La musica country, questa sconosciuta. Eppur si muove cercando spazio tra l’indie tricolore con orgoglio e voglia (necessità?) di trovare uno spazio, possibilmente ampio. I Lovesick ci stanno provando, forti del successo che ottengono ogni qualvolta che varcano l’Oceano. E da quelle parti, di certi argomenti se ne intendono. Sono usciti lo scorso giugno con Remember my Name, album registrato a Los Angeles con la produzione artistica di Fabrizio Grossi (Alice Cooper, Joe Bonamassa, George Clinton, Steve Vai, Ice T…) e ora ripartono con un mini tour.
Chi sono i Lovesick e perché si sono incaponiti con la country music e le sue variabili ce lo spiega Francesca Alinovi, contrabbassista del trio.
Francesca, partiamo dalle origini: come nascono i Lovesick?
Siamo nati dalle ceneri di un’altra band, i Paul maD Gang, un quartetto, musica americana a più non posso, quasi sempre cover. Quando ci sciogliamo, nel 2015, io e Paolo Roberto Pianezza formiamo i Lovesick Duo con l’intenzione di riscoprire le radici della cultura musicale del Nord America, quindi Hank Williams, Chuck Berry… Iniziamo a suonare per strada, in stile buskers, poi troviamo la possibilità di esibirci in concerto, arrivano dei dischi. Ne abbiamo autoprodotti sei, mentre l’ultimo, Remember my Name, è stato registrato a Los Angeles. Tutti in lingua inglese tranne uno. L’album in italiano doveva uscire per Garrincha Dischi nel 2018, ma il successo dello Stato Sociale al Festival di Sanremo ha determinato un surplus di lavoro per l’etichetta bolognese, così tutte le uscite programmate per quell’anno se ne sono andate a quel paese, compresa la nostra. Dopo quell’esperienza siamo tornati a cantare in inglese: una decisione felice, visto che negli anni della pandemia, tra il 2020 e il 2021, abbiamo registrato un boom di vendite di dischi e di incrementi di visualizzazioni sui social. Cosa che ci ha permesso di avviare due collaborazioni lavorative, una con l’agenzia di booking Barley Arts, l’altra con l’ufficio stampa Az-Press. Grazie agli ultimi due dischi, la nostra musica è andata in giro un po’ in tutto il mondo, anche fisicamente, e nel 2023, visto che da un po’ di tempo collaboravamo con il violinista Alessandro Cosentino, abbiamo deciso di coinvolgerlo nel nostro ultimo album. Paolo aveva già passato diversi anni negli Usa, lì ha avuto il tempo di appassionarsi alla musica country e western swing e ne ha approfittato per approfondire la conoscenza della lingua inglese. Successivamente ha cominciato a scrivere tenendo conto anche di queste sonorità.
Eravate un duo, adesso siete in tre: cos’è cambiato per voi?
È cambiato il nostro sound, e anche lo show. Il sound è diventato più American Music, suoniamo dal blues al country, il western swing e il rock’n’roll. Alessandro canta, suona il violino e la batteria, ha apportato al progetto un ventaglio di possibilità musicali non indifferenti.
Come mai Cosentino non appare nell’immagine di copertina del vostro ultimo album?
Remember my Name è stato pubblicato e stampato negli Usa, Canada, Australia oltre che in Europa, e visto che non avevamo una storicità musicale in questi paesi, il nostro produttore, Fabrizio Grossi, ci ha suggerito di tenere l’immagine, quella mia e di Paolo, che si è già consolidata in Italia. All’interno del disco, però, si trovano le foto del trio, anche perché Alessandro è uno di noi.
Fabrizio Grossi, un produttore parecchio conosciuto, è stato lui a trascinarvi in California… In che modo lo avere scovato?
Sono stata io a proporre a Paolo e ad Alessandro di provare ad andare oltre, di non reggerci solo sulle nostre idee ma di farci influenzare anche da qualcun altro, di cercarci un produttore artistico americano, insomma. Tra i vari contatti ne è uscito uno, Fabrizio Grossi, appunto, un italiano trasferitosi in California negli anni ’80 che ha collaborato con tanti nomi della scena hard rock, rock e pop internazionale. Ci siamo arrivati tramite il nostro ufficio stampa: Grossi, dagli Usa, collabora con l’American Blues Association, un’associazione fondata a Memphis che preserva e diffonde la cultura blues e lavora per favorire uno scambio di musicisti tra l’America e l’Italia. Abbiamo iniziato a collaborare, poi non ci è rimasto che volare a Los Angeles, dove siamo rimasti due settimane e mezzo a registrare il disco.
Com’è stato lavorare con un produttore di vaglia?
È andato tutto benissimo! Siamo ancora in contatto, lavoriamo ancora insieme. Fabrizio è uno che mette le mani su di un gran numero di produzioni ed è una persona molto seria. Risponde, è collaborativo, instancabile, molto presente. Siamo contentissimi di averlo incontrato. Non sempre è così: nel mondo musicale tutto sembra semplice, ma non lo è…
Quanto di suo c’è stato nel suono dell’album?
Fabrizio aveva una visione per ogni brano del disco. E cercava un appeal americano. Una cosa tipo: se dite certe cose o se le suonate così, a un americano arrivano meglio. Anche se una frase risultava corretta, ci ha messo in guardia sul rischio che non suonasse vera. Oppure: questo brano è troppo lungo, quest’altro va bene ma il ritornello va ripetuto tot volte o messo all’inizio… Un esempio specifico: The Rain, uno dei pezzi del nostro disco, a Fabrizio piaceva moltissimo per il modo in cui lo avevamo arrangiato, ma ci ha suggerito di lavorarci ulteriormente per trasformarlo in un brano degno di una colonna sonora. E così è stato. Una serie di suggerimenti grazie ai quali siamo riusciti a centrare i nostri obiettivi.
E invece, come siete arrivati alla Rock’n’Hall, l’etichetta francese con la quale avete pubblicato Remember My Name?
Siamo entrati in contatto con Rock’n’Hall grazie a Dixiefrog Records, altra etichetta francese, che ha aperto una service label dedicata proprio a rock’n’roll, country e americana. Il nostro disco è distribuito fisicamente e online in tutta Europa grazie a loro.
In Italia, il country e tutti i suoi derivati non sono così popolari…
Guarda, Remember my Name, di base, ha a che fare con il country, gli altri dischi incisi in precedenza erano più orientati al blues, al rock’n’roll. Tra la fine degli anni ’90 e inizio 2000 c’è stata una grande influenza del rockabilly in Italia, quindi una certa scia di pubblico è ancora abituata a certe sonorità. Con la svolta country, chi ci seguiva ha continuato a seguirci, mentre molti altri sono venuti fuori durante il percorso. Tornando alla tua domanda, in verità il country, da noi, ha una sua popolarità. Mi spiego: parto da una frase scritta da un amico in un bar di musicisti, “Il liscio è il country della Romagna”. In un certo senso, è proprio così. È una musica popolare da ballare, con bellissime parti strumentali e storie di vita quotidiana. Di altri tempi, sì, ma vera e genuina. Noi mettiamo tanta energia quando interpretiamo il country, il modo in cui lo suoniamo e lo proponiamo arriva alla gente nei nostri concerti più della canzone in sé. È quel che ci succede in America: quando siamo arrivati là, loro non credevano che degli italiani avessero potuto approfondire così la musica che rappresenta la base della loro cultura, pertanto, ne sono rimasti estasiati.
Nessuno, nei vostri concerti in America, è venuto mai a dirvi cose tipo: ma che ne volete sapere voi della nostra musica?
No, gli americani sono talmente patriottici che quando qualcuno onora la loro cultura cono contenti. E poi, adorano gli italiani, è questo mix ad affascinarli.
Il successo che avete all’estero è sorprendente…
Riceviamo di continuo tante dimostrazioni d’affetto. Di ogni tipo. Abbiamo conosciuto gente che ha guidato sei o sette ore per venirci a sentire, anziani di ottant’anni che hanno convinto i nipoti a portarli a un concerto di italiani che suonano musica americana… Incredibile! Poi tantissimi doni, messaggi di ogni tipo, oltre a tante cose improponibili e difficili da raccontare! Ma la cosa più bella mi è successa proprio in occasione della registrazione del disco: avevo bisogno di un contrabbasso, mi ha scritto John Hatton, il contrabbassista della Brian Setzer Orchestra (Brian Setzer, quello degli Stray Cats!), e me lo ha portato. Non mi aveva mai visto in vita sua! Mi ha consegnato uno strumento degli anni ’40 senza custodia, dicendomi “Se ti serve, prendilo!”, come se ci conoscessimo da una vita! Non è finita qui: dopo un paio di settimane, ci hanno offerto di suonare alla festa del Cinquo de Mayo di Los Angeles, allora gli ho scritto e lui è venuto, vestito super rockabilly. Immagina un signore di 70 anni e passa, alto e secco secco secco, tutto nervi, che dopo il concerto viene al banco del bar, mi offre un cicchetto e mi dice: “Non lo dire a mia moglie, ma mi sono tinto i capelli per te: volevo venirti e vedere e dovevo essere assolutamente presentabile!”. Questa cosa mi ha fatto morire! Io conosco i dischi di Brian Setzer e degli Stray Cats, li ho visti dal vivo, ma mai avrei immaginato di suonare con il contrabbasso di Hatton! Per non parlare di quel che è successo la settimana successiva…
Racconta.
Ho conosciuto Matt Freeman, il bassista dei Rancid, la prima band che ho amato, grazie alla quale ho iniziato a suonare anche il basso elettrico. Era al nostro concerto, ci ha detto: “Perché non venite a casa mia, così vi faccio visitare San Francisco?”. Siamo andati in giro per la città con la sua macchina, ci ha mostrato i luoghi della sua infanzia, ci ha raccontato la vita dei Rancid sin da quando hanno iniziato a suonare, i posti dove provavano. Al di là della musica, a sorprendermi è questa umanità, questi incontri che mai avrei pensato potessero accadere. Sono cose che mi emozionano, molto più dall’aver suonato in tour con Zucchero Fornaciari, Ben Harper, Edoardo Bennato, Toquinho o Tommy Emanuel…
Hai parlato di “tante cose improponibili e difficili da raccontare”. Dai provaci…
Come in ogni tour, si incontrano tantissime persone e si vivono molteplici situazioni, belle e brutte, spesso interessanti. Una delle più belle esperienze è stata aprire il concerto di Tommy Emmanuel al Phenomenon di Fontaneto d’Agogna. Ricordo che, appena prima che salissimo sul palco, Tommy e il fotografo Guido Harari si sono infilati nel nostro camerino mentre ci stavamo scaldando le dita e le corde vocali con il brano Roly Poly. Tommy ha cominciato a suonare la chitarra e armonizzare con la voce con noi mentre Harari scattava foto, emozionato dalla situazione che si era creata. Potete vedere il tutto sui nostri canali Instagram e YouTube.
Com’è il pubblico americano?
Fantastico! Come quello europeo. È quello italiano che fa fatica. Fa fatica a spendere soldi per la musica, fa fatica a entusiasmarsi, fa fatica a scoprire il nuovo… Anche se abbiamo una cultura musicale profondissima, raramente ci facciamo coinvolgere. La differenza con gli americani è che per noi la cosa principale è il cibo, per loro è la musica. In America non esiste nessuno che non suoni, che non vada ai concerti, che non ascolti musica in famiglia o con gli amici.
Torno su di un’altra tua frase, questa: “nel mondo musicale tutto sembra semplice, ma non lo è…”. Mi sembra di capire che per voi non sempre siano stati rose e fiori…
Diciamo che, soprattutto in Italia, con questo tipo di musica, ogni piccolo passo è veramente sudato e costruito nel tempo. Continuiamo a lavorare sodo per migliorarci come musicisti e portare la nostra musica sempre più lontano.
Non mi sembra che in Italia ci sia un grande giro di band che suonano musica tradizionale americana. I Lovesick, se non sono gli unici, poco ci manca…
Qualche gruppo in circolazione ce n’è, per esempio il Don Diego Trio, di Roma un gruppo western swing, a Milano troviamo i Rock’n’Bonnie, senza dimenticare i piemontesi Red Wine, che suonano bluegrass: loro sono storici, girano da più di vent’anni. Poi esistono anche altre piccole realtà...
Ne deduco che una scena country, nel nostro Paese, non esiste…
No, in effetti non proprio.
Sei una contrabbassista diplomata al Conservatorio, non ti sta un po’ stretto suonare musica country?
Sono sempre stata una persona molto netta, schietta ma mai settoriale. La musica americana mi ha sempre appassionato, non solo il country, e i viaggi mi hanno portato a suonare tanti tipi di musica: il jazz, compreso il traditional jazz di New Orleans, il rock’n’roll, lo psychobilly… So che il country è solo un percorso, ma il modo in cui in questi anni ho suonato con Paolo è molto jazz. Nel jazz c’è tanto interplay, c’è improvvisazione e i nostri brani, dal vivo, non li suoniamo esattamente come sono nel disco. Anche se la produzione può risultare pop, dal vivo è tutto diverso, non c’è nulla di inquadrato. L’idea di aver studiato jazz mi ha portato tecnicamente a non fare le stesse cose e a toccare un interplay musicale molto ampio, a una visione di costruzione del brano diversa da come l’avrei suonato se non avessi studiato al Conservatorio. E comunque, parallelamente ai Lovesick, ho avuto e ho altri progetti.
Quali?
Il Sogno di Orfeo, dedito al jazz strumentale, sempre di stampo americano, melodico, un po’ blues. Ci siamo sciolti lo scorso anno, ora suono in un duo femminile con Beatrice Lenzini, siamo le Wrong Sisters, ci siamo immerse nel blues, nel folk e anche nel soul, la formula è voce e contrabbasso. Un duo poliedrico, nel quale ho più libertà, dove c’è tutto quello che non faccio con Paolo.
Avete girato un bel po’, all’appello mancano Sud America, Oceania e Asia…
Vorremmo andarci! Stiamo cercando dei promoter che ci portino lì. Mi piacerebbe molto. Pubblico in Sud America ne abbiamo, in particolare in Argentina, Brasile e Cile. E poi vorrei tornare di nuovo in Giappone, perché lì la cultura rock’n’roll è molto forte.
Intanto sta per partire un altro tour, vai con le prime date.
Al momento, le date ufficiali sono le seguenti: partiamo il 15 febbraio dal Lokomotiv di Bologna, il 21 saremo sul palco del Santomato Live Club di Pistoia. Poi due date a marzo: il 7 al Lumière di Pisa, il 29 al Rockabilly Rave di Great Yarmouth (UK). Ad aprile partiremo dal CrossRoads Live Club di Roma, il 4, poi, il 10 eccoci al Biko di Milano e il 12 al Capitol di Pordenone. Il 24 maggio tappa in Svizzera, al Wortreich di Glarus, mentre il giorno seguente saremo al Lambic di Torino.
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L'articolo Lovesick: "In Italia si fatica, in America non c'è nessuno che stia senza la musica" di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2025-02-06 15:17:00
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