Lay Llamas è il corrispettivo di Nicola Giunta. Suo il progetto, sua la paternità di “Østro” come di “Thuban”, il disco più recente del musicista siciliano (pubblicato lo scorso 15 giugno), che ha ripreso le coordinate del predecessore per poi superarle, espanderle, offrire loro nuovi traguardi. Una linea evolutiva innegabile, percorsa sotto l’egida della Rocket Recordings, che Nicola Giunta sottolinea orgogliosamente in questa intervista.
Quali cambiamenti hai dovuto affrontare dopo la dipartita di Gioele Valenti?
Lay Llamas è un progetto fondato e gestito unicamente da me fin dal suo principio, primavera 2012. Allo stesso tempo, però, mi sono sempre avvalso di collaboratori esterni - sia live sia in studio - i quali hanno partecipato a vario titolo. Gioele Valenti ha collaborato con me solamente per un anno, dal 2013 al 2014, contribuendo alla stesura di “Østro”. Quindi, per rispondere alla tua domanda: nessun cambiamento particolare, solo la scelta di nuovi collaboratori.
Con quali criteri hai scelto i musicisti che hanno suonato su “Thuban”?
Alcuni di questi - Andrea Davì (batteria, percussioni), Nicola Sanguin (voce, chitarra), Mirko Brigo (chitarra) - facevano parte della seconda formazione live di Lay Llamas, attiva fra il 2015 e il 2016, e adesso sciolta. Con tutti gli altri - da Luca dei Julie’s Haircut a Guido Broglio, da Goatshee dei GOAT ai Clinic etc. etc. – c’è invece un rapporto di rispetto reciproco e collaborazione che dura da anni. Nessun criterio specifico, quindi.
“Thuban” può essere considerato un’evoluzione di “Østro”?
Direi proprio di sì, almeno in una certa misura. Considero “Thuban” un’evoluzione che va a rifinire certe ingenuità di scrittura e arrangiamento che erano presenti in “Østro”. Per questo motivo mi piace considerare “Thuban” un punto di arrivo da cui cambiare direzione ed evolversi ulteriormente.
Quali pensi siano le differenze tra il tuo primo album e il nuovo?
“Østro” è un disco selvatico, istintivo e naïf, “Thuban” è invece più consapevole, ragionato e compatto. Ma, in realtà, questa linea evolutiva inizia con il primo omonimo “The Lay Llamas”, uscito nel 2012 e ristampato nel 2016. Ascoltare di fila i tre dischi può essere un buon modo per farsi un’idea chiara di cosa sia musicalmente Lay Llamas.
In “Thuban” c’è qualche inserimento free jazz che in “Østro” non era presente…
Per essere onesti, l'unico elemento free jazz del disco credo sia presente nel sax della traccia “Silver Sun”, suonato da Sergio Pomante (Ulan Bator, Captain Mantell). Qualcuno ha definito quel pezzo una miscela di Neu e Contortions. Mi sembra azzeccato.
Credo che la tua nuova creatura sia un po’ più morbida rispetto al predecessore.
In un certo senso è così. Voglio dire, anche in “Østro” c’erano molte melodie e ritornelli, magari utilizzati su tracce strumentali lunghe e dalle sonorità più aspre. In “Thuban”, scrittura, arrangiamenti ed esecuzione sono stati ripensati e ponderati con un metodo diverso. Magari per il futuro cambierà tutto un’altra volta.
È vero che Peter Kember (musicista e produttore britannico, co-fondatore degli Spacemen 3, nda), appena ascoltato il disco, avrebbe esclamato “So psych in all sense”?
Per la verità, Peter ha detto quella frase riferendosi alla due tracce “Malophoros” e “Mondi di Pietra”, contenute nel 7” uscito un paio di mesi fa sull’etichetta pugliese Backwards Records.
Mi dai il gancio per parlare proprio di quel 7’’. Come è uscito fuori?
Le due tracce, tra cui una, “Malophoros”, registrata con Alfio Antico a voce, testi e tamburo, rappresentano una tappa tanto unica quanto fondamentale nel percorso di Lay Llamas. Per la prima volta in assoluto ho utilizzato il dialetto siciliano e la lingua italiana al posto dell’inglese. Ma anche l’aspetto strettamente musicale ha visto l’inserimento di elementi timbrici inediti. In definitiva, questo breve ma importante lavoro rappresenta il vero anello di congiunzione con il mondo Mediterraneo. Una tappa fondamentale del mio viaggio, quindi.
Come mai è uscito per la Backwards?
I due pezzi del 7’’ sono nati nello stesso periodo delle tracce finite poi in “Thuban”, ma dopo averle terminate mi sono accorto che, in qualche modo, facevano storia a sé rispetto al lungo uscito su Rocket: le sentivo più mediterranee e vicine a certe mie radici, vuoi per l’uso del dialetto siciliano e della lingua italiana. Quindi proporlo a Rocket come singolo slegato dal disco principale non mi è sembrata una grande idea. A quel punto ho contattato il grande Pasquale Lomolino di Backwards Records, etichetta pugliese attiva nell’ambito della musica di ricerca, industrial, impro, psichedelia e tanto altro. In catalogo vanta gente del calibro di Father Murphy, My Cat is an Alien, Konstrukt, Mike Cooper, Maurizio Abate e molti altri. Nel 2016 Backwards ha curato la ristampa su vinile della tape di esordio di Lay Llamas. Lavorare a una nuova release insieme a Pasquale è stata un’esperienza piacevolissima, basata sul rispetto reciproco e la passione. Etichetta consigliatissima per gli amanti di certi suoni!
Tornando a “Thuban”, in questi quattro anni come sei arrivato a definire il suono dell’album? Cosa o chi ti ha maggiormente influenzato?
Le influenze musicali sono state moltissime. Ascolto musica di continuo. Individuare qualcosa nello specifico mi risulta difficile. Probabilmente la figura musicale e umana di Franco Battiato, ma anche, soprattutto, le influenze extra-musicali come la pseudo-archeologia dei libri di Peter Kolosimo, i racconti di Jules Verne, i libri di Folco Quilici, la mitologia greca.
Quelli finiti in “Thuban” sono pezzi che avevi nel cassetto da tempo o li hai elaborati negli ultimi mesi?
Fai conto che in “Thuban” ci sono tracce come “Chronicles From The Fourth Planet” che ho iniziato a comporre e registrare a metà 2014, quando era appena uscito “Østro”, e altre come “Altair” - scritta insieme a mia moglie Irene - prodotte fra dicembre 2017 e gennaio 2018 in chiusura disco, quindi. In mezzo c’è tutto il resto, e intendo non solo i pezzi di “Thuban”, ma anche uno split su cassetta per ArteTetra, varie compilation, il singolo 7’’ di cui ti parlavo, un CD live, vari remix e partecipazioni ad altri dischi.
Com’è andato il lavoro in studio con Chris Reeder e John O’Carroll (co-produttori del disco, assieme allo stesso Giunta, nonché deus ex machina della Rocket Recordings, nda)?
Chris e John hanno contribuito allo sviluppo dei pezzi fornendomi consigli e pareri a distanza. Non c’è mai stato un lavoro in studio vero e proprio, quindi. Ciò non toglie che il loro contributo sia stato spesso fondamentale per trovare il giusto equilibrio nella forma finale di quasi tutti i pezzi del disco. In questo sono dei veri campioni!
Passiamo alle collaborazioni: Mark Stewart, GOAT, Clinic…
Sia Mark Stewart sia Carl Turney e Brian Campbell - batteria e basso dei Clinic - sono dei fan di Lay Llamas ormai da alcuni anni. Ho proposto loro di collaborare sul nuovo materiale e hanno subito accettato. Con Goatshee avevo già collaborato un paio di anni fa per un altro brano di Lay Llamas a oggi ancora inedito. Anche lei ha accettato subito la proposta di collaborazione facendo un lavoro davvero grandioso alla voce.
Avete lavorato via computer o fianco a fianco? No, perché vorrei chiederti se sei riuscito a vedere i volti dei componenti dei GOAT.
Le collaborazioni sono avvenute via computer. Con i GOAT ci siamo conosciuti di persona, senza maschere, già nel 2014, aprendo tutte le date del loro tour inglese. Abbiamo passato dei bei momenti insieme durante quel tour e con alcuni di loro si è creato un rapporto personale di rispetto reciproco che dura ancora oggi.
La tua musica è cosmica, psichedelica, acida, kraut, trance: tu come presenteresti i Lay Llamas a chi non ha mai ascoltato la tua musica?
Userei i termini space, jungle, mantra.
Østro è il nome di un vento, Thuban quello di una stella che indica il Polo Nord: i titoli degli album dei Lay Llamas sembrano far ricorso a qualche elemento tribale. Il perché è facilmente deducibile, ma vorremmo una tua interpretazione.
Sì è vero, sono elementi in qualche modo tribali e comunque legati ad una dimensione ‘terrestre’. Allo stesso tempo, però, hanno entrambi la particolarità di indicare degli elementi (un vento, una stella polare…) che sono fondamentali ai fini del viaggio per mare, terra o verso realtà sconosciute. In definitiva, entrambi i titoli sono delle chiavi di lettura tramite cui interpretare i rispettivi dischi.
Cosa ti ha insegnato girare l’Europa tra Festival e luoghi nei quali la musica italiana non ha mai avuto grossa considerazione?
Mi ha insegnato che per essere considerati nella giusta misura da certe realtà europee ed estere in genere bisogna, per prima cosa, emanciparsi da atteggiamenti di provincialismo o, peggio ancora, campanilismo di qualsiasi tipo, e rapportarsi in maniera orizzontale, alla pari, con tali interlocutori. Ciò presuppone però che tu abbia qualcosa da dire, qualcosa con valore aggiunto intendo, e non sempre è così. Probabilmente per me, che non sono cresciuto a Roma, Milano, Bologna o Torino ma nella sperduta provincia siciliana, questo processo di emancipazione ha seguito traiettorie inconsuete. Mi spiego meglio. Dove sono cresciuto ad inizio anni ’90 non esisteva davvero niente in termini di musica underground e indipendente in genere. Niente. Tutto arrivava da riviste e dischi, solo anni dopo da internet. Nessuna scena, nessuna fanzine, nessun centro sociale. Questa situazione di isolamento pressoché totale mi ha fornito una prospettiva diversa quando ho iniziato a contattare le etichette per proporre la mia musica: meno condizionata da realtà locali forse, più ingenua e spericolata di sicuro, ma anche più aperta e senza filtri di alcun tipo.
Quant’è importante la Rocket Recordings per te? Cosa rappresenta?
Rocket rappresenta per me due persone che credono e supportano in ogni modo la musica che produco. E di questi tempi mi sembra già una grande cosa. Mi sento molto fortunato. Grazie a loro la musica di Lay Llamas negli anni è arrivata dove non mi sarei mai neppure immaginato.
Perché non esiste una Rocket Recordings in Italia?
Ti potrei dare tante risposte, e tutte diverse. Ma riflettendoci mi viene in mente un aspetto che, forse più di altri, sento fortemente differente fra una realtà come Rocket e alcune etichette italiane più o meno equiparabili per dimensioni e genere trattato: l’approccio. La gestione di Rocket da parte di Chris e John avviene sempre in maniera estremamente professionale. Ogni dettaglio viene curato con la massima attenzione, rispondono immediatamente ad ogni mail o messaggio, tendono a non parlare male di altra gente ‘del giro’, sperimentano sempre soluzioni nuove, hanno in catalogo gruppi provenienti da mezzo mondo, tendono sempre a migliorarsi e, soprattutto, non hanno paura di entrare in contatto con ambienti musicali istituzionali, non prettamente underground ecco. Purtroppo, in Italia questo approccio non è praticato, o lo è solo in minima parte. Per questo non esiste una Rocket Recordings in Italia.
È pronto il live? Come sarà, e dove andrai a suonare “Thuban”?
Non ci sarà nessun live. Ho deciso così per vari motivi. Questo disco parlerà solo attraverso i supporti su cui è stato inciso.
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L'articolo Lay Llamas, il progetto italiano che ancora non conoscete ma che all'estero ci invidiano di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2018-07-23 10:30:00
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