James Jonathan Clancy è un nome di quelli che contano nella scena alternativa italiana, e di certo non solo per come suona "poco italiano". È che lui qua dentro ha fatto di tutto: suonato in vari gruppi, collaborato con band e artisti di diversi generi e generazioni, organizzato eventi, creato una label che è a oggi una delle realtà più effervescenti e convinte di questa galassia.
Una cosa Jonathan Clancy non l'aveva mai fatta. Un disco da solo. Ora, dopo le esperienze con His Clancyness , A Classic Education, Settlefish e Brutal Birthday, a sette anni di distanza dall’ultimo disco, per l'artista italo-canadese che vive a Bologna è tempo del primo album a suo nome. Si intitola Sprecato e uscirà il 2 febbraio per l'etichetta che lui stesso ha fondato: Maple Death Records.
Del disco si può già fare un corposo assaggio, perché sono uscite diverse tracce: Had It All, Precipice, Castle Night e To Be Me, che seguono I Want You e A Worship Deal. Sono pezzi molto diversi tra loro, tutti "suonatissimi", uniti da un'atmosfera sospesa e sognante e dalla sperimentazione costante. La descrizione che lui stesso fa del disco è molto indicativa. "Loner folk cosmico, minimalismo bucolico, proto-elettronica, psichedelia roots ed estasi ambient, unite a un lirismo 'walkeriano' e dilatazioni oniriche tracciano una linea di confine attraversata da un alien cowboy in perenne trasporto emotivo".
Assieme a Clancy c'è un cast di amici e ospiti internazionali che dà perfettamente l'idea del valore e della storia del personaggio, oltre che del milieu sonoro con cui da sempre si accompagna: Stefano Pilia (co-produttore, chitarra, modulare, synths, basso/Afterhours, Massimo Volume, Zu), Andrea Belfi (batteria), Enrico Gabrielli (flauti/PJ Harvey, Calibro 35), Francesca Bono (piano/Bono-Burattini), mentre il fulcro della band è formato da Dominique Vaccaro (chitarre/J.H. Guraj), Andrea De Franco (synths/Fera) e Kyle Knapp (sax/Cindy Lee, Deliluh).
L’album scritto e registrato tra Bologna e Londra. La parte visiva è importante quasi quanto quella sonora: tutto l'apparato grafico è curato dal disegnatore Michelangelo Setola, illustratore di Bologna classe 1980, con cui Clancy per oltre un anno si è scambiato suggestioni, fino all'idea di lavorare assieme. Gli Sprecati (Canicola Edizioni 2020) è il titolo di un progetto di Setola, che riflette sui temi dell'alienazione e dell'apocalisse, ma anche un po' della redenzione. Di seguito la nostra chiacchierata con il "neo-solista" Jonathan Clancy.
Partiamo dalle immagini di Michelangelo Setola. Perché hai voluto rendere in musica la sua opera?
Venivo da un periodo molto difficile, quei momenti di cambiamento epico di tutto ciò che si ha attorno: citta, amori, case. A Londra dove mi ero trasferito non avevo particolari strumenti, se non una chitarra e un piccolo synth della mia coinquilina (Cecilia dei Qlowski). Ma non suonavo, avevo perso quella routine quotidiana. Michelangelo Setola mi era stato molto vicino e forse per spronarmi e tirarmi fuori dal buco nero in cui mi ero cacciato mi aveva parlato di questo suo nuovo fumetto. Aveva l’idea di mandarmi delle tavole, su cui poi io potevo scrivere della musica e cercare così di autoinfluenzarci a vicenda. Piano piano questo mi ha completamente riacceso, piccoli frammenti si trasformavano in canzoni e quando non avevo manco le parole, semplicemente avevo davanti questi scenari da cui attingere. Per me Setola è unico, non conosco nessuno più artista di lui: ha questo tratto pazzesco che in pochi segni riesce a mettere assieme fragilità, disperazione, rassegnazione e, anche se non lo ammetterebbe speranza. In qualche modo seguire una traccia mi ha reso più libero.
In che direzione hai voluto portare il tuo primo disco da solo?
Penso che il cuore musicale del disco sia la voce, alla fine penso sia quello il mio strumento o la cosa in cui mi sento più naturale, a mio agio. Diciamo che il disco voleva mettere insieme quelle che sono le mie due passioni più grandi come musicista: da una parte la forma canzone, il folk-rock solitario e notturno, i canti spirituali, un mondo polveroso, e dall’altra la proto-elettronica di fine ‘70, l’analogia dei synth, l’ambient cosmica e tutto quello che poteva essere una sorte di alveo per le parole.
Dici che il disco è una "pastorale urbana". Ossia?
Significa trasportare quella visione bucolica e cosmica in scenari e contesti più alienati e di disperazione, schiacciati dalla società e non solo in simbiosi. Ma forse anche il contrario, ovvero cercare un paesaggio idealizzato nei contesti urbani, impermeabilizzarsi e cercare un proprio "campo" mentale tra gli edifici.
La cosa più bella, e quella più difficile, quando non fai un disco per sette anni e poi torni in pista.
La più bella riscoprire una droga che ti mancava, quella cosa che ti equilibria e che senza cammini storto, come se ti mancasse la "messa a terra". Mi sentivo così. La cosa più difficile è ricostruire un'abitudine, un tuo percorso che ha senso. Sono testardo e volevo assolutamente fare il disco completamente da solo, suonare tutto io, ma non ne uscivo fuori. Sono stati tre anni buttati: arrivato al 50/60% ho capito che dovevo affidarmi a qualcuno ed è nata l’idea di finire il disco con Stefano Pilia. Con Ste ci conosciamo da oltre 25 anni, per cui c’e’ stata una naturalezza clamorosa, non me l’aspettavo, un'unione totale. Finito il disco, mi mancava proprio l’idea di vederlo in studio e passare i pomeriggi insieme.
Quanto hai dovuto modificare il tuo processo produttivo rispetto al passato?
Ho scritto tutte le canzoni tra il 2017 e 2023. Avevo registrato gran parte della musica da solo tra Londra e Bologna, poi nel 2022 ho timidamente iniziato a fare qualche concerto e ho sentito l’esigenza di suonare con amici ed era naturale chiamare Dominique Vaccaro (J.H. Guraj) e Andrea De Franco (Fera). Con il trio abbiamo ricostruito la parte folk-elettrica del disco in qualche modo, registrandole interamente live. Con Stefano abbiamo riaperto i progetti delle altre canzoni e man mano risuonato e/o aggiunto strumenti in base alla direzione che volevo prendere. Sin dalle prime canzoni mentre ero a Londra volevo un sax, così Kyle Knapp (Deliluh, Cindy Lee) c’è praticamente dalla prima canzone scritta: Castle Night. Per Had It All avevo in testa questa piccola esplosione di flauti e subito abbiamo pensato a Enrico Gabrielli, anche perché avevo questo riferimento di una canzone di Tim Hardin. Per il pianoforte è stato naturale pensare a Francesca Bono e per la batteria ad Andrea Belfi. Tutti musicisti e musiciste con cui ho un rapporto di amicizia e che sono abituati a registrare velocemente, senza fronzoli. Devo dire che non ho cambiato troppo il processo rispetto a prima, sono tornato, diciamo ad affidarmi più ai miei deliri. Ahahahah.
Meglio o peggio che con la band?
Mi manca la band. Anche in passato dove scrivevo le canzoni alla fine ho sempre costruito una band. Mi piace quella dinamica, essere una piccola gang quando si è in giro. Niente batte quella sensazione, soprattutto in un mondo fatto di sconfitte, pacche sulle spalle, piccole soddisfazioni e grandi insoddisfazioni. Bisogna essere in tanti per dividersi questo carico. Ora per fortuna dal vivo tornerà quel mondo.
Sei stato in tutti questi anni, talvolta anche da distante, uno dei principali agitatori culturali bolognesi. Che momento è per la città?
Nella musica non vedo stagnazione. Continuano ad esserci sempre cose interessanti. Forse siamo più bravi ad accogliere, organizzare che a proporre musica. Ho sempre pensato che a Bologna "tutti ne sanno" e in qualche modo questo, invece che stimolare la creatività, porta spesso a un'estrema codificazione e un'emulazione di modelli "giusti". Ci sono città come Roma o piccoli centri in provincia che secondo me sanno raccontare le cose con maggiore originalità e con uno sguardo meno comune, magari per le cose che interessano a me. Come locali invece la città rimane senza eguali: durante il Covid addirittura aprivano posti e ogni giorno nascevano collettivi o situazioni nuove. Io poi sono sempre stato dell’idea di non fare le cose in risposta a… ma di farle per creare un'alternativa o una strada tua. Per cui in qualsiasi momento difficile, invece di stare online a lamentarmi, ecco un nuovo concerto, un nuovo spazio, un festival.
La musica indipendente come sta?
A me non mancano mai gli stimoli, ho la fortuna di avere molti amici e amiche che suonano o hanno etichette e in qualche modo è una sfida continua. Non devo posare lo sguardo lontano. Come pura espressione musicale mi sembra un gran momento, peccato se ne accorgano in pochi. Anche quest’anno ho organizzato SMANIA e sinceramente tutte le volte scopro etichette nuove che veramente stanno spingendo i confini e spaccandoli, trovando nuove strade per comunicare e per fare comunità.
Con Maple Death che orizzonti vi siete dati?
Da una parte il 2023 e stata l’annata migliore per l’etichetta con 11 uscite tra cui i dischi di Bono / Burattini, Krano, Andrea Belfi, Giulio Stermieri, Laura Agnusdei, Fera, Lourdes Rebels, Adam Badi Donoval, Ancient Plastix, Jerome, Whitney K, dall’altra trovare una sostenibilità sta diventando un inferno e le notti insonni sono tante per cercare di capire come pagare le fatture e far quadrare tutto quanto. Quest’anno, mai come prima. Poi c'è questa ossessione che non ti lascia e dopo qualche giorno di "sturm und drang" passa… e il 2024 ha già tantissime cose in calendario, come il disco dei SabaSaba, Jack Name, Heart Of Snake & Mira, TV Dust e altre sorprese.
Siamo di fronte a un ritorno dell'underground in risposta a una discografia sempre piu parossistica e omologatrice?
Di sicuro quando c’è talmente tanta musica terrificante in giro come in questo momento e soprattutto in Italia dove la musica "indie" e’ totalmente ammaliata e schiacciata dalle solite regole, tutto quello che sta sotto trova nuovi fiumi, nuove strade. Mi sembra un po’ quel momento.
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L'articolo Con inquietudine, James Jonathan Clancy di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-01-19 11:51:00
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