L'ultima volta che mi ero occupato direttamente di Lorenzo Stecconi, nell'ottobre 2017, il nome del chitarrista romano era ancora indissolubilmente legato al progetto più celebre (e celebrato) dei suoi ultimi vent'anni: i Lento. Avevo parlato col batterista Federico Colella, appollaiati sui gradini fuori dal TPO di Bologna per captare le impressioni del quintetto, divenuto prima quartetto e poi terzetto, all'ombra dell'uscita di Fourth (Consouling Sounds, 2017). Un disco difficile, arzigogolato, esigente, che mise a dura prova anche gli estasiati spettatori del Krakatoa Fest di quell'anno, per poi risentirlo poco tempo dopo e farmi riportare in semi-diretta cosa stesse succedendo e le difficoltà del gruppo nel portare avanti un'idea così libera e mutevole in un contesto, quello post-metal e più in generale quello italiano, che fa da sempre delle proprie tacche e della propria fissità dei veri stendardi. Non a caso, come spesso accade in casi simili, si apprestavano a fare più date all'estero (6) che in Italia (2).
Quando riassemblo le idee per questo articolo, invece, riunendo le decine di dischi nei quali ha dato un'impronta nelle vesti di produttore, di etichette con cui ha collaborato e di artisti che ha seguito in tour, Lorenzo è in giro per la penisola con i Traum, interessante progetto psych-kraut-qualcosa a due chitarre con Luca Ciffo e Paolo Mongardi (già nella fu Fuzz Orchestra) e Luca T. Mai (Zu/Mombu) in uscita il prossimo autunno.
Stavolta, però, lo spunto musicale per chiamarlo in causa è assai più personale: ovvero la strabordante bellezza di Ambula Ab Intra (SubSounds Records, 2023), il primo disco solista a suo nome, registrato solo con la chitarra elettrica, che sapientemente coniuga l'amore per la musica d'ambiente e drone con il rock psichedelico-progressivo degli anni '70. Ossia? Quella fusione di psichedelia, musica sperimentale e certo noise (ma anche in misura minore psych-drone e post) che potrebbe essere creata da un David Gilmour se non fosse oramai vecchio e stanco. Lui o un Arthur Lee, se non fosse morto. Come se questi pilastri della musica avessero sentito e benvisto la produzione di Steve Von Till, Justin Broadrick o, perché no, degli Ulver creando musica ipnotica e ancora (oserei dire) stupefacente.
E badate bene non si parla di “paragoni per assurdo”, in quanto il paragone per assurdo è quando leggete che un gruppo suona come i Napalm Death indie rock con un bassista funk nero anni Settanta, qua parliamo più di verosimile astrazione, ossia avere un livello di percezione immaginifica superiore di quello di un Dario Salvatori che scrive sul Monello nel '83. “Le mie prime esibizioni in solo risalgono ad almeno una decade fa", mi racconta Lorenzo, "ma per realizzare la trasformazione di quell’embrione musicale in solchi e sequenze digitali ci sono voluti lunghi anni di ricerca sonora e interiore. Anche se vedevo che si dilatavano i tempi di realizzazione sapevo che quello era il suo inevitabile percorso e ho deciso di assecondarlo”.
Mi rendo allora conto che non è facile assimilare un disco come Ambula Ab Intra in un ascolto solo magari con altra gente intorno, con luci e rumori d'ambiente. È come quando in quel film di Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino, c'è Nick Cave che recita e si sente la sua musica in sottofondo rovinata dal telefono e dai rumori in sottofondo e questo rovina sia l'effetto della musica che del film. Per questo chiudere gli occhi e ricreare un ambiente al buio può permettere di indirizzare i propri sensi solo sull'ascolto. Lo consiglio.
Continuando nell'accostamento tra disco e film, tanto più che il suo creatore ha studiando a lungo composizione orchestrale per film e media, il parallelismo verrebbe con pellicole dense di dettagli e particolari, e ancora meglio se in bianco e nero, come π - Il teorema del delirio, Eraserhead o Persona di Ingmar Bergman, dove devi star attento per non perdere il senso generale del viaggio in cui la forma finale passa attraverso una soluzione all'apparenza free. “L’idea è stata proprio quella di fondere le due cose, volevo un bilanciamento equivalente tra una sorta di soundscape più 'scritto' e la possibilità di lasciare molto spazio all’improvvisazione. Appena sono riuscito a concretizzare il tutto nella forma giusta ho preso la chitarra e ho registrato di getto il disco in una grigia mattinata di marzo dello scorso anno”, spiega. Infatti si ha spesso la sensazione che la musica scorra come un flusso o una marea che si alza e si abbassa, a volte in modo repentino, a volte come una carezza.
Tuttavia, si ha sempre l'impressione che Lorenzo sappia esattamente ciò che vuole produrre e la direzione in cui vuole andare e che, nonostante l'indubbia ricercatezza, ci sia una sottesa volontà di creare qualcosa di più intimo e personale. “Direi intima e individuale", mi corregge. "Il disco è pensato come una colonna sonora di un viaggio che ognuno di noi può fare dentro di sé. Mi piace pensare di poter accompagnare l’ascoltatore in una sorta di meditazione per quei quaranta minuti di durata del disco e dei concerti”. Non a caso Ambula Ab Intra è un titolo quasi sacrale. “È un antico motto che invita appunto, a camminare dentro di sé. Racconta della primordiale e incessante ricerca dell’uomo della verità, che comincia in primis da se stessi”.
Questo racconta ancora un altro aspetto, un'altra parte, della bellezza racchiusa in questo disco. Tutto nasce da un piccolo suono, proprio come nell'iniziale End of a Dream, un'idea di base che poi cresce. Il suono di Ambula Ab Intra è come una massa che si stratifica e progredisce man mano che si procede nell'ascolto ma non pecca di prolissità, non fa pipponi, non attacca mostri, magari li crea – ma questa è cosa buona e giusta, come per ogni disco che attivi la mente.
“Avevo deciso l’idea del disco e di sole quattro tracce già molto tempo prima, faceva parte di una sorta di mio primordiale tentativo di composizione che ho voluto percorrere a fondo, riuscendo a distillare la parte buona e pura. Il resto, la parte dannosa, l'ho poi scartata strada facendo”. Così se Martin Gore, una delle primissime influenze di Lorenzo, di recente ha ricacciato fuori il termine “frippertronics” (inventato da Robert Fripp a fine anni '70 per indicare la pratica di suonare la propria chitarra attraverso due registratori a bobina Revox che si rimpallano il segnale a vicenda) per parlare di alcuni passaggi sonori ossessionanti di chitarra all'interno dell'ultimo album dei Depeche Mode, il musicista, compositore e produttore romano ci tiene a precisare che "...un'altra sfida che mi sono voluto prefiggere era di rendere ogni suono riproponibile al 100% dal vivo, quindi niente del più classico chitarra, distorsione, ampli condito ovviamente da riverberi e delay di anche 20 secondi. Pur non avendo quindi nessun macchinario particolare, mi sento quindi di concordare appieno col buon Martin, la navigazione nei meandri oscuri della ricerca del suono ha portato anche a me negli anni ad allungare sempre più i tempi del delay”.
Ma Ambula Ab Intra resta un disco nel suo visionario, frutto di una maniera propria di vivere (“Non mangio animali da quasi quindici anni oramai. Non è solo un discorso etico-politico ma anche scelta di non nutrirsi di morte e sofferenza”) e suonare, glorificato da passaggi bellissimi e una tensione di fondo che nonostante i momenti di placida bellezza, non si interrompe mai. Com'è del resto consono al concept e proprio del chitarrista di un gruppo come i Lento che, da che io ho memoria, in positivo o in negativo, non ha mai lasciato indifferenti. “Pensa che il primo brano nasce proprio da un motivo che mi piaceva improvvisare sul finale degli ultimi concerti coi Lento, e mi è sembrato naturale ripartire da lì. Io credo che ci sia un flusso continuo, almeno per quanto mi riguarda. Cerchi di andare in una direzione ma a volte è sano anche stufarsi di vecchie abitudini”. Penso allora chissà se ci sarà mai spazio per una reunion. “Non escludo a priori una reunion dei Lento e lo spero, ma sicuramente non in un futuro prossimo”. Avete tutto il tempo di un viaggio interiore.
Entrare in contatto con Lorenzo Stecconi in occasione dell'uscita del suo disco solista ci permette di porgli qualche domanda sulla sua vita da produttore italiano, romano, ostiense per la precisione, che possa rievocare a noi semplici fruitori, magari anche frettolosi, di risultati finali qualche accenno di un percorso lungo e complesso che spesso si fatica anche a immaginare.
Ti definisci "Musicista, compositore, produttore", è questo l'ordine giusto?
Non c’è un'ordine preciso, la sfida è di unire le tre azioni in un unica forza, maggiore della potenza delle singole. A volte arriva il momento di entrare nella strada sinuosa dell’armonia, un’altra quella magari oscura delle risonanze e dei microtoni, un’altra ancora in quella di prendere la chitarra e di accendere l’ampli.
I tuoi lavoro da musicista e produttore sono stati pubblicati da etichette come Denovali, Consoling Sounds, Ipecac... Hai mai pensato di abbandonare l'Italia?
Roma e il suo litorale hanno sempre il loro modo anche un po' cretino di accoglierti e farti sentire a casa. Ho le mie radici qui, e nonostante andando in giro mi possa infatuare di diverse città o culture, poi torno sempre a casa, voglio pensare che se sono nato in questo delirio di città probabilmente un motivo ci sarà e forse devo ancora scoprirlo.
Hai lavorato con tanti artisti molto diversi tra loro, come si entra in contatto in così poco tempo con David Tibet, gli Amenra e i Dalek?
Con gli artisti più puri l'atmosfera di connessione che si crea immediatamente durante un concerto o una registrazione è sempre una cartina tornasole di quanto sessione o concerto andranno bene. Dalla mia esperienza i nomi che hai detto fan parte di quella categoria di musicisti che subito danno vita a qualcosa di impalpabile ma splendido.
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So per vita vissuta che Joe Lally quando registra mangia solo frutta. Blixa Bargeld non lavora se in giro c'è gente con colori troppo sgargianti. Qual è la cosa più assurda che ti è capitato in studio?
Nei primi anni nei quali lavoravo come fonico mi è capitato di registrare un coro di una ventina di persone che vivevano nello stesso condominio: il “disco” era una sorta di ode alla bellezza del loro palazzo.
Steve Albini diceva che non gli interessa apparire come produttore nei dischi altrui, perché il suo nome aumenta le aspettative e vincola tutti ad avere un dato sound. Ciò invece non accade per i suoi dischi, dove però curare la composizione e la produzione raddoppia i rischi. Tu come ti regoli?
A volte è decisamente difficile scindere quel lato mentale più tecnico-fonico da quello più creativo-musicale, registrarsi da solo non è mai una cosa facile. Tendo quindi a tenere sempre pronto il mio setup per non preoccuparmi della parte tecnica una volta premuto rec.
Pensi di avere maturato in questi anni uno stile distintivo?
No, non credo di avere un mio suono distintivo come produttore, sono sempre dell’idea che un buon disco lo si fa quando c'è grande armonia e collaborazione tra tutti i coinvolti nel processo.
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L'articolo Lorenzo Stecconi, post metal alchemist di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2023-06-26 10:30:00
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