L'anima leggera dei Joe Victor: l’altro lato del rock’n’roll

Ci raccontano le loro canzoni: apparentemente le potreste catalogare come classici pezzi rock ma, in realtà, hanno un animo molto più profondo e personale.

Joe Victor
Joe Victor

Il loro esordio, "Blue Call Pink Riot", è stata una delle scoperte più importanti del 2015. Poco più di un anno di vita e hanno già fatto tantissime date (e il pubblico è sempre più numeroso). Sono amanti delle belle melodie (si mettono pure a cantare durante l’intervista) e hanno alle spalle una cultura musicale vastissima. Ci raccontano queste canzoni: apparentemente le potreste catalogare come classici pezzi rock ma, in realtà, hanno un animo molto più profondo e personale.

Ho fatto parecchie ricerche ma non trovato quasi nulla su di voi, da quanto esistono i Joe Victor?
Gabriele: Da poco più di un anno. 
Valerio: Noi due ci conosciamo da parecchio ma abbiamo sempre suonato per i fatti nostri, così, standocene in camera. Poi nel 2009 abbiamo formato un gruppo dove facevamo country punk in italiano, la Superarancia, ma non abbiamo mai pubblicato niente. Trovi un giusto un video su YouTube ma niente di più. 

Quanti anni avete?
G: 27.

Non si direbbe.
V: Ti ringrazio (ridono, NdA).

Intendevo dire che, capelli bianchi a parte, dalle vostre canzoni emergono degli ascolti che attribuiresti a gente più grande. Mi dite tre nomi che potrebbero rappresentare i Joe Victor?
G: Al posto dei soliti Creedence, che è un po’ il nome che fanno tutti riferendosi a noi, ti direi Exuma, Cat Stevens e Skip James.
V: Non abbiamo mai ascoltato cose molto contemporanee. Ovviamente ci sono canzoni di oggi che ci piacciono ma non c’è un gruppo che seguiamo in particolare. L’unica eccezione, per me, sono i Radiohead.

Siete di quei nerd che si studiano le discografie dal primo all’ultimo album?
G: Non esattamente. O meglio, io ho avuto un percorso più particolare. Prima che chiudesse Megaupload c’erano molti blog, specialmente americani, che mettevano in free download dischi rari che difficilmente trovavi su iTunes e nemmeno nei negozi specializzati. Robe pachistane, sudafricane, sudamericane o vietnamite, era una sorta di gigantesco archivio di musica etnica ma creato con un approccio pop, appunto perché a sceglierle erano dei blogger e non dei professori di etnomusicologia. Le canzoni avevano sempre un ritornello fico, il riff catchy, ecc. Abbiamo scoperto artisti come Joseph Spencer, un cantante delle Bahamas che abbiamo ascoltato a lungo, e molti altri. Ci eravamo rotti le scatole del rock’n’roll, anche se ovviamente nella nostra musica c’è una matrice, diciamo, “classic rock”.
V: I Beatles e i Beach Boys ce li siamo magnati, per dire, e anche Bowie ed altri artisti glam.

In casa i vostri genitori ascoltavano musica?
G: In realtà no. Quando ero adolescente io gli chiedevo spesso di determinati dischi, ed erano tutti artisti che conoscevano bene perché erano del periodo in cui loro erano giovani, ma loro niente; al massimo ascoltavamo la musica in macchina. Ho scoperto tutto da solo grazie alla pubblicità del Mulino Bianco, quella dove Freddie Mercury cantava, “Why don't you take another little piece of my heart” (cantano, NdA). Grazie a quella io ho scoperto il rock’n’roll…

Qualcuno di voi ha studiato musica?
V: Io, composizione classica.

Ed è servito per scrivere queste canzoni?
V: A volte sì ma nella maggior parte dei casi è più core che saper metter bene una nota sopra l’altra.

Tra quelle presenti in “Blue Call Pink Riot” quali sono le canzoni di cui siete più orgogliosi?
V: Ti direi “Days”, “Love me” e “Tomi”, anche se quest’ultima poteva venire molto meglio, non c’è quell’impatto live… 

Partirei da “Love me”.
G: Molte canzoni di questo disco hanno una doppia chiave di lettura. Di solito non ne parliamo ma spesso c’è una componente spirituale nei testi. È una cosa molto personale, quasi mi imbarazza raccontartela. “Love me” è una preghiera rivolta ad un dio o, diciamo, ad un sentimento più grande. Tutti credono che il testo dica “Calling to the reggae people” ma in realtà è ragged.

Che io ho interpretato come disperati.
G: Esatto. È un po’ una situazione che ci accomuna tutti.

E il dio a cui ti riferisci è quello che conosciamo tutti o, come spesso accade, è una metafora che rimanda a qualcos'altro?
G: Puoi interpretarla come una canzone rivolta ad una ragazza, ad un dio metaforico o anche al dio che conosciamo tutti. Le tematiche più profonde cerchiamo sempre di nasconderle sotto una struttura semplice che comunichi spensieratezza & rock’n’roll. Nel testo di “Schoolbus" è palese: parla della morte, è praticamente un testo gospel. Se spulci ne trovi tanti di riferimenti simili.

Spulciamo.
G: "Days" è bellissima, mi dai la penna?

Fai pure.
G: Parla di un tipo di amore… non voglio esagerare ma prende l’amore come se fosse una condizione storica, un sentimento che porta le persone ad amarsi sempre di più. È una condizione di benessere che oggi vivono tutti i ragazzi: il poter uscire la sera a bere e divertirsi, “drink lover, drink again” (sottolinea la parola sul foglio, NdA). Ho letto un articolo l’altro giorno che ci definiva la “generazione Bataclan” perché quella tragedia ci ha fatto capire di colpo come ci fosse una libertà che noi davamo per scontato ma che, in un attimo, poteva cambiare. La canzone ovviamente è stata scritta prima dei fatti di Parigi ma racconta qualcosa di simile: l’amore, ad un tratto, si rompe. La macchina, “My love machine”, si inceppa e la vita diventa “a furious game”, un gioco assurdo. E “Daddy”, che è…

…Lui.
G: Esatto. “Lui” sta provando a riaggiustare le cose mentre i giorni vanno avanti, “Daddy is mending when days go by”. Capisci come la canzone possa avere più livelli, la puoi interpretare come la ballata per una ragazza che ti ha fatto soffrire o come un sentimento molto più ampio e importante.

In effetti questo tipo di spiritualità rimane più nascosta, a maggior ragione in un disco di canzoni rock classiche, quasi di maniera.
G: È voluto. Noi siamo persone piuttosto spensierate e vogliamo che questo aspetto rimanga nella nostra musica.

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Come avete registrato questo disco e come ha lavorato il vostro produttore Fabio Grande?
V: Ci abbiamo messo un anno per registrarlo. Abbiamo fatto una prima tranche a fine agosto 2014 ed una seconda cinque mesi fa. 
G: Dopo tante canzoni scritte e dopo tanti arrangiamenti accumulati negli anni, non avevamo per niente le idee chiare. E tieni presente che non eravamo mai entrati in una sala di incisione. Fabio ha avuto la bravura di indirizzare delle canzoni che partivano tutte da generi diversi. Tu prima parlavi di “disco di maniera”. È vero, noi ci rifacciamo tanto agli anni ’60-’70 e a qualcosa degli anni ’80, ma non la chiamerei musica “di genere”. Non siamo un gruppo garage e nemmeno un gruppo blues: ci sono ritmiche e suoni diversi, dalla psichedelica al synth pop. Mettere tutto insieme e ottenere qualcosa di omogeneo non è stato facile. In più dovevamo trovare una forma che fosse facilmente eseguibile dal vivo. 


Qui a Roma avete un grande seguito, fate sold out in posti da 700 persone lasciando anche la fila fuori. Come ci si costruisce un pubblico simile?
V: Bellezza a parte intendi? (ride, NdA) Abbiamo suonato tanto e si sono create situazioni veramente belle. Ai nostri concerti c’è un’atmosfera quasi sacrale.
G: Come avrai visto, noi Facebook lo usiamo pochissimo, quindi penso davvero sia solo merito dei concerti. Mi ricordo che una volta un signore mi disse: "voi fate una cosa che a Roma non accadeva da tempo, fate uscire la gente che vuole divertirsi con la musica dal vivo". Non è il concerto del cantautore che presuppone un certo atteggiamento intellettuale, è musica per il gruppo di amici che vuole far serata e non ha voglia di andare in discoteca. Non è per tirarsela ma davvero vediamo sotto palco la gente esaltata. In futuro vorremmo riuscire a portare questo tipo di atmosfera anche su disco.

Non è così scontato, sai, che una band dopo solo un anno di vita riesca ad ottenere risultati simili. Quanti concerti avete fatto nel 2015?
G: A breve supereremo i 100 concerti. Sia chiaro, prima non volevo passare per arrogante, semplicemente ti riporto cosa mi dice la gente. Con noi il passaparola ha funzionato molto, decisamente più di Facebook. E anche a Milano è andata molto bene, 400 persone ed era solo la seconda volta che ci suonavamo.

Come vi dividete i compiti all’interno del gruppo?
V: Per fortuna c’è Marco, il nostro manager, che è a tutti gli effetti un quinto elemento della band.
G: Prima curavo tutto io e tieni presente che sono uno svampito, sono decisamente distratto, ma ci credevamo tanto e siamo andati avanti comunque. Poi una sera abbiamo chiesto a Marco se voleva essere dei nostri e lui ha risposto che se non gliel’avessimo proposto si sarebbe fatto avanti lui. Insomma, puro amore per la causa. Da allora ci segue sempre.



Con voi la domanda “progetti per il futuro” vale più che per altre band. Come rispondete?
V: Se ci stai chiedendo dove saremo tra 10 anni, non sappiamo risponderti. Siamo più bravi scrivere canzoni che a parlare di queste cose.
G: Vogliamo suonare tanto, soprattutto all’estero. E fare un secondo disco bellissimo.

E l’idea di affidarvi ad un produttore straniero l’avete mai valutata?
V: Se trovi un matto che ci prende, perché no? Più che quello, il nostro sogno è farci produrre almeno una canzone di Iosonouncane.

"Die", il suo ultimo disco, vi è piaciuto?
V: Non è il mio genere ma la canzone “Stormi” è un capolavoro.
G: È veramente bravissimo. Ha talento e poi l’abbiamo anche conosciuto al Folkfest ed è davvero una bella persona, molto umile.

Ci sono degli altri italiani che vi piacciono?
V: Ci piace Truppi, ci piace l’ultimo disco dei Thegiornalisti, te ne dovrei dire molti. Nell’ultimo anno ci siamo accorti che ci sono molti gruppi davvero validi in Italia, la qualità è alta.

Invece c’è un songwriter da cui è partito tutto, quello che vi ha fatto capire che avreste scritto canzoni per tutta la vita?
V: Un cantautore in particolare no, più canzoni sparse direi. Una volta ero in macchina con una ragazza - non mi ricordo dove stavamo andando, Roma nord forse - e parte “Idioteque” dei Radiohead. Lei era tutta contenta, ballava, per me è stata un’illuminazione. Mi sono detto: ma come fanno questi a farci prendere così bene nel bel mezzo del nulla, di notte, solo con una canzone? Così ho deciso che mi sarei messo a studiare musica classica.
G: Tante canzoni di Cat Stevens o di Bob Dylan. Fai ascoltare Cat Stevens ad un quattordicenne che ha appena imparato a suonare la chitarra e vedrai.

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L'articolo L'anima leggera dei Joe Victor: l’altro lato del rock’n’roll di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-12-15 12:22:00

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