Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) sono nomi che abbiamo imparato a conoscere bene nel panorama della musica italiana. Dopo l'annuncio della nascita del loro supergruppo I Hate My Village, oggi vi proponiamo la nostra intervista alla band in un viaggio tra l'Italia e l'Africa, con l'anteprima in esclusiva del loro primo disco omonimo, in uscita il 18 gennaio per La Tempesta International.
Com’è nato il progetto I Hate My Village?
Fabio: Il progetto nasce dall’approfondimento dell’incontro tra me e Adriano. Ci era già capitato di suonare insieme e ci conoscevamo, quando Adriano mi scrisse per propormi una suonata insieme gli risposi subito positivamente. Ci siamo divertiti già dalla prima volta, stupendoci di come le cose prendessero forma già dall’inizio e della nostra intesa. Chissà, forse eravamo anche nello stesso momento della nostra vita artistica.
Quando avete iniziato ad avvicinarvi, vi eravate già confrontati sul comune interesse per la musica africana?
F: Le jam già portavano in quella direzione. Ad un certo punto ci siamo fermati per definire insieme la forma e la direzione che volevamo prendere. La prima parola che ci è venuta in mente è Africa, generalizzando. Però non voleva nemmeno essere, e non è, un disco di world music. All’inizio c’era soprattutto molta voglia di suonare per stare insieme.
Quanto pensate che abbiano inciso nella direzione intrapresa le vostre collaborazioni con Bombino e Rokia Traoré (che rispettivamente Viterbini e Rondanini hanno accompagnato in tour, ndr)?
Adriano: La cosa bella della musica che abbiamo fatto è che è musica nuova. Vammela a cercare, una commistione così. Noi siamo due romani, innamorati della musica in generale. Suoniamo in due gruppi che hanno fatto del groove il loro marchio di fabbrica. Per noi la musica è proprio una necessità, non è un podio. Quando ti incontri umanamente su questi temi, la musica diventa veramente un incontro importante, sacro. E ha un valore, uno spessore. Chiaramente, abbiamo riportato nei nostri incontri quelle che erano le musiche che ci piacevano in quel momento. E, fin dal primo ascolto, abbiamo subito pensato che la musica africana potesse essere musica del futuro. Effettivamente è più innovativa di certa musica elettronica, per capirci. Ci è sembrato naturale poterla coniugare al nostro linguaggio. Senza forzature e premeditazioni.
F: In realtà, anche le collaborazioni con Rokia e Bombino forse sono accadute quasi dopo il nostro incontro. È un po’ un cerchio: eravamo già in un momento di approfondimento individuale verso la musica africana, che abbiamo avuto occasione di approfondire ulteriormente con loro. Siamo partiti da un filtro nostro, che ha innescato anche la scelta del nome del progetto, con il suo gioco di pronuncia tra mangiare e odiare. Siamo italiani che pronunciano male una lingua non loro attraverso il proprio filtro, creando una nuova lingua che prende anche significati diversi. Non vogliamo rifare i Tinariwen o Bombino. Forse è un po’ questo quello che è successo e in cui ci siamo ritrovati, con grande onestà.
A: Io credo che un italiano, un europeo o un americano non potranno mai rifare la musica africana. Anche se siamo certamente fan di questi ascolti.
Avete menzionato il nome del gruppo. Perché “I Hate My Village”?
F: Il nome deriva da un ritrovamento di Adriano nel sito Modern Ghana, la locandina di un cannibal movie intitolato I Ate My Village. Se ti capita vallo a vedere, ci sono tanti film meravigliosi, volutamente disegnati un po’ male, con vari personaggi con polpacci in mano… Ci ha colpito, ci sembrava appropriato al nostro suono. Buffo e violento in qualche modo. E poi, senza voler esagerare nei contenuti e considerando anche che il suono che vogliamo avere è più rituale, questo prende però anche un significato sociale e politico contemporaneo. Da una parte c’è il villaggio, in cui rivediamo noi, che siamo più indietro degli africani per certi punti di vista. Dall’altra, ci immedesimiamo in chi scappa dalla propria tradizione. Una tradizione che magari noi andiamo invece proprio a cercare e che potrebbe senza dubbio arricchire. Senza per forza fare del disco un manifesto. Ma non per paura, solo che sono argomenti che necessitano di ben altro impegno per essere veramente utili alla causa.
Il disco è stato prodotto da Marco Fasolo e vede alle voci Alberto Ferrari dei Verdena.
F: Adriano aveva già lavorato con Marco per "Film O Sound", la scelta è stata molto naturale. Ci siamo incontrati in studio con lui e abbiamo registrato per tre giorni, trascorrendone poi altrettanti insieme per il missaggio. Tutto su nastro, come fosse un live con il pubblico davanti. In questo senso, la capacità di Marco è stata quella di valorizzare le nostre tre storie musicali, evitando che una di esse si sovrapponesse alle altre. È anche vero che in un progetto è necessario stabilire dei confini, proprio perché tutto ciò che poi avviene al suo interno abbia valore.
A: Ne sono uscite diverse tracce strumentali, dove io e Fabio suoniamo diversi strumenti, anche se poi live sarà Marco a suonare il basso con noi. Lo consideriamo un membro della band a tutti gli effetti. A un certo punto abbiamo avvertito l’esigenza di aggiungere la voce e abbiamo subito pensato ad Alberto, un grandissimo talento che abbiamo in Italia, sicuramente tra i nostri preferiti. Gliele abbiamo mandate: tre giorni dopo ce le ha rimandate tutte indietro con le voci concluse e linee melodiche a cui non avevamo pensato.
Com'è stata l'esperienza in studio?
F: Marco aveva uno studio in un luogo fantastico nella bassa bresciana, in mezzo alla campagna. Ogni tanto, capitava che entrasse qualche animale. Durante le registrazioni abbiamo anche dormito lì, faceva freddissimo. Soprattutto, il livello di artigianato era proprio di altri tempi. Il lavoro di Marco lo è. Anche in questo: per eliminare i ronzii, Adriano ha registrato alcune parti dentro una gabbia di acciaio. Il mio aneddoto è il ricordo che ho di Adriano, che è una persona molto morbida, con gli occhi iniettati di sangue all’ottava volta che prendeva la scossa da questa gabbia (ride, ndr). Una cosa veramente divertente.
A: È stata un’esperienza…(ride, ndr). Certamente il paesaggio che abbiamo vissuto quando abbiamo registrato è presente nel disco. Un aneddoto che ricordo con piacere fu una volta che staccammo dalle registrazioni, un po’ esausti, e andammo a pescare in un fiumiciattolo lì vicino, che divenne anche un po’ il simbolo di quelle registrazioni. Quando stacchi un po’ dalla musica e vai a fare altro. E poi, il pescatore musicista secondo me incarna anche un po’ la persona felice.
Prima avete citato la locandina del film che ha ispirato il nome della band. Come avete scelto Scarful, l’artista che ha disegnato l’artwork del disco?
A: Scarful è un artista romano un po’ old school, ma costantemente attivo anche in progetti magari meno probabili, meno di moda.
F: Ci è subito venuta in mente la sua cifra più horror, meravigliosa e subito riconoscibile. Avevamo visto suoi lavori che ci erano piaciuti tantissimo, perché, pur non essendo poi simili alla locandina dei cannibal movie, avevano il medesimo effetto di finto approssimativo. Erano molto dirette, molto contemporanee. Gli abbiamo chiesto di mediare tra ciò che aveva già realizzato in precedenza e locandine famose di quel genere di film.
Prima Fabio ha chiarito che il disco non ha un carattere di manifesto, ma mi piacerebbe sapere se riteniate che un lavoro come il vostro possa costituire anche un invito a considerare la diversità come valore, più che come rischio.
F: Secondo me è un po’ il momento di ritornare a riconoscerci come chi è nell’emisfero più piccolo del pianeta, a livello di mentalità. C’è senza dubbio una sensibilità verso questo argomento, secondo me non solo nostra. Il nostro chiaramente non è un invito a odiare il proprio villaggio. Magari è il monito che in fondo così rischiamo invece di sbranarlo, mentre esso potrebbe essere davvero una fonte di cibo culturale, una grande forza. Comunque, una cosa che mi trovo a ripetere spesso ultimamente è che già cercare di fare una cosa fatta bene è di per sé un gesto politico, secondo me molto forte.
A: Io mi auguro che questa musica possa far scaturire degli interessi e creare una possibilità realmente alternativa rispetto a quello che siamo abituati ad ascoltare. Se dovesse arrivarci un ragazzo che dopo aver ascoltato il disco ci dice che siamo riusciti a fargli pensare che la musica può andare anche altrove e che può essere fatta in un’altra modalità, per me questa sarebbe una cosa importante.
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L'articolo La musica africana è il futuro: ascolta in anteprima esclusiva il debutto degli I Hate My Village e leggi l'intervista di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2019-01-16 10:30:00
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