Madre sierraleonese, padre pugliese, nato a Bruxelles e cresciuto come cittadino del mondo. Per capire davvero la musica di Laioung è quanto mai necessario conoscerne la vita: quella di un piccolo imperatore che è arrivato in Italia e grazie a collaborazioni prestigiose con i grandi del rap e le nuove voci della trap ne ha conquistato il territorio, con una visione a 360° di cosa voglia dire, oggi, fare musica. Non solo produrre e avere dei contenuti, ma fare business, dice. L'abbiamo intervistato.
Per chi ancora non lo sapesse, qual è il significato del tuo nome?
Il mio nome è Laioung e deriva dall’unione di due termini diversi, Lion (leone) e young (giovane). E cosi si pronuncia: L-A-I-O-N-G. Si è diffusa la pronuncia Layoung tra gli adolescenti, anche se è sbagliata, e i francesi invece pronunciano Laiung.
Tutte le tue canzoni sono percorse da una caratterizzazione che potremmo definire geografica. Ritengo che per capire davvero a fondo la tua musica sia assolutamente necessario conoscere la tua vita. La tua famiglia è multirazziale e molti di loro sono anche musicisti dei più disparati generi. Questo fattore deve influenzato in qualche maniera la tua produzione. Ad esempio, la scelta di citare Pino Daniele è dovuta a tuo padre?
Mio padre mi ha insegnato ad imparare e a trarre qualcosa da ogni genere musicale. A casa mia si è sempre ascoltata molta musica diversa, il rock classico come i Led Zeppelin, ma anche tanto r'n'b e soul. Il rap è venuto dopo, è arrivato con la strada. Mi sono appassionato di freestyle alle medie, ma era ancora un ragazzino senza basi, a 14 anni ho iniziato a produrmi da solo in cameretta. Fortunatamente intorno ai 17 ho incontrato Nebbia, lui era un super nerd della musica ma ha iniziato a comporre solamente quando ci siamo conosciuti. Vederlo oggi in studio con Fabri Fibra è una delle mie soddisfazioni personali più grandi. Io ho sempre creduto nelle persone anche quando i primi a non crederci erano le persone stesse. Attraverso la musica ho visto che riuscivo a motivare altra gente, e infatti, negli ultimi 6 anni, sono stato anche direttore artistico per tanti altri progetti musicali. Da piccolo ho ovviamente anche ascoltato un sacco di Pino Daniele, piaceva molto a mio padre. Un giorno Don, un mio amico folle, ha avuto questa idea di fare una ripresa di “Je so’ pazzo” ed io l’ho seguito in questo trip. Genio riconosce genio. Ho improvvisato una strumentale un po’ drammatica, con un giro di accordi che potesse ricordare un po’ quella canzone, ed è uscita questa mina di ritornello. Poi ho dovuto solamente scrivere le strofe.
Avendo speso molto tempo all’estero sin da piccolo hai maturato una padronanza delle lingue che, suppongo, pochissimi tuoi coetanei potessero vantare. Quando sei arrivato in Italia ascoltavi la stessa musica degli altri ragazzi?
Essendo un madrelingua inglese ho sempre apprezzato una cultura musicale dal suono originale e, devo ammetterlo, questa è stata la mia fortuna. Non mi vergogno a dirlo, non ho mai ascoltato pezzi italiani fino al settembre scorso, non li reputavo ancora allo stesso livello degli omologhi internazionali. La mia intenzione è di proporre sempre qualcosa di nuovo e in Italia mi tarpavano costantemente le ali: non andavo bene perché non suonavo simile a qualcun altro. Io non voglio imitare nessuno e mi rispecchiavo solamente nell’America dove la gente non si interroga sulla novità ma le apprezza come qualcosa di fresco. Quindi no, da adolescente non sono cresciuto con Fibra e i Club Dogo.
E perché alla fine hai scelto di stabiliarti a Milano? Avevi già degli amici nel capoluogo, conoscevi altri cantanti, ti piaceva la città o, da buon imprenditore della moda, era semplicemente attratto dalla mondanità della scena meneghina?
A Giugno 2016 stavo ancora a Vancouver ma Muhammad, il padre di Malcky G, mi chiamò “rinfacciandomi” la promessa di lavorare insieme sui pezzi di suo figlio. Ero scomparso da due anni, voleva anche pagarmi il biglietto. In quel periodo, però, dovevo girare il video della canzone che avevo composto con Young Thug. L'ho raggiunto a Guadalupe dopo uno scalo a Montreal ma non siamo riusciti a girare perché lui doveva suonare in un festival. Purtroppo la performance non è andata molto bene e alcuni fan delusi hanno addirittura aperto il fuoco sull’auto. Siamo dovuti scappare. A quel punto ho deciso di tornare in Italia, ho preso direttamente il biglietto per Milano. Era agosto 2016. Appena arrivato in Italia ho incontrato Tedua, ci siamo presi bene fin da subito. “Giovane Giovane” è la canzone che mi ha reso in un certo senso famoso, “Ave Cesare” è diventato il mio bigliettino da visita.
Cercando sul web è possibile trovare delle tue canzoni in cui rappi in inglese e francese. Considerando le tue proprietà linguistiche, ti eri reso conto da solo che affrontare un genere come la trap in italiano potesse essere un rischio o, viceversa, essendo un genere che nella nostra nazione è arrivato da poco, pensavi – come poi è effettivamente successo- di trovare la strada spianata?
Questa è una bella domanda e merita una bella risposta. Io in realtà ero già uscito con un pezzo con questa sonorità e in italiano nel 2015, la canzone si chiamava “Flus” e l’avevo composta con i miei fratelli di Torino. I nostri riferimenti erano soprattutto francesi e americani ed eravamo riusciti in qualche maniera ad anticipare questa nuova ondata trap venuta alla ribalta negli ultimi mesi. Ma non potevo ancora definirmi un artista trap o un esponente di questa scena, non ne avevo ancora preso parte in maniera così consapevole. Vivevo da nomade, la mia base era Bruxelles ma viaggiavo tra Londra, Ostuni e la Francia. Posso solamente ringraziare Tedua, Izi, Sfera e la D.P.G. per aver nel frattempo preparato il terreno per il mio arrivo. Mi hanno aperto le porte abituando la gente a determinate sonorità. Io avevo pronti molti pezzi in italiano ma senza di loro sarebbe stata la solita storia, non mi avrebbero capito, mi avrebbero come al solito consigliato di fare roba più americana.
Sembra che questa nuova ondata di trapper italiani si sia imposta all’attenzione di molti youtubers stranieri e, di conseguenza, ad un pubblico molto più ampio. Tu cosa ne pensi delle possibilità degli artisti italiani all’estero, la lingua italiana è veramente un fattore limitativo?
I trapper italiani sono limitati dalla lingua ma non dalla loro immagine. Il brand italiano va sempre molto forte all’estero. A un secondo e più profondo ascolto comprendere le parole è un fattore importante. L’immedesimazione è fondamentale. Ad esempio, “Congratulations” di Post Malone è una canzone che adoro perché mi ci rispecchio fedelmente. A un primo ascolto può essere sufficiente la melodia, e, a questo livello, gli artisti italiani non sono secondi a tanti altri riferimenti stranieri.
Stai lavorando anche al tuo disco americano. Come artista qual è l’obiettivo che ti sei prefissato?
Il mio obiettivo è fare un disco dalle sonorità internazionali, non dei numeri internazionali. Le sonorità che devono far esclamare ad un americano “wow, questo Laioung spacca!”. Penso comunque sia un momento propizio per spingere la mia musica anche oltre oceano, per farsi conoscere ancora, e di più, anche lì. Se Sony lo riterrà opportuno mi darà una mano, io ho comunque tutte le mie strategie, i miei contatti. Basta solamente mettere un piede in America e aver voglia di fare sul serio, so come funziono le cose oltreoceano. Il disco è in via di lavorazione, ho veramente cataloghi di pezzi. A breve prenderanno una forma più definitiva.
Molte delle personalità più rilevanti del panorama hip hop statunitense non si limitano solamente al ruolo di rapper, proprio come te, sono anche producer, business man e, in primo luogo, imprenditori di se stessi. Insomma, si può dire che negli USA hai imparato a brandizzare il tuo nome?
L’America mi ha dato molto a livello personale e a livello umano ma soprattutto mi ha impresso questa idea del doversi costantemente porre con qualcosa di nuovo, del rinnovarsi. Mi ha impostato la mente sullo spaccare, qualunque cosa faccia, e non sul farmi spaccare dalle critiche. Ho imparato a dovermi sempre differenziare perché anche se non verrò capito immediatamente sicuramente verrò capito in futuro. Quando sono partito per il Canada non ero nessuno ma alla fine il mercato americano mi ha accettato riconoscendo la mia diversità. Probabilmente è stata una fortuna anche non concentrasi su un solo disco italiano fino ad “Ave Cesare”: in questo modo ho avuto la possibilità di conoscere e collaborare con molti artisti internazionali, un’esperienza che ho poi canalizzato in quest’album.
Un tema che tocchi veramente in maniera veemente sono i problemi ambientali derivanti dall’estrazione del petrolio. “Petrolio” è una canzone che hai scritto appositamente per il referendum o avevi già partorito l’idea di scrivere qualcosa su questo argomento, magari anche colpito dalla storia della tua nazione natale da sempre sfruttata per i giacimenti minerari?
“Petrolio” è un urlo di guerra, di sofferenza, è una canzone spontanea, quella che ho composto in maniera più rapida. Ovviamente non posso dimenticarmi la storia del mio paese natale che ho deciso anche di tatuarmi (mi mostra il tatuaggio che porta sull’avambraccio, un diamante sospeso sopra il nome della sua nazione). In Sierra Leone sono morte più di 70.000 persone a causa dell’estrazione di diamanti e tante altre sono rimaste mutilate o ferite. La canzone l’ho scritta in occasione del referendum ma credo di aver dato inconsciamente voce a tutta la sofferenza patita dai miei fratelli sierraleonesi.
Nelle tue canzoni è fortemente presente uno dei temi principi nella storia dell’hip hop di qualsiasi nazione, la voglia di fare soldi per riscattarsi da una situazione difficile ma, fortunatamente, a mio avviso la tua musica va molto oltre caricandosi di diversi aspetti sociali. Uno fra tutti: il valore integrativo dell’arte. Qual è la tua posizione rispetto a questo valore considerando anche i tuoi trascorsi passati?
Hai colto a pieno il senso che volevo dare a quest’album, cosa voglio dire, la mia musica non è altro che un’espansione della mia personalità. Io non sarei nessuno senza quest' album, se non avessi fatto musica avrei sicuramente pensato le stesse cose ma magari le avrei tenute per me o, comunque, non avrebbero avuto lo stesso peso che assumono adesso. Attraverso l’arte ho invece avuto modo di fare conoscere alla gente chi fosse questo Laioung e attraverso la mia storia di farmi portavoce di valori importanti. L’ho fatto con spontaneità. Vorrei che la gente la smettesse di nutrire delle aspettative esclusivamente hip hop nei miei confronti ma cominciasse a considerarmi secondo delle aspettative musicali più ampie. Dovranno cominciare ad apprezzare anche delle mie canzoni che saranno più sensibili, personali o impegnate.
Un altro aspetto su cui insisti molto è quello della collettività dell’arte. Oltre ad avere fondato una mob e avere già partecipato a molti featuring, sembri costantemente voler sottolineare il valore della famiglia intesa non nel senso genealogico ma nel suo significato esteso. In quest’ottica persino la mafia (“Don Vito”) acquista un po’ di senso. L'autenticità degli artisti con cui lavori viene prima del loro talento?
Assolutamente sì. Poi la mia opinione è questa, bisogna saper distinguere tra famiglia e business. La RRR Mob è la mia famiglia. Ma io voglio fare anche business. Io farei un pezzo con Lady Gaga, con la Dark Polo, con Ray Charles, con Tiziano Ferro, con Nas, con Kanye West, con Madonna… Con Britney Spears! Le preparerei un bridge trap che verrebbe una bomba. Io voglio fare musica e fare business con la musica. Ho già sofferto troppo in passato, ho già vissuto sulla mia pelle cos’è la discriminazione e non ho intenzione di applicarla alla musica. Non ho più tempo per litigare con la gente, sono aperto a ogni collaborazione. Moriremo tutti, lasciatemi almeno fare musica.
Tra le tue numerose collaborazioni puoi vantarne anche diverse estere ma, al di là dei discorsi sul business, esisterà sicuramente qualche artista con cui ti piacerebbe sinceramente collaborare. In particolare, c’è qualche artista della scena italiana con cui ti piacerebbe scrivere una canzone o semplicemente produrre?
Sì certo, è diverso. Come ti avevo già detto prima adoro Tiziano Ferro ma nell’ambito rap mi piacciono molto anche Achille Lauro e Pyrex. Va be', ma io farei pezzi con tutti. Poi con me non ci vuole niente, basta prendere appuntamento, ci vediamo in studio con i miei due computer, e il gioco è fatto.
Il tuo album si intitola “Ave Cesare - Veni, Vidi, Vici” e, in effetti, rispecchia fedelmente quel che è successo. Ti sei imposto così velocemente nella scena italiana tanto da aver già collaborato con artisti del calibro di Guè Pequeno e Fabri Fibra. Come li hai conosciuti?
A me piace sognare, senza le mie visioni sarei un cieco. Conoscere Fabri Fibra, uno che nella sua carriera ha collezionato una sfilza di dischi di platino, e scoprire che è la persona più simpatica del mondo mi ha riempito di gioia. Lui è come me, vuole fare musica a prescindere dal genere, l’unica intenzione che ha è quella di farla e spaccare sempre. Di Guè invece ho apprezzato tantissimo l’umiltà nel mettersi in gioco con un personaggio ancora poco conosciuto come il sottoscritto. Si è informato su di me attraverso degli amici è mi ha contattato. È nato tutto genuinamente, io non ho chiesto niente a nessuno. Ma a furia di spingere la mia barca ha ormai preso il largo.
Quanto è importante l’autoproduzione, intesa come la cura personale di ogni aspetto della propria musica? Potremmo quasi definirti un Prince dei tempi moderni, ma anche sotto Sony “entri in studio e fai quello che vuoi”?
Certo, le condizioni sono state proprio queste. Ora è ovviamente tutto più strutturato, ho degli appuntamenti prestabiliti delle deadline precise ma ancora la libertà più totale per quel che riguarda l’ambito artistico. Vorrò sempre fare quello che voglio, perché io ho la visione, e questa visione mi ha portato fino a qui.
Laioung con la RRRMob sarà ospite del MI AMI Festival, venerdì 26 maggio. Qui le prevendite.
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L'articolo Laioung - Il discorso dell'imperatore: come Laioung cambierà il rap italiano di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2017-04-26 15:00:00
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l'intervista 2000€?