ai tempi più recenti, mi è parlato di parlare con due rapper molto in gamba: Nayt e Inoki, se siete interessati andate a rileggere le due chiacchierate. Il punto, secondo loro e molto più modestamente secondo me, è che se si intende il rap come una forma di approccio ai quattro quarti, si facesse e dicesse un po’ il cazzo che si vuole – fino al quasi situazionismo della prima Dark Polo Gang –, se invece si pretende di fare parte di una linea temporale e di una “comunità”, quella dell’hip hop, allora valgono certe regole o per lo meno certi principi. Il rap, anche ora che ha sfrattato gli eredi di Claudio Villa da ogni chart, con questa cosa dovrà sempre confrontarsi. Rispettare questa storia e tradizione e proseguirla oppure fare a pugni con essa, provare a reindirizzarla. È legittimo, anzi coraggioso e onorevole. A differenza di scimmiottare, speculare su un passato da cui tanto hanno perso e tu stai solo guadagnando.
Che poi, in fondo, per "rispettare" il rap bisogna fare solo una cosa: essere autentici, personali, sinceri. Per questo tutti parlano di verità nei loro pezzi, ma sempre più spesso sono chiacchiere o tentativi di autoconvincersi da parte di artisti che indossano delle parrucche.
Questa pippa enorme e del tutto ingiustificata, per dire che finalmente mi è capitato di ritrovare quel “sacro fuoco” in una canzone. Una canzone che parla di riscatto. Che non vuol dire che tuo padre lavorava alle poste e ora tu c’hai gli Ice come Elsa di Frozen, ma che avevi delle cose da dire con una certa urgenza e (pur senza entrature) hai trovato il modo di farti ascoltare.
La canzone si chiama Milano, l’ha scritta Pablo. Prima di contattarlo telefonicamente per farmi raccontare questo suo esordio – ma sarebbe il caso di dire ritorno –, ci eravamo già incontrati due volte. La prima eravamo in uno studio televisivo: avevamo brindato e ci eravamo abbracciati – il mondo non era ancora il set di un film con Bruce Willis – perché avevamo fatto una cosa bella assieme, ed eravamo felici. La seconda volta eravamo in viale Monza, la zona in cui sta ogni volta che da Caserta viene a Milano. Ci siamo bevuti un caffè e abbiamo chiacchierato un bel po’, soprattutto del suo rapporto con questa città e di cosa significhi per lui essere qua. Ho ritrovato tutto nel suo brano. L’una e l’altra volta, nel bagliore dei suoi occhi ancora più che nelle sue parole, quel concetto – il riscatto – emergeva in modo molto evidente.
Conosco Pablo perché è il manager di Speranza – oltre che la sua seconda voce sul palco –, che accompagna in ogni momento rilevante della sua carriera. Insieme sono davvero una gran bella coppia: riservato e di poche parole Ugo – una delle cose più belle capitate alla musica italiana negli ultimi anni –, loquace ed entusiasta Pablo.
Il suo vero nome è Paolo Brazza e fa musica da tanti anni: ora ha cambiato pseudonimo, a indicare una ripartenza. Milano è un pezzo che parte da sonorità ed effetti trap abbastanza tradizionali, ma che presto si sposta verso dimensioni più melodiche e meticce, fino a richiamare la musica araba e più in generale del Sud del mondo, per poi esplodere in un finale rabbioso e non addomesticato. È uscita il 22 gennaio, con un beat di Frank, pseudonimo di Francesco Carozza, già producer di Speranza e Barracano. Vengono tutti dalla stessa città, Caserta, che è anche un luogo dell’anima come Speranza canta nella traccia Casertexas, contenuta nel suo ultimo disco.
Il pezzo racconta un viaggio, suo e del suo gruppo di amici, dal nulla verso un riconoscimento. Si potrebbe dire successo, ma il concetto è ormai troppo effimero e vacuo, come aveva spiegato bene Cosmo una volta. È qualcosa di diverso, in cui i soldi e i numeri degli streaming hanno un ruolo del tutto marginale.
Perché non mi avevi mai detto che cantavi?
Eh, ma ce ne sono tante di cose che non sai… Faccio musica da sempre e lavoravo al progetto da due anni assieme a Frank, che è il nostro dj da sempre. Il rapporto tra noi è più che decennale: è così che siamo arrivati a costruire il “progetto Speranza”, che dà vita a tutti quanti e senza il quale naturalmente ora non saremmo qua.
Ho visto che hai studiato Canto all’Università Della Musica E Dello Spettacolo di Napoli. Una formazione insolita per un rapper.
Io ho sempre voluto fare il musicista e ho sempre studiato per farlo. Mentre con le materie tradizionali ho facevo molta fatica – perché ho sempre avuto problemi di attenzione e un po’ di dislessia, e non ho mai ricevuto sostegno dalle istituzioni scolastiche – a 9 anni andavo seguivo già le lezioni di piano. E poi ho sempre cantato, oltre al rap mi sono sempre piaciute la musica leggera italiana e la musica napoletana.
Tipo?
Mario Merola è il mio mito. Da ragazzo ho lavorato come ghostwriter per cantanti neomelodici, alcuni anche di successo.
Perché non canti in dialetto?
Non ne sono capace. Anche se parlo dialetto per quasi tutto il tempo, quando devo scrivere non mi viene.
Quando ti sei avvicinato al rap?
Verso i 14 anni. Artisti preferiti? C'è stato un periodo che ero in fissa con Rick Ross e tutta la scena gangsta, prima che fosse portata all’esasperazione. E poi i Co’ Sang: mi pareva che, parlando la mia lingua, mi stessero insegnando come funzionavano tutte le cose.
Speranza quando arriva?
Da ragazzino, assieme a un gruppo di amici e coetanei, organizzavamo serate rap nei localini o nei ristoranti di Caserta. Erano delle specie di jam, col microfono aperto per chiunque volesse provare. Anche perché c’erano più "cantanti" che ascoltatori a seguirci. Speranza, che era più grande di noi ed era già un idolo in città, ci ha sempre supportato: veniva alle serate, dava una mano. Anche Frank e Barracano facevano parte del gruppo.
Che tipi eravate?
Siamo sempre stati dei bravi ragazzi, ma ragazzi di strada. Non aspiravamo al paio di scarpe firmate, ce le prendevamo false. Possibilità ce n’erano davvero poco e cercavamo di farci tutto in casa. Frank si è aperto il suo studio in garage perché le sale prove costavano troppo. Da quel momento abbiamo sempre fatto tutto lì, compresa la registrazione di Milano e buona parte dei pezzi di Ugo (Speranza, ndr), almeno fino al disco recente. Lo abbiamo sistemato di recente, abbiamo finito una settimana fa: come sempre abbiamo fatto tutto noi. Ugo, che è muratore, ha stuccato.
Speranza che dice di Milano?
Ogni progetto che facciamo, i pezzi di Speranza e Barracano e ora i miei, vengono discussi tutti assieme. Milano è uscita perché anche a Ugo piaceva, fosse stato solo per me forse non l’avrei fatto.
Da quanto sei il suo manager?
Dai primi video online, diciamo da Sparalo. A un certo punto abbiamo visto che la cosa cresceva e ci siamo detti che bisognava provare a fare le cose sul serio: io sono sempre stato abbastanza bravo a gestire le cose, a parlare con le persone e così abbiamo deciso che dovevo essere il “manager”. La realtà è che Ugo se la cava benissimo da sé, e io non farei questa cosa per nessun altro.
Che lavori hai fatto prima della musica?
A sedici anni facevo il cameriere, poi sono stato soprattutto nei cantieri. Ugo più sull’edilizia, io idraulica e quelle cose lì. Mi piaceva, l’ho fatto per una decina d’anni. Poi sono passato alla fabbrica, dove mi sono trovato molto male: mi facevo tipo dieci ore filate senza il tempo di fumare una sigaretta. L’ultima cosa che ho fatto è stata consegnare pasti col furgoncino agli enti pubblici, prendevo 100 euro a settimana in nero. Io non sono mai stato per la malavita, quindi ho sempre lavorato. Se la pensi così, a Casertexas devi accettare qualsiasi cosa perché le opportunità sono poche poche.
Ora guadagnate bene con la musica?
Per ora lavoriamo tanto, di certo non ci siamo fatti i soldi. Ma facciamo ciò che ci piace da quando siamo piccoli e sappiamo quanto vale, visto che per mettere assieme pochi euro abbiamo sempre dovuto faticare.
Cosa rappresenta Milano per te?
È tipo la fabbrica di cioccolato di Willy Wonka, o Atlantide ritrovata. Un posto dove possiamo esprimerci, che dà valore a quello che abbiamo dentro senza che imploriamo per essere ascoltati. Se questa cosa è possibile, Dio deve esistere per forza.
Milano non fa nulla gratis. Lo sai, vero?
Probabile, ma almeno sta dando una fetta anche a me. Anzi mi sta restituendo pure più di quello che offro io, probabilmente. Prima sono sempre e solo stato sfruttato, senza nessuno che pensasse di dover dividere con me.
Non ti sei mai sentito escluso, ghettizzato a Milano?
Io sono un terrone: Caserta è mia mamma, che un po’ ami e un po’ odi. Inevitabilmente finisce che a Milano ti senti solo, almeno all’inizio. Per questo stiamo sempre in viale Monza, perché somiglia a Caserta e ti sembra di incontrare la tua gente.
Milano racconta una storia di migrazione?
Sì, perché siamo tutti migranti. E figli di emigranti. I miei nonni hanno vissuto negli Stati Uniti. Ugo e la sua famiglia in Francia, prima di tornare a Caserta. Da questo punto di vista, Milano è un po’ terra promessa: fino a due anni fa io avevo visto la metro una volta sola, a Napoli, e preso un solo taxi, a Bologna. Credevo che fossero cose da ricchi, che non facevano per me.
E oggi?
Oggi passo due giorni a settimana in albergo, dopo che in 25 anni ci avrò dormito non più di 4 o 5 notti. In vacanza coi miei andavamo in campeggio e mio padre non veniva, perché lavorava pure ad agosto. Quindi viva Milano!
Cosa rispondi a Young Thug, secondo cui – estrema sintesi – gli europei non possono cantare il disagio?
Di venire in ferie a Caserta: durante il lockdown ho perso tre amici, e nessuno per Covid.
Non starai esagerando?
La gente è tornata a rubare le ruote delle auto, in strada non c’è più nemmeno l’asfalto. Non siamo solo noi, tutto il Sud è messo così. Quando vado a Roma vedo il degrado totale. In Italia c’è una situazione sociale molto pericolosa. So che c’è gente che racconta cazzate, situazioni di disagio che non gli appartengono, ma purtroppo non è il nostro caso. E io con la musica voglio fare proprio questo: raccontare la mia storia e quella della gente che mi sta vicino.
Farai un disco?
In primavera, spero. Abbiamo già 8 tracce lavorate, sono altrettante storie e portano altrettanti messaggi. Ci sono anche dei feat., italiani e stranieri.
Mi fai sentire il pezzo con Speranza?
Lui non c’è. Non avrei mai potuto fare una cosa così.
Anche tu pensi che sarai tra gli ultimi a morire?
Io non posso morire, perché sono già morto una volta.
Abbiamo parlato di sincerità fino a questo momento, e te ne esci con questa chiusura?
Dico davvero, sono stato morto per un paio di minuti. A Caserta se n'è parlato per anni.
Racconta.
Ero piccolo e stavo coi miei al cimitero. Che da noi ha una parte molto vecchia, tipo catacomba, dove vanno quelli che non possono permettersi il loculo. Scendi giù per delle scalinate molto buie e ci sono dei buchi, dove le bare sono appoggiate e ricoperte di terra. Mio fratello, senza farlo apposta, per portare il giglio della comunione alla nonna, mi spinse e mi fece cadere in un buco vuoto. Con il movimento mi cadde addosso anche un sacco di terra e io ero lì, sotterrato e immobilizzato. Se ne sono accorti dopo un po', mia mamma ha scavato con le mani per tirarmi fuori e poi i custodi del cimitero mi hanno dovuto rianimare. Io sono già morto, non è più un mio problema.
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L'articolo Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2021-01-29 11:07:00
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