L'idea è stata sua, gli è stato chiesto se voleva collaborare con Rockit per qualche intervista e lui ha subito risposto: ho una grande stima per Fausto Rossi. Quel Faust'O con cui ha condiviso il palco a Ferrara lo scorso luglio, che nel '95 ha prodotto il suo "Lungo i bordi" e che a 12 anni dall'ultimo "Exit" esce con un nuovo album, "Becoming visible". Due personaggi importanti si fanno una chiacchierata: ne esce uno scambio di mail garbato, significativo, utile a capire sfumature inedite del modo in cui si vede la musica - oggi come trent'anni fa - in Italia.
Nel corso degli anni è mutato il tuo approccio alla musica o ciò che tu ti aspetti da essa?
Non so, non riesco a risponderti. Faccio fatica a focalizzare la parola "approccio". Mettiamo da parte questa domanda.
Nei tuoi dischi sono piuttosto riconoscibili alcune influenze straniere, penso a Ginsberg e al movimento beat in generale, a Cale, ai Pil oppure ai Talking Heads. Più difficile rintracciare dei modelli italiani. Esistono?
No. Non mi sono mai interessato alla musica italiana. Già a tredici anni correvo ad acquistare i dischi d'importazione alla base militare di Aviano: Hendrix, Mc5, Velvet Underground. Poi ho cominciato a studiare etnomusicologia e ad ascoltare molta musica contemporanea, soprattutto Stockhausen. Certo, sapevo chi fossero Mina e Battisti, bastava accendere la televisione o avvicinarsi a un juke-box per farsi un'idea di come funzionassero le loro canzoni. Ma le cose che arrivavano dall'estero erano cento volte più stimolanti. All'epoca in Italia eravamo ancora bloccati all'800 da un punto di vista armonico. Mancava totalmente quel senso di libertà che si respirava nella musica americana o inglese. Ma poi non credo fosse solo una questione musicale. Anche politicamente la sinistra italiana non è mai stata quella americana, così come Boulez non era Cage. Forse per questo non mi sono mai sentito vittima di un imperialismo culturale. Ho sempre pensato che la musica che faccio sia molto contaminata. Ha le sue radici in Africa e sono radici sane, che continuano a dare i loro frutti, malgrado il business che c'è intorno. Io sono semplicemente andato incontro a quelle radici. Liberamente.
Visto che la tua produzione alterna dischi in inglese e in italiano, posso chiederti in che momento della realizzazione di un disco decidi quale lingua utilizzerai?
Fin dall'inizio, anche se in un primo momento mi affido sempre all'inglese per sviluppare la linea vocale. Il passaggio più arduo è l'adattamento all'italiano. Spesso parto da una rima di Shakspeare o di Blake, ma raramente ne conservo il senso. Quello di cui ho bisogno è una base metrica solida su cui innestare le parole. Solo una volta mi è capitato di scrivere un testo direttamente in italiano. Si tratta di "Silenzio totale", il brano di apertura di "Exit". Ero di fronte alla televisione a guardare il concerto del 1°maggio. Stranamente per quelle che sono le mie abitudini, le parole sono uscite fuori di getto. Ma anche in quel caso, prima di giungere alla stesura definitiva, c'è stato un passaggio intermedio in cui mi sono affidato all'inglese, sempre per una questione metrica.
Il tuo primo disco "Suicidio" è del 1978. Come autore hai attraversato almeno tre generazioni. Come vedi l'evoluzione della musica in questi trent'anni?
Sono convinto che ci sia stata un'evidente involuzione. Al di là della qualità, gli anni 80 avevano portato nuovi timbri e nuove forme espressive. Poi, d'un tratto, inspiegabilmente, si è deciso di tornare indietro agli anni 60. Tutto questo a conclusione di un secolo veramente ricco e innovativo, iniziato con Stravinskij e Schoenberg, proseguito con la scuola di Darmstad e parallelamente con la beat generation e la nascita del rock'n'roll. Fino ad arrivare ai Beatles e ai Sex Pistols.
So che hai preso le distanze da Faust'o. Cos'è che rinneghi di quel periodo: la tua immagine, l'ambiente o la musica stessa?
Sono dischi (parlo dei primi tre e in parte di quello inciso per la Ricordi) che non sento del tutto miei. In quel periodo dovevo scontrarmi continuamente con l'ignoranza che imperava nella CGD, totalmente all'oscuro di quello che era il mio percorso artistico. Per dirne una: durante la registrazione di un disco non potevi allontanarti un attimo dalla regia. Il rischio era quello di ritrovarti assurdi arrangiamenti prog buttati lì, in mezzo a un sound dalla chiara impronta new wave. E tutti a dire "Che figata questa tastiera che abbiamo aggiunto. Eh, Fausto? Non credi che ci stia proprio bene? Perché fai quella faccia?". Del resto, voglio dire, avevano in catalogo i fratelli Bella. I Joy Division non sapevano nemmeno chi fossero.
Per colpa loro persi anche un aggancio con la Rough Trade, interessata a lanciare sul mercato inglese "J'accuse amore mio". La loro idea era quella di registrare nuovamente il disco con altri musicisti e sostituire l'italiano con l'inglese. Contattarono a CGD, ma non ebbero mai risposta. Naturalmente io venni a conoscenza di tutta l'operazione quando ormai era troppo tardi.
Qual è il tuo stato d'animo sul palco? Ti piace la dimensione live?
Dipende. Posso essere tranquillo o teso, a seconda di alcune ovvie variabili che naturalmente conoscerai anche tu: il livello di preparazione con cui ti presenti in scena, la qualità e la quantità di pubblico presenti, la qualità del suono. Ma in linea generale considero il palco il mio habitat naturale, un po' come la Champions league lo è per il Milan.
Il fatto di essere considerato un artista fuori dagli schemi, isolato dalla scena, ti ha mai pesato?
Più che altro me lo sono goduto l'isolamento. Parlo soprattutto del periodo vissuto in campagna negli anni novanta. Avevo molto tempo a disposizione, vivevo in uno stato d'ispirazione continua. Non a caso ho scritto due dei miei dischi più belli proprio in quel periodo: "L'Erba" ed "Exit". A volte vengo assalito dal timore di non riuscire più a scrivere così bene. La città limita il tuo spazio interiore, ti assilla con le sue commissioni: la spesa, il cane, una madre anziana da accudire.
Se invece intendi il termine isolamento come mancanza di visibilità, penso che fosse inevitabile. Diciamo che me la sono andata a cercare. Prendi "Faust'o", il mio quarto disco. Era andato bene a livello di vendite. Alla Ricordi erano convinti che con il disco successivo saremmo entrati in classifica. Ma io non avevo voglia di proseguire su quella strada e ho cominciato a lavorare su un album triplo, assolutamente fuori da ogni schema commerciale. Per un artista straniero è diverso. Puoi permetterti svolte artistiche anche difficili perché hai a disposizione un mercato molto più vasto in cui puoi ritagliarti il tuo spazio, magari limitato, ma comunque vitale. Pensa a Robert Wyatt o allo stesso John Cale. Qui, se segui il tuo istinto, finisci emarginato.
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L'articolo I Massimo Volume intervistano Faust'O di Massimo Volume è apparso su Rockit.it il 2009-09-28 00:00:00
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