Lowlow, ovvero Giulio Elia Sabatello, classe 1993, è un rapper romano che ha esordito nel 2011 con il mixtape autoprodotto “Metriche vol.1”. Nel 2012 un altro esordio col suo gruppo NSP ed entra in Honiro Label, con cui pubblica quattro dischi, l’ultimo nel 2015, che sancisce la fine di un primo periodo artistico molto prolifico e fatto di tante collaborazioni (da Gemitaiz a Briga, Mostro e Rocco Hunt). Il 13 gennaio 2017 pubblica “Redenzione” , il suo primo album ufficiale su Sugar Music, diventando così il primo artista rap ad entrare nel roster dell’etichetta di Caterina Caselli. Lo scorso venerdì è uscito il suo secondo album “Il Bambino Soldato” (Sugar), e abbiamo fatto due chiacchiere con Lowlow per farci raccontare qualcosa in più sul suo nuovo disco.
Non mi riferisco agli esordi e ai tempi dell’Honiro, rispetto cui lo scarto è evidente ma, nei confronti del tuo ultimo album, cosa è cambiato? A mio avviso sei riuscito a portare i testi a uno step successivo, ancora più maturo, più profondo. È stato merito di una crescita personale o di un perfezionamento tecnico?
Entrambe le cose. “Redenzione” è il disco di un solista appena nato, con un nome alle spalle, ma al suo primo grande passo. Mi sono posto in una maniera totalmente differente nei confronti della mia carriera solista che, essendo un progetto esclusivamente incentrato su di me, mi rende molto più esposto ed emotivo. Finalmente ho la possibilità di dire le mie cose e di dirle come voglio. Forse non ho ancora avuto modo di esprimerle tutte. Io traggo ispirazione da un immaginario vastissimo e, sinceramente, penso che pochi rapper alla mia età possano vantare un ventaglio di temi ampio come il mio. Ma sono una persona cupa. Quest'oscurità è parte fondante della mia poetica, probabilmente sta anche alla base del mio successo, ma ha sopraffatto tutto il resto celando determinate sfaccettature umane. Descriverei questa fase prendendo in prestito questa frase di Drake: “Between I want it and I got it”. Ho costruito una carriera sull’essere antipatico, sul far ricredere la gente, e questo mio modo di pormi mi ha certamente permesso di catalizzare attenzione. Non è che prima fossi meno sensibile, anche se dalle canzoni non traspariva, probabilmente usavo la musica per sfogarmi. Ancora oggi posso rappare delle oscenità in una strofa dopo che ho pianto perché un bambino mi ha dato del ciccione. La mia insicurezza si è veramente dimostrata la mia forza, è stata la spinta ad impegnarmi di più, a studiare più degli altri, a crederci di più proprio perché avevo più paura. Io non sono uno di quelli che dice che non dà peso alle critiche, che non legge i commenti negativi sotto i video caricati su YouTube. Il mio modo di parlare, il mio modo di vestirmi, sono tutti prolungamenti della mia persona a cui do molto peso, ma per quanto riguarda la mia carriera solista, da “Ulisse” in poi è tutta basata sul mio valore artistico. Le persone vogliono empatizzare con il cantante che ascoltano, mostrarsi più umano è importante, spero che con “Il Bambino Soldato” abbiano modo di conoscermi a fondo. Sto provando a nascondere il mio occhio da rettiliano. Però guarda, ci sono un sacco di artisti simpaticissimi che poi a rappare fanno schifo.
Immagino che un ruolo fondamentale lo abbia rivestito anche Big Fish: cosa vuol dire lavorare con un producer storico come lui?
L’incontro con Fish è stato un momento fondamentale. Ci siamo trovati bene artisticamente ma, soprattutto, ci siamo trovati bene umanamente, dettaglio generalmente di poco conto per due persone super professionali e dedite al lavoro come noi. Invece in questo caso è stato determinante. È riuscito a far emergere degli aspetti che sono al 100% di Lowlow, ma che senza di lui non sarei mai riuscito a esprimere. Per essere me stesso ho sempre avuto bisogno di questo sfondo nero, Big Fish è l’artefice delle sfumature della mia musica. “Basso Basso”, ad esempio, è una canzone intelligente, tagliente, eppure è divertente. Fish mi ha permesso di uscire dalla mia comfort zone senza mai scendere al di sotto dei miei livelli. E ci è riuscito soprattutto con un lavoro umano e intellettuale. Se “Il Bambino Soldato” è un album più sfaccettato il merito è suo, spero di poter così riuscire ad arrivare a tante altre persone e farmi conoscere un po’ di più per quello che sono in realtà.
Per quanto riguarda la comunicazione, la capacità di raccontare sfumature della propria persona che prima non erano emerse, a mio avviso, ha influito anche un altro fattore: a livello di scrittura, impegnarsi nella pubblicazione di un libro ha avuto dei riscontri pratici?
In realtà me ne sono reso conto solamente ora che mi hai posto questa domanda. Sicuramente sì! Scrivere un libro è un’operazione ben diversa da scrivere una canzone, non ti concentri più sulle rime, non pensi più che ogni singola frase debba lasciare il segno. Devi raccontare una storia e farla arrivare alla gente. Questa situazione si è poi riversata nelle mie strofe, non ho cambiato il mio stile, non mi sono snaturato, ma sicuramente ho compiuto un passo avanti per quanto riguarda lo storytelling. Il libro mi ha proiettato in una dimensione che va oltre il consueto concetto di egotrip tipico del rap, una dimensione prettamente narrativa. Insomma, non mi ha migliorato a livello tecnico, ma scrivere una biografia vuol dire mettere ben in ordine i propri pensieri, il proprio flusso interiore, tutto ciò si è poi riversato sulla mia sfera comunicativa: mi ha aiutato a capire cosa volevo dire.
“Basso Basso” è una delle canzoni più forti dell’album: paradossalmente, se fossi stato alto 1,90 non avresti avuto la stessa determinazione? Sindrome di Napoleone?
La gente alta è sempre stata abituata ad avere tutto, io, da basso, ho veramente dovuto dimostrare di essere il migliore a rappare per impormi. Facci caso, i più importanti personaggi storici sono bassi. Ora, sia chiaro, non fraintendete le parole che sto per dire, ha sterminato la mia famiglia, era un giocatore della squadra rivale, ma Hitler era basso, così come Mussolini, dall’altra parte lo erano anche Gandhi e Maradona. Nel bene e nel male, le grandi personalità sono sempre state nane.
Pur cimentandovi in generi diversi, tu e Niccolò Contessa de I Cani avete un’estrazione sociale molto simile, provenite dalle stesse zone di Roma, avete entrambi trattato gli stessi argomenti: gli psicofarmaci, la depressione, la vacuità dei rapporti umani... Il tuo album si intitola “Il Bambino Soldato”, e qualche anno fa Contessa ha scritto una canzone chiamata “Baby Soldato” sfruttando la tua stessa ispirazione, “Beasts of No Nation” di Cary Fukunaga. È una citazione nella citazione?
Cazzo man ma che ficata, contattiamolo subito. Organizziamo un featuring, dobbiamo fare un pezzo insieme. Conosco bene I Cani, so che spaccano, non so per quale motivo non ho mai ascoltato questa canzone. Proponiamo un gemellaggio, io e Niccolò siamo l’orgoglio del quartiere Prati, noi e le escort.
Hai optato per la pubblicazione di un album senza featuring, una scelta inconsueta considerando l’attitudine d’oggi.
Non ce n’era bisogno. Almeno per quest’album. E non sto dicendo che non mi sentirete mai collaborare con nessuno. Ho anche preso parte a qualche canzone sui lavori di altri rapper. Ma io vengo da un’esperienza condivisa, da “Redenzione” in poi ho potuto finalmente cominciare a costruirmi il mio percorso. “Redenzione” mi ha fatto conoscere, “Il Bambino Soldato” deve lanciarmi a tutti gli effetti. Dovevo esprimere me stesso, non mi serviva la partecipazione di nessuno. Con le mie nuove canzoni voglio che la gente mi capisca, che si sforzi per comprendere determinati miei atteggiamenti, ma vorrei anche lanciare un segnale chiaro a tutta la scena. Tutti i rapper sanno chi sono io, tutti i rapper sanno che sono bravo, hanno tutti ascoltato “Ulisse”, sanno tutti di cosa sono capace. Allora perché non ho mai collaborato con nessuno? È un discorso un po’ alla Benny Blanco e Carlito Brigante, generazionale, è normale che ora ci sia un ventitreenne che spacca più di un vecchio, che spinga di più, probabilmente, tra qualche anno nascerà qualcuno più bravo di me. Ma per ora non è ancora nato. Io voglio collaborare con un big e dargli uno sveglione. Ho rispetto per chiunque sia più bravo di me, ho studiato tutti, Guè Pequeno, Marra, Fabri Fibra, Mondo Marcio... Mi toglierei una grande soddisfazione. Perché sono loro che mi hanno dato ispirazione e mi spingono a migliorarmi costantemente. Io rapperei con Eminem, con Kendrik, saprei già che strofa fare. Vorrei aprirli, non ho pietà, voglio uccidere qualcuno.
Spiegaci come sei riuscito a fondere un classico della musica italiana, “La locomotiva” di Guccini, e una serie televisiva di recente successo come “La casa di carta” in un’unica canzone?
Io sono un rivoluzionario, una testa di cazzo, l’espressione di una generazione individualista. Di tutti i discorsi sulla locomotiva, su Bella Ciao e tutte queste cose da compagni non me ne frega nulla. Io tifo per il kamikaze, per quello che si va a schiantare. “Posto di blocco” è l’espressione di una rabbia antica, folle, autodistruttiva. È un pezzo estremo, in un certo senso, uno dei più legati a “Ulisse”. Ma ci tengo a precisare che il mondo dell’arte è un altro mondo, un mondo magico, un mondo più bello di quello reale e, se sei intelligente, puoi permetterti di raccontarci di tutto. Io faccio questo lavoro per potermi permettere di scrivere canzoni come questa, “Pillole” è autobiografica, profonda, pesante. La gente è sempre pronta a scandalizzarsi, mai pronta ad approfondire un discorso. “Posto di blocco” non è una canzone personale, è un pezzo dissacrante che dovrebbe dar fastidio alle persone per farle ragionare. È il regno dei soggetti con fantasia, degli artisti.
Nel disco precedente Ulisse, oggi Rimbaud, quanto contano l’immedesimazione e le metafore nelle tue composizioni?
È un pezzo che sento molto mio perché tocca un immaginario che mi è vicino. Eppure per la prima volta non ci sono arrivato attraverso le rime. “Rimbaud” è un pezzo con delle sonorità cloud trap che non avevo mai approfondito, probabilmente perché non avevo mai invertito le tappe del mio processo creativo. Per la prima volta non sono partito dalle strofe, ma da una suggestione musicale -una cantilena simile alla canzoncina di un bambino pazzo- e vi ho costruito la canzone. Non sono mai stato ispirato da una suggestione musicale, forse proprio per questo ne è uscito un pezzo ancora più simbolico, più arioso. Ovviamente, un pensiero di fondo costituisce la base di tutte le mie canzoni, dietro Rimbaud si cela una metafora che riguarda la percezione. Io non mi definisco un artista -io sto bene se vendo tanti dischi- ma, in ogni caso, in quanto cantante ho una visione totalmente differente della realtà. Posso insultarti, dirti delle cose orribili ma, se dette bene, con il giusto ritmo e il giusto incastro, io ci troverò comunque del bello. Trovo poesia nello scabroso, nel raccapricciante, se ben posto e ben scritto. Come un quadro osceno ma disegnato alla perfezione, realisticamente, potrebbe anche farti schifo, ciò non toglie che sia un bel quadro. Bisogna saper cogliere la bellezza in tutti i frangenti.
Hai sempre riposto tanto lavoro nei video realizzando per molte tue canzoni dei veri e propri corti cinematografici, puoi anticiparci qualcosa sulle prossime uscite?
Ti posso solamente dire che il prossimo video sarà “Basso basso”. E ti conviene avere paura perché sarà basato su una mia idea.
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L'articolo Il rap visto dal basso: Lowlow racconta il nuovo album "Il Bambino Soldato" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2018-06-14 11:57:00
COMMENTI (1)
Qualcuno dica all'intervistatore che “Baby Soldato” non c'entra niente con “Beasts of No Nation”.
Per lowlow: Contessa è di Quartiere Trieste, non di Prati.