A distanza di tre anni da "Flores", Iacampo continua il suo viaggio musicale a cuore aperto, raccogliendo undici frutti ormai maturi dai fiori di campo alla riva del mare: in occasione dell'arrivo di "Fructus", in uscita oggi per Urtovox e Ala Bianca, abbiamo chiesto al "pittore elementare" di raccontarci la nuova tappa di un percorso dipinto di intuizioni vitaminiche e suggestioni tropicali. Fiorito intorno allo stesso nucleo delicato, ma ricco di nuovi colori per raccontarlo.
Dopo “Valetudo” e “Flores”, "Fructus" sembra un po’ il punto della tua situazione, dello stato dell’arte della tua poetica musicale e umana. A tratti persino un manifesto: già nella traccia di apertura “Il frutto del deserto” canti di te mentre scrivi una canzone, citando alcuni precisi elementi che ritieni legati a te e alla tua musica. Ti rivedi in questa descrizione?
Sicuramente sì. Questa non era una trilogia premeditata, lo è diventata in modo naturale. È stato un andare passo dopo passo: “Valetudo”, come primo disco in cui vale tutto, poi “Flores”. Mi sembrava che la frase andasse completata: vale tutto, sia i fiori che i frutti. Per quanto riguarda lo stato dell’arte in questo disco, mi riconosco in quello che dici, mi sto portando dietro tutto quanto. Non penso di star facendo un disco diverso dall’altro, sto cercando di continuare a costruire attorno allo stesso nucleo. In questo disco c’è un po’ di “Valetudo” e di “Flores”, ma anche qualcosa di ciò che sono stato in precedenza. Nel live c’è addirittura un po’ dell’approccio che avevo con il progetto Goodmorningboy e qualcosa che riguarda il mio primo disco solista, “Marco Iacampo”, passato un po’ in sordina, ma nato in un momento molto florido a livello di scrittura, in cui stavo riavvicinandomi alla lingua italiana. In quel periodo, fra 2007 e 2008, ho scritto due pezzi presenti nel nuovo disco, che non ho tirato fuori per dieci anni, cioè “Un giorno splendido” e “Anni luce”. Sto mettendo un po’ a frutto tutto ciò che ho imparato finora. Ma veramente tutto.
Quindi il titolo dell'album si collega alla percezione di aver maturato tutto il tuo percorso.
Sai a cosa è legata questa maturazione? Forse semplicemente alla coscienza che ho adesso di tutte le parti del mio percorso. Prima avevo sempre esplorato singole parti della mia creatività, adesso ho coscienza di tutte queste. Nelle varie età della vita, dall’infanzia in poi, si sperimentano parti di se stessi quasi a volerle poi rinnegare, negando ciò che si è vissuto prima. Io credo invece che la maturità dell’essere umano stia anche nell’abbracciarsi completamente, accettandosi con le proprie differenze e contraddizioni. Penso che questo nel disco ci sia.
Spostiamoci sulle singole tracce. Visto che hai citato l’infanzia: nel primo pezzo si sente anche la voce di tua figlia, la piccola Vittoria Stella. Mi ha colpita molto che tu abbia voluto che la sua nascita fosse menzionata anche nella tua biografia, dichiarandola quindi a tutti gli effetti un avvenimento per te importante anche a livello artistico.
Il 2010 è stato sicuramente un momento topico della mia vita. La mia arte è molto vicina alla mia vita personale, tendo a non parlare di altri, soprattutto in questa trilogia. Nella biografia ci sono due date di nascita: la mia e quella di mia figlia, che in qualche modo è coincisa anche con una mia rinascita personale. Che, da “Valetudo” che è il mio primo disco come papà, mi ha visto riprendermi. Ho cominciato a riconsiderarmi, artisticamente ma anche fisicamente. Il mio approccio con la chitarra, con la voce: tutto è coinciso con la nascita di Vittoria, che per me è stata proprio proprio un richiamo alla vita, alla sincerità. E alla verità, soprattutto, che è una cosa che va sempre sondata e rimessa in discussione, è dinamica. Me l’ha chiesto Vittoria e andava fatto.
Hai anticipato il disco con il singolo “La vita nuova”: il pezzo ha svelato un’evoluzione di suono in una direzione molto caraibica ed esotica, dove il tuo cantautorato si riempie di ispirazioni di provenienza latinoamericana attraverso tutto il lavoro. Com’è nata la collaborazione con il produttore del disco, il brasiliano Gui Amabis?
Gui Amabis è un artista che ho scoperto attraverso una radio brasiliana online, che ascolto spesso per scoprire che cosa si muova lì. È un artista che già moltissimi anni fa avevo sottolineato come una mia ispirazione. In Brasile ha un nome, è un bravo produttore. Ha prodotto anche Céu, ad esempio. Ha lavorato nei film, crea colonne sonore. Qui non è noto come in Brasile. Ci ha messi in contatto Andrea Sbaragli di A Buzz Supreme in maniera un po’ rocambolesca, è stato un fiume di eventi che alla fine ci ha portati a collaborare insieme. Lui è un artista che scrive canzoni, ma in questo disco ha lavorato soprattutto con campionamenti da vecchi vinili, campionando e modificando tutte le parti, allungando le note e creando una sorta di orchestrazione, un terzo livello dell’arrangiamento che ha modificato totalmente anche il proseguire del disco e la sua intensità. Era un disco molto più morbido prima dei suoi interventi, che sono di orchestra, ma anche di fiati, percussioni e ritmiche. Il lavoro che stavo facendo con Leziero Rescigno, che è lo stesso produttore di "Flores", si è arricchito di questo elemento, che ha proprio dato una marcia in più all'album. Tra l’altro, questa sera saremo al Volume di Firenze per un release party del disco e ci sarà anche Gui Amabis.
Come dicevi, Amabis ha lavorato moltissimo attingendo da vecchi vinili: era musica a cui ti eri già interessato e che conoscevi o è stata anche per te un elemento di novità?
Diciamo questo: io nei dischi di Amabis ho sempre trovato la stessa componente di molti dischi di Paolo Conte, più rara da trovare in buona parte dei dischi che escono oggi, ed è la componente del mistero: nei dischi di Gui, come in quelli di Paolo Conte e spero in qualche modo nei miei, non puoi decifrare chiaramente tutto, dire “questo è un Roland” o “questa è un’influenza dagli anni Settanta”. Rescigno mi ha seguito nel creare dei suoni dal nulla. Quello che fa Gui Amabis è sì riprendere dei vinili spesso sconosciuti di calypso, musica brasiliana o vecchie orchestre jazz, ma il lavoro che ci fa dopo è molto grande. Stretcha, cambia di tonalità, sputtana un attimo il suono. Alla fine, il risultato è un suono che non sai bene da dove venga. Per risponderti, io non conosco neanche uno dei dischi che ha depredato Gui Amabis, perché alla fine molte volte il suono non c’entra niente con l’originale. Che è la stessa cosa che appunto apprezzavo nei suo dischi: mi chiedevo da dove venissero i suoni che sentivo.
Da sempre ti occupi di curare l’artwork, i video e in generale l’estetica del tuo progetto. Com’è nata l’idea del video de “La vita nuova”?
È un’idea che mi è venuta nel giro di cinque minuti. Una visualizzazione. Spesso in fase creativa è importante prendere al volo l’ispirazione, ma anche abbandonarsi ad associazioni libere, perché sono rivelatrici. Molte volte, a razionalizzare tutto e a fare di tutto politica non riesci a raggiungere il nocciolo molto profondo delle ragioni che ti spingono a fare una cosa. Ho visualizzato questa macchina che trasportava il passato, traghettandolo verso il futuro. Un’idea molto semplice. Con me, dentro a questa macchina, ci sono alcune vite che stanno cambiando: quella di un demone che dovrebbe far paura ma in realtà non ci riesce, un manager molto pensieroso rispetto alla persona fredda e calcolatrice che dovrebbe essere, una ragazza che ha bisogno di cambiare vita. E poi un orso, una sorta di testimone che non fa nulla, sta lì, come un bambino che partecipa alla crescita di tutte queste persone, chiedendosi dove lo stiano portando dall’inizio della sua vita. Come la propria fanciullezza, che molte volte rimane una spettatrice inascoltata. Ho pensato a una persona composta di tante persone e di tutti i loro demoni, mi sono fatto ispirare dalle atmosfere di David Lynch per molte cose. La regia è stata affidata a Michele Piazza, che è un grande esteta del video e con cui ho realizzato anche il secondo, in uscita fra poco.
In un disco comunque positivo, ne “Le mie canzoni” chiedi ai tuoi brani di portarti via dal male. Pensando anche a diversi riferimenti se vuoi un po’ sociali e velatamente di attualità presenti in varie tracce, di che cosa ha paura oggi Marco Iacampo e in che cosa vede il male?
Sembra banale retorica, ma penso che il male più grande ce lo facciamo noi stessi. Anche abbandonando una ricerca di ciò che è la vita e il rapporto con la vita. Viviamo in una società in cui stiamo credendo a tantissime cose, molte volte basate su moralismi di destra, di sinistra, antagonisti o filogovernativi, quando invece la direzione naturale dell’uomo punta verso un sentire diverso, una sorta di estrema razionalità che porta alla considerazione di un’unione totale degli esseri e delle vite. Se non arriviamo a questo concetto, continuiamo a dividere e a dividerci. Ci sono due concetti sociali in questo disco, in “Dividi il pane” e in qualche modo anche dentro “Le mie canzoni”. Da una parte, l'importanza di riuscire a liberarsi, da cui il timore di concludere questa vita senza esserci riusciti. Dall’altro, quello di aiutarci l’uno con l’altro, perché altrimenti non si riesce a godere di questa libertà. Nel momento in cui si è liberi, la compassione porta a soffrire per quelli che ti sono vicini. Per cui questa è la mia più grande paura, non riuscire a liberarmi e a godere di questa vita con chi ho attorno. Perciò, so che le mie canzoni sono fondamentali: le chiamo canzoni perché alla fine i miei pensieri finiscono lì, ma ognuno può dire “voglio che i pensieri che mi hanno portato verso il muro in cui sto sbattendo, adesso mi portino via”.
Visto che l’hai menzionata anche tu, come nasce la riflessione di “Dividi il pane”?
È un pezzo che sicuramente ha un valore a livello politico, un messaggio che negli anni Ottanta avresti potuto trovare in una canzone di Sting o Bob Marley. A livello spirituale, che è un po’ quello che segue tutte le epoche e trascende l’ambito politico, sociale, personale o psicologico, ripeto che è una coscienza quella che porta a scrivere una canzone del genere: la coscienza di sapere che, senza il benessere di chi ho attorno, io non riesco a essere contento della mia felicità, della mia liberazione. È per questo che, sia in termini economici, che di amore, che di qualsiasi cosa, l’obiettivo è rendere tutto uno. Non c’è mio, non c’è tuo: è questo il tempio massimo a cui bisogna ispirarsi. Poi il percorso è accidentato e bisogna stare attenti. Come dice Jesus, bisogna essere “puri come colombe, astuti come serpenti”. Guardarsi anche le spalle. Però il tempio è quello lì, soprattutto tra esseri umani.
Un pezzo molto interessante è “Demoni”, una traccia calypso dedicata alla consapevolezza delle proprie scelte. Com’è nata?
La componente demoniaca che ognuno ha dentro di sé è parte della vita e solo nel momento in cui l’accogli capisci le ragioni che ti hanno portato al punto in cui ti trovi, attraverso un dato percorso. Capisci come le tue scelte siano dovute anche ai demoni con cui hai a che fare. È una canzone che, al tempo stesso, balla coi demoni e nel farlo definisce la propria canzone. Lo stesso per noi: senza ballare coi propri demoni, è difficile definire in pieno la propria canzone e accettarsi completamente. È una questione che secondo me va ricordata, perché altrimenti si finisce di nuovo nei moralismi e nei personalismi, che allontanano dalla considerazione della realtà per quella che è, con le sue contraddizioni e le sue profonde caratteristiche. Che sono quelle che molte volte ci fanno compiere scelte che non riusciamo a giustificarci e che giudichiamo, mentre sei tu che ti stai chiedendo di fare quella determinata cosa. Se uno riesce a non giudicarsi, con questi demoni ci può ballare, per portarli verso un’altra direzione.
Il disco ha una certa speranza, un senso di collettività, ma si chiude con “Anni luce”, canzone che come raccontavi prima avevi in cantiere da molto tempo: un brano chitarra-voce molto semplice, che sembra discostarsi dai precedenti e farsi interprete di riflessioni più malinconiche e in solitaria. Qual è il messaggio ultimo con cui hai voluto chiudere il capitolo finale di questa trilogia?
Quella è la perfezione che vola via. Perfezione che al tempo stesso ti illumina e ti lascia a quello che sei. Nell’estetica dei nostri giorni, molte volte si rinuncia alla perfezione, perché fa paura e perché c’è un po’ il culto della bruttezza, una sorta di accettazione spasmodica dei propri brufoletti (ride ndr). Il rapporto con la perfezione deve essere sano, illuminare il proprio cammino. Farci sentire parte di una catena evolutiva, darci la possibilità di liberarci e nello stesso tempo lasciarci come siamo. L’essere di “Anni luce” per alcuni è un angelo, per alcuni un alieno, per altri ancora sono io. Se ci penso, per me potrebbe anche essere l’uomo in un ipotetico futuro di perfezione. Qualcuno che viene a darci due insegnamenti: dare sempre voce a ciò che si ha dentro e rendersi conto di quello che si ha e che si è, prima di andare a cercare altrove. Poi però vola via e ti lascia lì, a vivere la tua vita di tentativi e di crescita. È una canzone che parla di un rapporto sano, amichevole e paterno con la perfezione. Perché se il culto della bruttezza ti fa rinunciare alla perfezione, è anche vero che l’opposto ti mette all’angolo, facendoti dubitare sempre di ciò che stai facendo e di quello che sei.
Ricordo che una sera di qualche mese fa, chiacchierando in un locale di Venezia, mi dicesti che secondo te la capacità dei grandi cantautori è quella di riuscire a percorrere la linea sottile fra racconto e poesia. Pensi di esserci riuscito in “Fructus”?
Secondo me sempre più. Molte volte la poesia ti aiuta a unire la parola alla musica, ed è una scuola che in Italia non abbiamo quanto in altri Paesi, penso ad esempio al Brasile. Sono convinto che questi due elementi siano fondamentali: il racconto, per creare con le persone un ponte di significato e di stato condiviso, la poesia per trascenderlo e renderlo condivisibile sul piano dei sentimenti e della musica. E, sinceramente, spero sia una ricerca che non finisca mai.
---
L'articolo La grazia dei fiori, la maturità dei frutti: ascolta il nuovo album di Iacampo e leggi l'intervista di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2018-05-11 10:00:00
COMMENTI