Cinque anni di lavorazione e tanti artisti provenienti da nazioni diverse: così è nato A long season, dalla verace attitudine di "flâneur" che ha portato il produttore Alex Marchetti a coinvolgere amici e voci da Italia, Svezia e Brasile in un progetto chiamato proprio così, Les Flâneurs. Ognuno ha aggiunto il proprio talento ai brani che Alex andava componendo, parallelamente al suo impegno storico con la band Il Disordine delle Cose.
Alcuni incontri, come quello con Alice Greco, sono stati casuali, con lei che si esibiva in un locale dove Alex si era trovato a passare la serata con amici. Altri, come Hanna Turi, si sono esibiti nel corso degli house concert che Alex ha organizzato per anni nella sua cascina nel Novarese. Un disco dove risaltano le fluide tessiture elettroniche, la sincerità dei testi, la scrittura accattivante. e, soprattutto, il fatto che sia nato dall'incontro di anime differenti grazie alla musica, da scambi reciproci, da viaggi reali e metaforici.
In un anno come il 2020, in cui le circostanze hanno bloccato vita e spostamenti, è importante ricordare e tener presente quanta bellezza possa scaturire dal vagare, dal girovagare, e dall'incontrarsi. Ci sono tante buone ragioni per ascoltare questo disco, proprio ora.
Perché hai scelto il nome Les Flâneurs per questo progetto?
È un termine che ho trovato in rete, casualmente. O forse no. Ero stato da poco a Parigi, mi sono ritrovato a percorrere le strade dei suoi quartieri incredibilmente affascinanti, sia di giorno che di notte, finendo in un club in cui una band suonava musica afrobeat di fronte ad un pubblico molto, molto giovane che ballava.
Insomma, bighellonavi?
Girellare e perdermi è indubbiamente una delle cose che amo fare maggiormente, si finisce sempre in qualche luogo alternativo, si trova sempre qualcosa d’interessante. Potevo chiamare il progetto Serendipity, ma quando trovai il significato del termine flâneur esclamai: “C@#@o, ma sono io!”. E il francese mi ha subito ricondotto a quella giornata parigina.
Quindi ti rispecchia?
Nella mia vita ho fatto il flâneur innumerevoli volte. E in tantissime città del mondo. Ho aperto anche un blog di viaggi nel quale racconto sensazioni ed esperienze, cerco di evitare noiosi dati storico/logistici, a meno che non siano aneddoti unici e interessanti. Anche musicalmente posso capitare in diversi generi e sonorità, in base a dove mi sta portando il mood della canzone, che regna assoluta su chi la interpreta. Il tutto deve avvenire sovrappensiero: proprio come un flâneur delle canzoni.
Come ha iniziato a prendere forma il disco?
Ho iniziato a capire che dovevo raccogliere le canzoni che stavo collezionando, quando ho visto che alcune persone erano disposte ad aiutarmi a concretizzarle. Da solo non avrei mai fatto un album solista, non era il tempo giusto e non sono un frontman: mi occupo di suoni e produzione, m’interessa creare qualcosa che piaccia a me e alla gente e che mi faccia sentire vivo creativamente. E tutto parte da quello che ho in mente. Se poi tecnicamente non posso affrontarlo da solo, ecco che giunge l’esigenza di coinvolgere il musicista adatto e con lo stile e il sound giusto per produrre la canzone il più vicino possibile a come l’ho pensata. Per ora non ha ancora una forma fisica, ma solo digitale! Il sogno è di poter stampare un vinile, senza live si fa un po’ fatica a vendere musica.
Il progetto ci ha messo cinque anni per diventare un disco, com’è risentire i primi brani dopo così tanto tempo?
Li riascolto molto volentieri e questo è un buon segno: sono molto critico in quello che faccio e ci sono brani passati che skippo immediatamente con un lieve senso di vergogna. Questo è un atteggiamento sbagliato, perché sono pezzi di puzzle che fanno comunque parte della propria formazione. I brani di A long season mi ricordano soprattutto come sono giunti in questo album, l’entusiasmo e le difficoltà affrontate per trasformare delle idee in canzoni finite. È chiaro che a me suonano vecchi, li ho sentiti due milioni di volte, anche quando pensavo di lasciare perdere. Ora mi sto già concentrando su brani nuovi, alcuni dei quali stanno già iniziando ad ammuffire come il cibo che lasci in frigo.
Il titolo A long season a cosa si riferisce?
Alla vita, una stagione lunghissima fatta di tante esperienze, di studio, concerti, chilometri, litigi, amicizie, notti musicali infinite che mi hanno portato a creare questo lavoro. Ci ho messo una vita per creare qualcosa che, seppur condiviso con tanti artisti, sento davvero mio musicalmente.
Come hai scelto gli artisti da coinvolgere nel disco?
Li ho scelti per le loro doti e perché secondo me funzionavano perfettamente per il brano che avevo scelto per loro. Ricordiamoci che è la canzone a decidere, sono molto fatalista in questo: se quella voce è lì è perché doveva stare lì, se in quel brano manca il basso è perché non ci doveva stare! Io ho chiesto una collaborazione a tanti musicisti che stimo: alcuni hanno declinato gentilmente, altri non han proprio risposto, altri ancora hanno reagito positivamente, come Hanna, che mi ha fatto davvero un regalo scrivendo e cantando magnificamente Your Days.
Ogni feat è un regalo?
Un po’ sì. Significa prendersi del tempo per lavorare sul brano di una persona che hai conosciuto una volta sola, farlo tuo, scrivere un testo, provarlo, cantarlo e registrarlo. Non è da tutti. Tutto questo è stato fatto con la stessa passione da Alice Greco, che ha cantato tre brani e ha lavorato su altrettanti testi. Alice, per esempio, l’ho vista cantare in un club con il suo tributo ad Adele, proprio mentre stavo cercando una voce calda e morbida alla Skye dei Morcheeba. È diventata poi la mia prima motivatrice, senza di lei non so se avrei portato a termine il progetto. Gli incontri accadono, ma bisogna anche farli accadere. Se sto a casa e mi abbandono a Netflix, sono sicuro che non concluderò più nulla.
Perché hai voluto affidare questi brani in particolare a voci femminili?
Perché, come già detto, è la canzone che comanda e nella maggior parte dei casi chiamava una voce femminile. In generale, da anni, preferisco le voci femminili, mentre a vent’anni ascoltavo voci rock, dure e maschili. Forse sono solo un po’ saturo, dopotutto ho una formazione grunge e hard-rock.
Nel disco partecipa anche Simone Morabito dei Riva Band. Con lui com'è andata?
Simone lo ascoltavo da tempo, quando ho sentito Il Silenzio ho subito pensato la sua voce fosse perfetta per quel brano, mentre detestavo la prima bozza che avevo cantato io. In pieno stile flâneur, mi sono concesso una gita nella sua città, la splendida Napoli. Ho passato la prima giornata in giro, godendomi questo spettacolo di vita che è il capoluogo partenopeo, riprendendo le immagini che trovate nel video della canzone.
Come hai fatto a legare così tanti generi diversi assieme?
La prima risposta che mi viene in mente è quella del noto macellaio toscano. La risposta corretta è che nella mia crescita musicale ho imparato e subito le influenze da tanti generi e artisti, quindi questo è il risultato naturale di questo mix. Io spero che abbia comunque una coerenza, uno stile riconducibile al mio lavoro: è giusto sperimentare, ma se non c’è uno stile che t’identifica, musicalmente vali poco, a mio parere.
Come vorresti si sviluppasse questo progetto? Pensi di riproporre in futuro qualcosa di simile con gli stessi artisti o vorresti coinvolgere altri musicisti?
Penso che il progetto Les Flâneurs non cambierà formula. Non vedrete un album con la mia faccia stampata . Bisogna avere davvero qualcosa da dire per aver il coraggio di farlo e, in ogni caso, sono più orientato verso il suono e gli scenari emotivi che posso suscitare con la sua manipolazione. È più facile che possa sonorizzare un film o che crei musica da club, per intenderci. Io mi auguro davvero di poter collaborare ancora con gli artisti con cui ho lavorato, e spero di poterne incontrare altri sia per Les Flâneurs, ma anche poter lavorare come produttore dei progetti altrui.
Ci parli della foto di copertina? Quando l’hai fatta?
Non vorrei essere ridondante, ma mentre ero in viaggio a New York e scattavo foto di genere street. Mi piace osservare le persone (esattamente il comportamento del flâneur) mentre sono assorte nei propri pensieri o mentre interagiscono con le altre. E’ una foto del 2016 e rappresenta bene sia il concetto di flâneurism, che quello della solitudine, tema ricorrente nei testi dell’album. La serie di fotografie dedicata è inserita nell’articolo del mio blog sulla metropolitana di NY.
Come mai i testi dei brani sono in tre lingue diverse?
Perché se avessi inserito anche il brano bossanova in portoghese che ho scritto per mia figlia, sarebbero state quattro! Scherzi a parte, anche in questo caso le lingue non sono state scelte, sono capitate e stavano bene con la canzone, vestono i brani alla perfezione, secondo i miei gusti ovviamente. Non ho badato (forse sbagliando) al mercato cui volevo rivolgermi, ma alla sonorità del brano in cui il linguaggio deve essere inserito in maniera naturale e non forzata, come a volte sento in alcune canzoni cantate in Italiano, su basi chiaramente esterofile. E’ difficilissimo fare un buon lavoro, apprezzo molto i trapper che ci riescono per esempio, molto meglio di alcune band indie.
E tu come ci sei riuscito?
Tutto è avvenuto proprio in maniera fluida e spontanea, come la musicalità di questo disco, come la morbidezza delle voci delle ragazze che lo cantano, come quando stai percorrendo una via giri l’angolo e c’è un negozio di dischi o una donna bellissima che aspettava proprio te. On Y Va, che sarà il prossimo video che pubblicheremo, musicalmente mi evocava la Provenza. Parlandone con Alice, mi rispose: “E che problema c’è, sono madrelingua francese!”. Colpo di fortuna? Coincidenza?
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L'articolo Les Flâneurs, il manifesto del vagabondaggio musicale di Redazione è apparso su Rockit.it il 2020-11-06 14:29:00
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