Kiave: il rap ha bisogno di ironia

Kiave racconta il nuovo album "Stereotelling", un disco importante e complesso che sfida i limiti che l'hip hop si autoimpone

Kiave
Kiave - Tutte le foto sono di Tommaso Gesuato

“Stereotelling” è un disco complesso e importante. Complesso perché guida l'ascoltatore in un percorso vario e “sconnesso”, offrendo molteplici risvolti lirici e musicali. Le produzioni curatissime, che mischiano con sapienza il nuovo con sonorità che strizzano l'occhio alla Golden Age, accompagnano la voce del rapper calabrese in un tragitto che passa da pezzi d'amore allo storytelling, vero punto forte di Kiave, che con l'uso di immagini nitide e la scelta della parola giusta nel posto giusto è un maestro nel trasportarti dentro alle situazioni.
Importante perché Kiave non è artista da un disco all'anno, e soprattutto con questo suo ultimo lavoro mira a risposizionare se stesso all'interno di una scena, quella dell'hip hop italiano, che negli ultimi anni muta ad una velocità impressionante. Ci va con autorevolezza a prendersi il suo spazio, un'autorevolezza datagli dall'esperienza e dalla sicurezza in quello che vuole dire e nei suoi mezzi. La stessa sicurezza che lo porta a sperimentare, a usare soluzioni in parte nuove, a dire apertamente la sua su quello che lo circonda e su se stesso.

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“Sono contento che arrivi questo” ci confessa Kiave “C'è un sacco di lavoro dietro a questo progetto, infatti ci ho messo tantissimo a portarlo a termine. La presa di posizione è proprio quella di cercare di dimostrare che si possono fare cose attuali e moderne anche relazionandosi al mercato americano, però senza staccarsi troppo dall'origine. Questo non è il primo disco che faccio, sono cresciuto nella Golden Age e quindi sarebbe un po' forzato tentare di fare qualcosa che si distacchi completamente dalle mie radici. Però intorno a me è cresciuta la realtà dell'etichetta, stando a Milano ho avuto la possibilità di lavorare e interfacciarmi con varie persone tra produttori, rapper e musicisti. E quindi ho cercato di concretizzare tutto in qualcosa che fosse estremamente mio ed estremamente rappresentativo degli ascolti che ho fatto ultimamente. Come ad esempio la rivoluzione che ha portato un po' Kendrick Lamar, che fa suonare tutto in un certo modo ma, se tu hai un background di ascolti giusti (Slum village, A Tribe Called Quest) sai che le radici stanno altrove".

Tra le chiavi inedite del tuo nuovo disco c'è uno smaliziato e esplicito uso dell'ironia.
Vero. Perché comunque penso che l'hip hop soffra un po' di questa continua pesantezza. Basta con questo prendersi troppo sul serio! Frequentando Dario Brunori, lui mi ha sempre detto questa cosa, ovvero che l'hip hop gli piace però manca l'ironia. Allora io sono andato a scavare, e comunque scavando scopri che in realtà c'è un Turi che ha sempre usato quest'arma, ma anche nel rap americano c'è tanta ironia in determinati personaggi, vedi RedMan o Q-Tip.

Un disco che porta un bel po' di novità, come dicevamo. E a livello di live cosa dobbiamo aspettarci?
Anche lì vedremo di rivoluzionare. Girerò con Gheesa, lui è un maestro del finger drumming. Ci saranno un sacco di beat suonati dal vivo, interventi con l'MPC, col sequencer...cercheremo di movimentare un po'. In alcune date ci saranno delle sorprese, sempre con un'attitudine estremamente hip hop, ma anche più musicale del solito.



A proposito di hip hop, come ti collochi tu nella scena italiana in questo momento?
Non lo so sinceramente. Mi colloco comunque ancora su un filone hip hop real, i testi hanno quella matrice. Penso però di avere liriche e sonorità un po' più maturi. In questo disco ho cercato di abbandonare le punch line, l'autocelebrazione...poi, per carità, qualcosa la metti sempre. Però ho eliminato tanto di quello che poteva essere la distruzione fine a se stessa, l' “Io non sono così, io non sono cosà”. Ho cercato piuttosto di dire chi sono io e raccontare delle cose. Per quanto riguarda la scena italiana, vedo un po' di effetto fade out. Vuol dire che c'è bisogno di reinventarsi. Penso siano usciti talmente tanti dischi belli ultimamente in Italia negli ultimi cinque o sei anni che hanno stabilito dei canoni. Cercare di continuare su quelli oggi non so dove possa portare. C'è bisogno di novità. E anche di rischio! Per questo l'ironia, la ricerca di suoni diversi, il non assecondare la moda del momento. Anche perché, diciamoci la verità, l'hip hop italiano non ha questo enorme bacino d'utenza. Quindi credo che dovrebbe essere un po' più libero. Che poi paradossalmente l'underground è molto più soggetto a regole di quanto non lo sia il mainstream, lo vedo molto chiuso. L'hip hop è una cosa positiva, se diventa un limite, una gabbia anche se ha le sbarre dorate è pur sempre una gabbia.

Che poi i limiti nel mainstream sembra se li mettano a volte i rapper stessi...
In quel contesto ci sono altri meccanismi, che io nemmeno conosco, quindi non ne parlo. Però anche lì una volta erano le major che ti limitavano, ora a limitare gli artisti è l'idea stessa della major, la paura di sconfinare da certi limiti. Invece spesso alla major non gliene fotte un cazzo.

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L'articolo Kiave: il rap ha bisogno di ironia di Matteo Villaci è apparso su Rockit.it il 2016-02-15 15:19:00

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