È uscito da poco il suo album d'esordio, prodotto da tre tra le più importanti label con base a Roma: White Forest, No=Fi e Bomba Dischi. Lamusa mostra di avere le idee molto chiare sia sul suono (un amore che sfiora l'ossessione per le macchine analogiche) che sull'immaginario (notturno pennellato di storie horror e soft porno) che aspira ad evocare. Un ragazzo di provincia che non scambierebbe mai Viterbo con Roma e che ama la decadenza degli alberghi anni '80.
Lamusa e il nome del tuo album, "Etrūrya", hanno entrambi un’aria di classicità greca, sei d'accordo?
Lamusa è nato in maniera spontanea. Provenivo da varie esperienze con gruppi e il progetto solista ovviamente all’inizio non aveva un nome. Solo dopo aver creato qualcosa su Ableton ho salvato un progetto con il nome di "La Musa", staccato. Era uno dei primi pezzi, con queste ambientazioni un po’ più ombrose e un po’ più losche, e quel nome mi trasmetteva questo tipo di ambiente, di mood. Lamusa, scritto tutto attaccato, mi dava un senso di immortalità, non so perché. In più il posto dove produco è una specie di taverna che mi ha sempre trasmesso qualcosa di strano, come se ci fosse una presenza, una musa che quel nome riusciva a rispecchiare. Invece “Etrūrya” si riferisce alle ambientazioni che circondano Viterbo, i posti dove gli etruschi sono passati. Parlando con Davide Caucci di Bomba Dischi, mentre giravamo il video di “Mermaid” qui attorno nelle zone di Sutri, ci è venuto in mente di storpiare l’antico nome della zona, Etruria, in un’ottica che Lamusa ha cominciato ad avere: cioè unire questo classicismo antico con la pura modernità. Una “i” che può assumere la forma di una “y”, oppure di un render 3D, come nella cover dell’album realizzata dal mio caro amico Ben Janowitz, un'unione sempre un po’ storpiata, mai bene a fuoco. La donna che si vede sulla copertina può essere considerata "lamusa": è un semplice manichino che ho a casa e che trovo affascinante. Rappresenta la faccia di questa strana entità. Nel render c’è questa foto appesa di lei che fa ricordare gli anni passati e anche i colori che costruiscono il mio mondo. La musica e la grafica che la riveste, nel mio caso, sono due cose nate in simbiosi, era necessario esternare queste ambientazioni. Una produzione musicale, che in più è senza voce, ha bisogno di un mezzo per far chiarezza, per trovare quella chiave visiva che faccia da collante per tutto. Quindi per me è molto importante la cura delle immagini che si vogliono trasmettere, dalla più schietta alla più complessa. Credo sia anche necessario non guidare, ma almeno aiutare chi va incontro all’ascolto di una cosa totalmente nuova dando un’immagine a ciò che viene proposto, anche se ovviamente ognuno avrà poi una sua personale lettura del disco.
Oltre che la classicità greca, dalle sonorità, dai titoli e anche dalla copertina si evince un forte immaginario soft porno.
Sicuramente è un genere più cinematografico e infatti sto tentando di riportarlo nelle mie produzioni. Forse è il bpm 80/90/100 che mi lega al soft porno perché è un tipo di andamento molto caratteristico del genere: con drum machine molto secche e tastiere o electric piano molto schietti. Si crea questo mood che vorrei sempre tentare di trasmettere e che secondo me proviene da quelle colonne sonore. Vorrei portare non a far ballare l’ascoltatore ma più a farlo fluttuare attorno a questi 100 bpm in cui si muovono le spalle e si rimane sospesi in maniera molto morbida. Quindi, se pensi al beat porno, il movimento che ti fa fare è un po’ quello e se letto in ottica musicale è una cosa con cui spero di potermi definire.
Mi sembra più un discorso di atmosfera da creare, che strettamente musicale.
Esatto. Un’atmosfera in cui muoversi ma non necessariamente un’aria da party, difficile da spiegare. Anche in un live vorrei creare questa atmosfera per l’ascoltatore: farlo fluttuare con un cocktail in mano ma di un movimento sempre elegante. Questo è un po’ l’alone del soft porno: mantenere nel movimento questa eleganza.
Se incrocio il titolo “Donna” con il genere soft porno a me viene in mente “Twin Peaks”.
Certamente, molto di ciò che può essere catalogato come soft porno può essere trovato lì. Angelo Badalamenti è stato uno dei riferimenti a livello di scelte sonore e di passioni che ho nell’ascolto di quel tipo di musica. Forse in “Twin Peaks” non c’è un alone prettamente porno ma è pieno comunque di parti cupe, losche e ansiolitiche.
Abbiamo parlato di classicismo, soft porno, e ora tocca al terzo perno dell’album: l'italo disco.
In effetti inizialmente mi definivo psycho disco italo trash, ma quell’italo non è tanto riferito all’italo disco quanto all’approccio che ho avuto nel comporre dei lead synth di alcune tracce che mi ricordavano impronte di musica italo, che poteva essere sì la disco, ma anche soundtrack di film anni ‘70 o ‘80 o polizieschi che mi ricordavano questo stile, questo andamento. Infatti è psycho perché è una versione distorta dell’italo del tempo.
A livello tecnico direi che il soft porno mi ha aiutato nella creazione di beat, di batterie o di alcuni groove, mentre l’italo mi ha aiutato più nella creazione di linee di synth che potessero trasmettere mistero/curiosità in alcune parti o svolta in altre o dei crescendo in altre ancora. La dinamica era data dal poliziesco e da ciò che muoveva gli eventi, dalla ricerca per esempio di un ladro o qualcosa del genere, mentre il beat può essere determinato dal soft porno. Questo è come ho tentato di collegare le due ottiche che dominano il disco.
La tua idea di classicismo si rivolge sempre a quello etrusco/viterbese, quando a pochi chilometri c’è Roma, che nell’immaginario comune è la patria del classicismo.
Da Roma come città non c’è stato nessun aiuto. Nel mio disco c'è solo Viterbo, dato che anche lo studio si trova qui. Una città con un decadenza intrinseca in un territorio segnato dagli etruschi, una decadenza che probabilmente si è trasmessa nella mia musica. Poi nella città ho tentato di cogliere alcuni aspetti che potevano piacermi. Anche il teaser l’ho girato qui a Viterbo, andando a cercare posti suggestivi come alberghi degli anni ‘80, oppure strutture che mi potevano trasmettere quel tipo di "nuovo" che per noi ormai è solo vecchio, con quelle forme molto nette e squadrate. Mi è servito molto vedere per esempio un albergo con le vecchie tende o con queste forme: quando poi ci piazzavo delle tracce e vedevo che potevano calzarci a pennello capivo che era la strada giusta. Sicuramente l’albergo è una cosa che mi affascina molto, mi piacerebbe molto fare un live in un albergo adibito a club, sarebbe perfetto per la mia musica.
Quindi bisogna ascoltare "Etrūrya" come un percorso preciso, magari tra le stanze di un motel?
Di base è un percorso completo nella tracklist, le ambientazioni che si creano sono abbastanza legate e non si va mai a finire in immaginari troppo distanti l’uno dall’altro. Il concept generale è figlio di ambientazioni un po’ cupe e losche. Ci sono molti pad, che possono trasmettere a tratti ansia e a tratti un alone di mistero. Sicuramente non è un album estivo, da giornate in spiaggia. Ci vedo molto più la notte o ancor più un club di fine anni ’80, non un club dove si balla ma uno di quelli coi neon fucsia attaccati alle pareti e tratti di scenari sognati. Per esempio per “Discoteca 2”, di cui forse realizzeremo un video, mi sono sempre immaginato una ragazza che fluttua su pattini a quattro ruote in un mega parcheggio di notte. Ma ce ne sono altre un po’ più macabre, come “Italo Zombie”, o più soft porno come “Pornomb5” e “Slow Disco”. “Jungle In Oasio” è la traccia che direi fondamentale per l’inizio dell’ascolto, per questo è la prima. È stata la prima che ho composto, la prima con quell’ambientazione che ha dato vita al tutto.
Detto questo, volevo parlare di pop ipnagogico. È una definizione che ha dato David Keenan parlando della musica d’ispirazione anni ’80 e ’90 che ha caratterizzato molta scena californiana, riferendosi allo stato ipnagogico: quel dormiveglia dei pre-adolescenti che ascoltano inconsapevoli la musica pop che la radio trasmette in quegli anni, gli rimane impressa, poi successivamente la riproducono filtrata da un’atmosfera sognante. Pensi che questa definizione si possa adattare alla tua musica?
Sì penso che calzi. Probabilmente stando in macchina coi miei genitori, tutti quegli ascolti, che potevano essere Stevie Wonder o Earth, Wind & Fire o Madonna o tutto ciò che passava per radio, sono rimasti intrinsechi per poi risvegliarsi ora in alcune parti di sintetizzatori o linee di basso da synth monofonici. Magari un po’ di anni fa, da piccolo, li consideravo indecenti o non li valutavo minimamente e solo successivamente hanno preso tutto un altro tipo di risvolto e di apprezzamento.
Viene da questo "rigurgito" d'infanzia negli anni '80-'90 la scelta di utilizzare solo apparecchiature “d’epoca”?
È una componente fondamentale del mio concept, magari in futuro cambierò idea ma per ora la vedo dura. Ho usato una Elka Omb5 di fabbricazione italiana degli anni '80, un synth economico che stavo per acquistare e poi ho avuto in regalo per coincidenza. Con quello ho iniziato anche le prime track di batteria, perché la drum machine integrata mi dava la possibilità di creare dei pattern personalizzati. Accanto a questa Elka c’è un Korg Polysix dell'81-'82 che mi ha dato un’ottima mano nel trasmettere alcune atmosfere, poi una Bontempi che è una tastiera trovata in un mercatino che però aveva un’accordatura particolare da 432 hz, un’accordatura usata ai tempi nella musica classica. “Slow Disco” ad esempio è fatta con questa tastiera che la caratterizza da sola. Poi utilizzo una Yamaha DX7 per le produzioni. Per quanto riguarda le drum machine c’è una Korg DDD-1 e una Roland 626. Tutto è stato registrato analogicamente, alcune tracce su nastro (reel to reel), altre su cassetta, e solo alla fine ho riportato tutto in digitale. Molto della sporcizia che c’è nel suono è data anche perché alcune tastiere sono state registrate da un amplificatore Marvin B70 di fine anni ’70, che nasce come ampli per basso ma alle tastiere dà questa pasta un po’ calda con gli alti molto tagliati. Non sono molto a favore di tutto ciò che può essere plug-in o vst ma forse perché mi piace proprio avere la macchina in mano, poterla toccare e modulare di persona. Anche su Ableton uso il plug-in semplicemente come multi traccia dove posso registrare ciò che mi serve, ma come effetti cerco sempre di tenere attrezzatura esterna. In più di queste macchine mi affascina anche che siano state assemblate e costruite in quel tempo, anche la linea così netta e squadrata mi trasmette qualcosa di ciò che poteva essere in quegli anni. Anche nel live ho escluso il computer e porterò solo due synth e due drum machine. Magari sarà molto schietto e diretto ma almeno riuscirò a portare ciò che il mio immaginario vuole proporre, dare la possibilità di ascoltare strumenti del tempo che suonino realmente in un club oggi.
Il tuo album è prodotto da tre tra le più attive e importanti etichette discografiche a Roma, se non addirittura in Italia: Bomba Dischi, No=Fi e White Forest. Come è nata questa coproduzione?
Tutto è nato con Bomba Dischi. Nel periodo iniziale vicino a Bomba Dischi c’è stata anche una prima uscita con Bad Panda Records, con cui ho pubblicato i singoli “My Friend Aede”, Slow Disco” e anche il primo EP, “Greatest Hits”. No=Fi ci aveva dato una mano già in quell'occasione, era nato subito un interesse reciproco. Una delle mie prime date poi è stata al Dal Verme, il locale di Toni, il boss di No=Fi, entrambi siamo fissati con le casette e con tutto ciò che riguarda l’analogico. Nel periodo in cui ho composto l’album le cose si sono assestate piano piano e intorno a febbraio ho incontrato Lorenzo Corsetti e Luca Albino (Capibara) di White Forest, ci siamo trovati subito bene e siamo riusciti a organizzare questa coproduzione fatta di queste tre diverse realtà, dove White Forest è la parte più prettamente elettronica, perciò l’onda che serviva a me, mentre Bomba Dischi è la label che mi ha seguito dall’inizio, con un roster anche più vario.
Hai detto che provieni da esperienze con delle band. Quali ispirazioni ti hanno guidato per il tuo progetto solista?
Semplicemente, dopo qualche mese che ci eravamo sciolti con il mio primo progetto, gli Holidays, ho deciso di ricominciare a fare qualcosa e per la prima volta di fare qualcosa da solo. La passione per sintetizzatori e drum machine l’ho sempre avuta e si è approfondita nell’ultimo paio d’anni quando ho capito dov'era ciò che cercavo, ovvero più dentro una drum machine o un synth che dentro un basso. Alcuni synth degli anni '70-'80 li avevo già a casa, quindi all’inizio era solo sperimentazione su strumenti che non avevo mai usato come veramente volevo. Per questo inizialmente in parte mi piaceva definirmi trash, perché quegli arrangiamenti, in particolare di percussioni, erano anche esagerati ma era quello che in quel momento sentivo di fare. Lamusa è nato da questo. Sono sempre stato "malato" di ricerca sonora: ogni volta che sentivo un suono che poteva uscire da un Polysix modulato capivo l’ambientazione che poteva legarsi bene e intorno creavo la struttura necessaria per trasmetterlo a chiunque. Le influenze ci sono, e provengono soprattutto dalla fine degli anni '80. Ultimamente mi piace ascoltare musicisti come il giapponese Shigeo Sekito, o l'estone Uku Kuut, che magari porteranno più influenze su cose nuove su cui sto lavorando.
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L'articolo Lamusa - Musica porno per gente elegante di Lodovico Lindemann è apparso su Rockit.it il 2015-09-21 14:00:00
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