La profezia di Izi: "Prevedevo gli scontri, questo disco è l'urlo di chi non ce la fa"

"Riot", il terzo album di Izi, è un lavoro ricco de feat., ma fuori dalle logiche del mercato, nel quale, il rapper genovese, tra una strofa e l’altra, si diverte a dirigere un cast di prim’ordine. E acquista ancor più importanza alla luce dei recenti scontri in piazza

Izi, 25 anni, al suo terzo album ufficiale. Foto Mattia Guolo
Izi, 25 anni, al suo terzo album ufficiale. Foto Mattia Guolo

Riot è il terzo album in studio per Diego Germini, in arte Izi, esponente della prima generazione trap italiana e ora, a tutti gli effetti, penna di punta del nuovo cantautorato italiano.

Il senso dell’album risiede nel titolo. Il rapper genovese è partito da una celebre frase di Martin Luther King – "Le mie sono le parole di chi non è mai stato ascolto dopo aver urlato per un'eternità" – e l'ha applicata all’album in un contesto più ampio, che invita gli ascoltatori a una rivolta che non ha niente a che vedere con la violenza. Un messaggio il cui eco diventa ancor più universale in questo ironico gioco del destino: la data fissata per l’uscita di Riot è coincisa con la settimana che ha portato ai violenti scontri in piazza causati dall’emissione dell’ultimo DPCM.

Dal punto di vista artistico, Riot vede Izi vestire i panni non solo di rapper, ma anche di direttore artistico, impegnato in un lavoro di selezione che, come ci spiegherà, non ha c'entra con le moderne logiche gonfia-ascolti imposte dalle major. Produttori italiani (Sick Luke, David Ice, Duffy, Marco Zangirolami e Benny Benassi) e internazionali (Sean Da Firzt, Jhonny Dutra, Bijan Amir, La$$a, Mohr, Leny Magoufakis, Prinzly, Todiefor), 14 featuring tra nuove promesse – Vaz Tè, Leon Faun, Guesan e Piccolo G  e vecchie leggende – Dargen D’amico, Fabri Fibra, Guè Pequeno, Gemitaiz –della scena tricolore, più tre pesi massimi – Dax, Idk e Sav12 – da Stati Uniti e Canada. 

Dopo esser diventato famoso per il suo ruolo da protagonista nel film Zeta, Izi in Riot si comporta da regista alle prese col suo primo kolossal. E con un cast di primo livello.

Partiamo da titolo dell'album. Come l'hai scelto? 

Riot è stato un percorso tortuoso. E forse proprio per questo bello, appagante. Il titolo è stata l’ultima delle cose arrivate. Riot, a differenze dei miei precedenti lavori, più che come un album è stato ideato come una raccolta di favole di un poeta antico che, in ogni canto, narra una morale, un argomento, una storia diversa. Non è un album elaborato intorno a un concept, quanto un disco completamente attraversato da un fil rouge. Hai presente quel programma condotto da Amadeus in cui i concorrenti dovevano trovare la parola che univa tutte le precedenti dandogli un senso? Ecco, considerando anche i fatti più recenti, credevo che Riot fosse la risposta giusta.

La concomitanza temporale è assurda. Il titolo, però, era già stato annunciato…

Sì. Io non potevo saperlo, ma, a te che mi conosci un po’, non mi vergogno a dire che l’avevo predetto. Non mi piace fare il santone, ma sarei falso ad ammettere che non ho avuto questa visione. Del resto, nel disco ne parlo, mi espongo senza paura. E le canzoni sono state scritte ben prima dei recenti scontri. È come se io sentissi la responsabilità, la sofferenza di tutte le altre anime del mondo. Il mio disco è l’urlo di una persona che non ce la fa più, un urlo contro le ingiustizie che forse, addirittura, trova la sua forza in vite passate. Certo, è curioso come un album intitolato Riot sia uscito proprio nella settimana degli scontri e delle rivolte.

Riot è stato “annunciato” con una frase di Martin Luther King e, ascoltandolo, non ho potuto non notare il claim presente nella prima traccia dell’album. Anche in questo caso, c’è una specie di continuità?

I fatti successi in America non li avevo predetti. Sono sensibile, non sensitivo, “can’t breathe” è un claim che ho aggiunto il giorno stesso dell’omicidio di George Floyd. Pensa si possa capire non sia stato usato a fini strumentali: non riesco a respirare è uno slogan che ci può accumunare tutti e che, senza la stessa violenza e per ragioni diverse, ho vissuto anche sulla mia pelle. “I can’t breathe” è un urlo contro i soprusi. Quella di oggi è una battaglia che non è mai finita e continua dai tempi di Luther King. Vorrei fosse chiaro questo concetto: quella di Riot è una violenza intellettuale che nasce da una pretesa di giustizia. Non è negazionismo, non è cospirazionismo. Non c’entrano la fede o le idee politiche.

Ph. Mattia Guolo
Ph. Mattia Guolo

A proposito. Riguardo i recentissimi scontri, cosa pensi?

Martin Luther King è stato uno dei fondatori della rivolta pacifica. Spaccare le vetrine di Gucci a cosa è servito? Riguardo ai recenti scontri non posso dire nient’altro, la guerra tra poveri è una stupidaggine. Dovremmo essere uniti e imparare ad aprire la mente, saper distinguere la verità dalle stronzate che ci propinano politici e artisti, sottrarsi al lavaggio di cervello che i media attuano quotidianamente. Questo è l’unico modo per ottenere giustizia, per disabituarci alla merda, sociale e musicale, che ci circonda.

Tra Pizzicato (qui la nostra prima intervista) e Aletheia (e qui la seconda) c’è molto più scarto che tra quest’ultimo e Riot. Il tuo ultimo lavoro mi sembra la naturale conseguenza del precedente, Riot è lo spin off di Aletheia.

Ora ho venticinque anni, lavoro da quanto ne ho diciotto, professionalmente sono cresciuto molto. Sono successe un sacco di cose, quello che scrivo nella mie canzoni può apparire criptico, ma è la mia vita. Credo di essere maturato anche come persona. Non riesco più a stare tranquillo dentro questo Truman Show. Io voglio sentirmi libero. E oggi viviamo in un’era in cui devo avere paura a pronunciare qualsiasi frase. Pizzicato esprimeva la sofferenza, Aletheia la presa di coscienza, Riot è il momento dei fatti. Pizzicato era la storia del topino che arrivava spaventato nella grande città. Aletheia è il topino che, insieme all’altro topino, cerca un metodo per sfuggire dalla gabbia. Riot rappresenta l’esercito di sorci pronti alla rivolta alla stregua del pifferaio magico. Voglio essere l’Assassin's Creed della musica italiana, voglio essere il sicario del potere. Io mi sento in missione. E lo sono da chissà quante vite.

Una libertà che si è tradotta in una moltitudine di featuring…

La gente è vittima di pregiudizio. Chissà cosa si aspettavano quando ho svelato la tracklist. Sicuramente, avranno pensato i featuring fossero motivati dalla major per pompare gli ascolti. Sono un operaio della musica. Uso il termine operaio perché noi artisti siamo i primi a dover scendere dal piedistallo, non possiamo pretendere basti fumare qualche canna per sputare sulla gente che ci ascolta. Dobbiamo lavorare per loro, per chi ha veramente voglia di ascoltare, impegnarci per pubblicare degli album che non siano le solite stronzate. Chiudere così tanti featuring può sembrare un espediente per semplificarsi la vita, invece è il contrario, ho cercato di auto-stimolarmi, di mettermi in difficoltà. Aletheia era un lavoro consapevole, ma in Riot, lavorativamente parlando, mi sono imposto in una maniera completamente diversa: ho fatto da vero e proprio direttore artistico.

Ph. MattiaGuolo
Ph. MattiaGuolo

Come hai agito in questo nuovo ruolo?

Se domani dovessi fare un featuring con Ed Sheeran, lo farei in modo che avrebbe senso. Ora. Ma dovevo maturare la consapevolezza e la personalità per poter gestire questo ruolo. In alcune tracce ho pensato stesse bene un determinato timbro, o il sound di uno specifico producer. In altri brani ho scelto il featuring per la capacità di trattare determinati argomenti. In Miami Ladies ho voluto ricreare l’atmosfera della scena cult di Grease. Sono state spese un sacco di parole inutili sulla presenza di Elettra ancor prima di ascoltare l’album, invece con Guè è stata perfetta. Ho agito come un regista che scegli i ruoli per il proprio cast: per una commedia, il nome più adatto è quello di Adam Sandler. Non ho scritto un album, ho scritto un copione.

Da Coleridge ai poeti italiani, mi hai sempre fornito delle reference letterarie. Grease, Matrix, Al Pacino, il film di Frida Kahlo. Con Riot, sin dal primo ascolto, ho avuto l’impressione fosse il tuo album più “cinematografico”…

Beh sì, a me quella roba piace. In quest’ultima quarantena, se non avessi avuto il cinema, non so come ne sarei uscito. Ma in generale il cinema ha giocato un ruolo fondamentale nella mia vita, anche in periodi più bui. Se in Aletheia il film principale è stato sicuramente Il pianeta verde, per Riot, al di là delle varie citazioni, la gran parte delle ispirazioni è arrivata dai documentari. Sto lavorando con Gabriele Micalizzi, il più grande reporter di guerra italiano, per me è limitante pensare solo alla musica. Ho fatto l’attore, il direttore artistico, forse farò il regista. Non è megalomania, questa mia strabordanza è dovuta a quel che voglio dire: a me è ben chiaro in testa, ma bisogna trovare diversi linguaggi per renderlo comprensibile a tutti.

Mi viene naturale pensare che un lavoro con così tanti feat sia stato ideato post lockdown.

No, il contrario. Anzi, tante collaborazioni sono proprio state chiuse in quarantena. Avevo molto più tempo, stare chiuso in casa mi ha veramente dato modo di svarionare. Le produzioni, però, sono state tutte curate di persona. Ho svarionato anche in studio, giornate passate a fare richieste assurde ai produttori: un piccolo Kanye West genovese. La quarantena ha rivoltato le prospettive sulla tecnologia, da strumento che ci teneva distanti a unica fonte di calore umano. Poi ovviamente c’è la vita, ci sono i miei viaggi, a Miami, a Parigi a Nizza, città dove abbiamo stretto rapporti con gli artisti internazionali presenti in quest’album. Se si vuole lavorare in modo professionale, si può fare anche a distanza. Bisogna essere vicini umanamente, in questo disco c’è molto sentimento, fare la parte del direttore artistico vuol dire anche questo: Domani e Flop non erano pezzi miei, ma Piccolo GLeon Faun sono ancor molto giovani, avevano paura di deludere le aspettative. Questo è ciò che da produttore artistico mi ha reso veramente fiero: perseverare il mio credo. Anche Sony non voleva Chic, ora è triplo disco di platino.

Ph. MattiaGuolo
Ph. MattiaGuolo

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L'articolo La profezia di Izi: "Prevedevo gli scontri, questo disco è l'urlo di chi non ce la fa" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-10-30 17:00:00

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