I tempi in cui cantava "che vita di merda" non li rinnega affatto, ma sono ormai passati. È il momento di darci un taglio con la tristezza adolescenziale e fare spazio all'amore, per sé stessi e per gli altri. Levante ci racconta il suo nuovo "Abbi cura di te".
È passato parecchio dai tempi di “Alfonso”. Hai pubblicato un disco fortunato, e ora un altro ancora. Sei riuscita a scrollarti di dosso l’immagine di “quella di alfonso”? Insomma, come si sopravvive ad un tormentone?
Si ci sono riuscita assolutamente, però io ti dico anche una cosa. Sono molto grata al tormentone, quindi anche quando si riferiscono a me come a “quella di Alfonso” sono molto felice. Perché sono stata io a dire agli italiani ok, adesso potete cantare “che vita di merda”. Sono molto orgogliosa di questo, e va benissimo così.
Nell’ultima intervista che facemmo si parlò molto della tua vita passata, della tua storia personale. Dei tuoi, della tua infanzia, degli inizi come artista. Com’è cambiata la tua vita negli ultimi anni?
È stato un anno ricchissimo, pienissimo di cose, non mi sono mai fermata. Abbiamo iniziato con “Le feste di Alfonso tour” nel novembre 2013, poi è iniziato il “Manuale Distruzione tour” nel marzo 2014, poi siamo stati in Europa ad ottobre, poi siamo stati in America a marzo, nel frattempo ho scritto e registrato un altro disco. Credo che il 2014 sia stato l’anno più intenso della mia vita, è successo di tutto. E la cosa assurda è che sono riuscita a sopravvivere a questo marasma di eventi numerosissimi. È cambiato tutto e sono riuscita finalmente a pagare l’affitto con la musica. E non è poco, ho finalmente realizzato un sogno. Poi ho tagliato i ponti con un po’ di persone, ho desiderato un po’ di sincerità intorno a me ed è stato lì che ho iniziato a scrivere “Abbi cura di te”. Una specie di consiglio fortissimo per me e anche per chi mi stava accanto. È stato un anno veramente intenso, e ho cambiato la mia rete di relazioni.
"Abbi cura di te" è un disco che parla principalmente del rapporto con se stessi. Nei testi si percepisce tra le righe questa voglia di leggerezza e indipendenza, sono tanti i verbi che descrivono una rete, una costrizione dalla quale ti vuoi liberare o dalla quale forse ti sei già liberata.
C’è una voglia di leggerezza, sicuramente. Dopo tantissimi anni di tristezza adolescenziale (che tra l’altro si ritrova molto in “Manuale Distruzione”, dall’inizio alla fine) ho avuto voglia di trovare un equilibrio, una sorta di ricerca della felicità. E in qualche modo ci sono riuscita, almeno a livello personale. Sul piano professionale invece non saprei, perché non sono mai contenta di niente. A livello personale però sono molto felice e mi sono resa conto che era tutta una questione di scelte: la felicità non andava cercata ma andava solo scelta perché (lo so, sono molto banale) è dentro di noi. In questo disco qui riesco a parlarne; sotto varie forme parlo dell’amore per un’altra persona, parlo della perdita, parlo dell’amore di mia madre per mio padre. C’è tantissimo amore in questo disco, perché quello che io ho ricevuto nel 2014 è stato quello, un nuovo e grandissimo amore.
Proprio a proposito di questo volevo chiederti della copertina: mi ha molto colpita perché sei seduta su quello che sembra un cervello che stai pugnalando e in mano invece tieni un cuore. In realtà saremmo portati a pensare il contrario.
Io amo molto il simbolismo, e anche nella copertina di “Manuale Distruzione” ce n’era tantissimo; per questo ho deciso di raffigurare, quasi come se dovessi spiegarlo a un bambino, il concept dell’album che è quello dell’amore per se stessi. È un disco che parla di quanto sia importante salvare i buoni sentimenti, per questo c’è un pugnale conficcato dentro al cervello: è una sorta di addio ai lamenti celebrali nei quali sono solita perdermi. Invece in mano tengo il cuore, che è il vero concetto del disco. Tutto gira attorno al cuore, tutto è volto ai buoni sentimenti.
Mi sembra quindi di capire che “Mi amo”, assieme a “Contare fino a dieci”, e “La rivincita dei buoni” siano il terzetto di canzoni che costituisce la vera chiave di lettura del disco, giusto?
Esattamente. Ne “La rivincita dei buoni” canto della tanto cercata e ritrovata felicità, in “Mi amo” racconto della voglia di ripetermi come un mantra che mi amo, che mi voglio bene anche quando non so sopportarmi, la voglia di apprezzarmi anche in quei giorni in cui tutto sembra essere contro di noi. Il file rouge di “Abbi cura di te” è proprio questo.
L’altro giorno stavo ascoltando il nostro Gemme Mixtape, e c’era una vecchia canzone di Nicola Arigliano che si chiama “Non sei bellissima”. Il pezzo parla appunto del fatto che anche se la donna di cui canta Arigliano è bruttina, lui la ama comunque molto per tante altre qualità. Riflettevo sul fatto che una volta c’era uno spettro molto ampio di canzoni d’amore con punti di vista mai scontati, mentre negli ultimi 30 gli argomenti si sono un po’ appiattiti. Si parla di storie tormentate oppure di storie belle, punto. Cosa ne pensi?
Sono d’accordo con te, l’amore nelle canzoni italiane ormai è diviso tra il dolore e la perdita e la gioia esasperata. Io spero di non fare parte di questa semplificazione, nel disco ho cercato di raccontare l’amore in mille modi. Prendi “Caruso Pascoski”. Il pezzo è un riferimento al film di Francesco Nuti in cui c’è questo Caruso che si innamora di Giulia, che incontra da piccolissimo in spiaggia. È una canzone che parla appunto di quel tipo di amore infantile. Credo, ma non ne sono sicura perché non sono obiettiva, di toccare diversi aspetti dell’amore in “Abbi cura di te”.
La canzone d’amore italiana più bella degli ultimi 30 anni?
Secondo me è quella dedicata a una figlia, ed è “Culodritto” di Guccini.
A livello musicale, verso che direzione hai puntato per questo ultimo album? Avevi un’idea precisa di come dovesse essere, musicalmente?
Certamente. Ero molto sicura di come dovesse essere il lavoro e avevo idee chiare su alcuni brani in particolare, come “Contare fino a dieci” o come “Tutti i santi giorni”. A differenza di “Manuale Distruzione” sono stata molto presente durante tutte le fasi in studio, ed è filato tutto veramente liscio. Ho avuto accanto dei grandi professionisti, ho lavorato con un team fantastico: Ale Bavo, Alberto Bianco, Daniele Celona, Paolo Angelo Parpaglione, Gianni Condina, Alessio Sanfilippo, Federico Puttilli e tanti altri musicisti. Rispetto a “Manuale Distruzione” si sente che c’è meno solitudine, anche a livello di arrangiamenti, di composizione. Sono circondata da professionisti e da tantissima amicizia.
Mi interessava anche parlare di “Pose Plastiche”, un canzone in cui critichi quel modo di socializzare basato sulle apparenze, sui falsi sorrisi, sulle feste alle quali presenziare per forza. Però tu non sembri un’eremita, o qualcuno fuori dai giri, anzi sembri una parecchio “inserita”.
No, io non sono un’eremita e mi piace tantissimo socializzare. Però allo stesso tempo sono capitata in situazioni in cui ci si prende per il culo. Quella è proprio una roba che mi fa innervosire in una maniera incredibile; non sarò mai quella persona che ti sorride se non ha nessun motivo per sorriderti. Come dicevo, negli ultimi mesi mi sono trovata in situazioni piene di convenevoli, in cui le persone assumono tantissime pose plastiche, e la canzone viene da lì.
È l’effetto che fa essere spesso a Milano?
È Milano come può essere Parigi, New York, è tutto quel mondo lì. Ad un certo punto nel pezzo cito anche Rita Pavone che dice “Datemi un martello”, cioè aiuto! In ogni caso mi riferisco a situazioni che per fortuna riguardano molto poco la musica, e anche quando parlo di celebrità degli anni ’90 mi riferisco a un paio di soubrette che si sono riciclate negli ultimi anni.
Nella canzone canti anche “basta con le pose plastiche”. Volevo prendere questa frase per parlare invece del tuo profilo Instagram, dove di pose plastiche ce ne sono un sacco (in senso positivo). È una cosa che fa parte della tua comunicazione come artista, o come persona?
No assolutamente, con la musica non c’entra niente, fa parte del narciso che è dentro di me. Io amo le cose belle, so che la bellezza è soggettiva, però tutto quello che è bello per me deve essere manifestato. E quindi mi piace quel genere di foto, quel genere di luce, mi piace posizionare due fragole in modo simmetrico e fotografarle su un piano bianco. Adoro la fotografia e tutto quello che è estetica, diciamo così. Io sono un’esteta, si vede dalle foto che scatto, ecco.
Immagino che sia qualcosa che i fan apprezzano.
No guarda, vado contro a molta gente che invece viene urtata da queste immagini, si chiedono perché una cantautrice debba impegnarsi anche in questo tipo di attività. A me però non importa niente di quello che pensa la gente, se una cosa mi piace la faccio, se ho voglia di cucire un vestito lo cucio, è anche questo il mio modo di esprimermi. Lo faccio perché mi va.
Sul tuo profilo Instagram ci sono anche molte tue foto assieme a Bob Rifo dei Bloody Beetroots. Ero curiosa di sapere se vi influenzate musicalmente, se frequentando lui hai approfondito la tua conoscenza della musica elettronica, e viceversa.
Lui non ha bisogno di essere influenzato perché non conosco persona più preparata di lui musicalmente. È un genio, lavora 14 ore al giorno, è un bravissimo polistrumentista. Bob mi ha influenzata tantissimo perché io la musica elettronica non l’ho mai amata, e invece conoscendolo mi sono avvicinata al genere e ho scoperto delle cose fighissime. Per esempio uno dei miei musicisti più amati è Flume, adesso. L’elettronica di Bob mi piace, è molto punk, molto aggressiva, molto cattiva. Poi c’è un mondo attorno a lui che non gli appartiene e che non apprezzo, per cui non tutto della musica elettronica mi fa impazzire. Potrò sembrare non obiettiva ma lo sono, la sua musica mi piace perché ha veramente un gran gusto. Detto questo però non mi butterei a capofitto nella musica elettronica.
Tornando al pop, credo che tu, assieme ad artiste come Nina Zilli e Malika Ayane, possiate rappresentare una nuova generazione di pop star italiane: se guardi alle artiste degli ultimi 20 anni pensi a Pausini per il polo melenso e commerciale, a Carmen Consoli per quello più cantautoriale e Nannini (che è in giro da una vita) per quello più rock. Tutto il resto sono meteore, o talent show. Voi invece mi sembra abbiate un approccio più originale e contemporaneo, al netto delle differenze musicali.
Ti ringrazio per quello che dici, ma io non mi sento una pop star. Mi piacerebbe tantissimo, però non lo sono e lo dicono i numeri. Però è vero che negli ultimi anni siamo state le uniche ad essere uscite allo scoperto senza i talent, perché altre, come Carmen e Elisa, sono venute fuori in altri momenti della musica italiana. Malika Ayane la stimo da morire, mentre nella comunicazione la Zilli è molto avvantaggiata anche per via del suo amore per la televisione. Per il resto io sono una cantautrice, sono autrice di musica e testi, non so le altre.
Ho letto recensioni e interviste in cui ci si chiede ancora se sei indie o mainstream, magari sorprendendosi del fatto che tu non stia da nessuna delle due parti. Giornalisti che nel 2015 si chiedono come sia possibile che tu possa suonare al MI AMI ed essere intervistata anche da Radio Deejay all’ora di punta. Non trovi assurdo che si sprechi ancora tempo con domande del genere? Perché secondo te la gente non si vuole rassegnare al fatto che queste suddivisioni sono nocive e del tutto superate?
Io trovo assurda la gente che mi definisce “borderline” quando si tratta di parlare di pop in Italia. Io sono pop, e a parte tutto non faccio cose così strane, ed essere sempre etichettata in un modo o nell’altro è una cosa che mi infastidisce molto. Questo approccio ci porterà molto poco lontano, l’essere snob nella musica la trovo veramente una cosa innaturale perché la musica dovrebbe unire le persone, e in questo modo le divide. Se mi sono stufata di rispondere a certe interviste che si soffermano su questioni futili? No, si può sempre discuterne, però il problema non è il mio essere indie o commerciale, il problema è che in Italia si fatica a dare il giusto peso alla musica e al pop in particolare. Se in un altro paese vai in giro a portare la musica che faccio io vieni considerata una cantautrice pop, semplicemente. In Italia io faccio il triplo della fatica delle band cosiddette “indie” perché la gente e soprattutto gli addetti ai lavori non riescono a collocarmi. Questa cosa di etichettare la gente e gli artisti è un disastro, insomma.
Tra meno di un mese suonerai da noi al MI AMI: cosa ti aspetti dal festival? C’è qualche artista che sei curiosa di vedere sul palco?
Sono venuta al MI AMI in passato, ho visto come funziona il festival e mi è piaciuto tantissimo. Vorrei tanto vedere Colapesce, purtroppo avevo perso l’occasione di sentirlo quando è venuto a Torino. Per il resto aspettatevi che crolli tutto, perché sarò anche pop ma quando salgo sul palco mi trasformo in un animale.
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L'articolo Un disco e un consiglio: Levante racconta "Abbi cura di te" di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2015-05-22 10:34:00
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