Ci racconta cosa vuol dire mollare una carriera ben avviata come architetto per andare a portare i caffè negli studi dove registra Bob Dylan. Ci racconta che la musica italiana era tra le più esportate al mondo e poi i cantautori hanno rovinato tutto. Ci racconta il blues, i fiumi da oltrepassare e la terra promessa da raggiungere. Luca Sapio si racconta: una lunga intervista che termina con un "possiamo farcela" e una bella dose di speranza per il futuro.
Partiamo dalla tua storia che è interessante: Luca Sapio, classe 1975.
Sono nato a Sora, un piccolo paese nella provincia di Frosinone, ma non ci ho quasi mai vissuto, mi sono subito spostato a Roma. In realtà ho avuto una vita un po' complicata: tutta l'adolescenza l'ho passata in Francia, verso i 13 anni mi hanno diagnosticato un'insufficienza del midollo spinale e ho passato parecchi anni ad entrare ed uscire dagli ospedali, principalmente a Lione. Finito questo periodo ho abitato per gran parte del tempo a Roma, che è la mia città, fino a quando non ho deciso di trasferirmi in California.
Scegli di andare in America anche se, in realtà, qui una prospettiva ce l'avevi: inizi a suonare con gli Area e con molti altri progetti, non eri un dilettante.
Avevo fatto tante cose, è vero, ma sentivo il bisogno di cercare qualcos'altro, di affinare lo stile, ho inseguito quello che era il mio sogno americano. E non è stato facile, sono arrivato in questo quartiere di Los Angeles, Kunjia town, un posto abbastanza squallido in una zona dove non si parla americano perché sono tutti cinesi o reduci del Vietnam. Ci ho messo un po' di tempo ad entrare nella mentalità della città: inizialmente cercavo di spacciarmi per americano ma poi ho capito che quest'italian touch era charming ed era meglio farlo notare. Parallelamente ho continuato a cercare il sound che mi interessava, quello più southern soul.
Che lavoro facevi in California?
Di tutto: dal grafico fino a portare il caffè negli studi per imparare a capire come si conduce una session di registrazione.
Lo sapevi già come si registrava un disco, no?
Beh, non a quei livelli. Ad esempio, sono stato nello studio di David Bianco, che è un grammy winner: in quei casi vedi realmente come si registra una session di Bob Dylan, oppure cosa succede se d'improvviso arriva Mavis Staples, vuole cantare e tu devi spiegare ai musicisti il modo giusto per accompagnarla.
E come si registra un disco di Bob Dylan?
È un ambiente dove le idee sono molto chiare. Una delle cose che ho imparato è che non si fanno mai le jam in studio. Lo studio costa e non si devono disperdere le energie, si deve arrivare con la canzone finita, chiara e strutturata. E soprattutto bisogna instaurare un feeling con i musicisti e lo si crea, fondamentalmente, suonando live. Questa sbornia che c'è stata con l'avvento del digitale e la possibilità di arrivare ad avere 150 tracce in post produzione ha portato una “distorsione uditiva nell'ascoltatore”. L'ascoltatore quando sente un disco troppo prodotto chiude gli occhi e non riesce a immaginarsi nulla perché non ha mai avuto l'esperienza di 150 strumenti che suonano insieme. Perché i dischi degli anni '60 e '70 sono così evocativi? Perché sono veri, perché quando li ascolti e chiudi gli occhi ti immagini perfettamente gli strumenti nella stanza. E sono registrati nel modo più accurato ma con il mezzo più essenziale: hai 8 tracce e un solo microfono che puoi avvicinare o allontanare fino a quando lo strumento non suona al suo meglio e nella maniera più fedele. È una filosofia che va assolutamente recuperata, mai come in questo momento storico si ha bisogno di cose vere, di realtà.
Nasci in una famiglia ricca?
Nasco in una famiglia di architetti, mio papà architetto e mia mamma insegnante. Hanno osteggiato fino alla morte la mia carriera musicale. Quando, poi, hanno imparato ad accettare questa mia ostinazione ci siamo riconciliati.
E non bastavano gli Area e i riconoscimenti vari per convincerli?
Non bastava. Ma li capivo pure, buttare via una carriera da architetto sarebbe stata una follia. Avevo lo studio di famiglia, ero iscritto all'albo degli architetti, cominciavo anche fare i miei lavori. Mi sono mantenuto per molti anni con un tenore di vita interessante ma in qualche modo era una cosa che non mi rendeva felice. Continuava a pesarmi il rimpianto di non averci provato fino in fondo e ho deciso di darci un taglio. Sono andato in California e ho provato a intraprendere questa carriera alla ricerca di qualcosa di vero, di essenziale.
Questa cosa dell'essenzialità la dici spesso, di per sé è una parola astratta. Prendi i Beat Happening ad esempio: sono il gruppo che meglio rappresenta per me l'idea di una musica semplice, al limite dell'infantile, ma alla fine nessuno è mai riuscito ad imitarli. Se fosse così semplice ci riuscirebbero tutti.
È vero, è una cosa molto corretta. C'è una thin line, un rapporto sottile tra forma e contenuto. Per me l'essenziale significa preservare il contenuto nella versione più fedele a quella originale. La musica che suono io ha dei codici: come c'è il one drop nel reggae, anche nel soul ci sono dei codici che vanno rispettati. Io non scrivo pensando soltanto alla melodia e agli accordi, nella mia testa mi immagino già tutto. Ad esempio, mi immagino la batteria: come sarà, che tipo di suono, il groove...
E se hai una visione così chiara del pezzo perché mai affidarsi ad un produttore?
Nessuna grande opera arriva esclusivamente da un solo ingegno, c'è sempre un collettivo dietro. Essere l'unico ad avere le redini della situazione può diventare estremamente controproducente, allora devi delegare a qualcuno un ruolo super partes. Questo ruolo può decidere le sorti di un album e può determinare il tuo umore finale, e ricordati che un artista ci mette sempre la faccia quando fa un disco nuovo.
E Thomas Brenneck - ricordiamolo: produttore di Amy Winehouse, Cee Lo Green, etc. etc. - come si è inserito nel gruppo?
Brenneck ha un grande rispetto per l'italianità, è un grande fan di sonorità che vengono dalle libraries e dalle soundtracks italiane degli anni '60 e '70. In più è un grande conoscitore del southern soul, del blues e del rhythm blues. Io so che può confezionare la mia musica mantenendo l'idea originale e aggiungendo altri ingredienti, sempre con un'attitudine minimale, sempre giocando su piccoli equilibri e trovando cosa mi soddisfa davvero. L'idea è sempre quella di fare un disco che poi tu stesso vorresti comprare.
Raccontami meglio la tua idea di italian touch?
Siamo stati per moltissimi anni un'eccellenza incredibile, ci sono stati delle intuizioni che hanno fatto conoscere l'Italia nel mondo. Non vorrei essere ovvio, ma prendi il fischio di Alessandroni: se ci pensi un fischio è quanto di più lontano può esserci da una cosa country o western, ma il suo fischio è diventato il western per tutto il mondo. Morricone ha creato delle suggestioni sonore pazzesche, e insieme a lui tantissimi altri: Umiliani, Piccioni, Fidenco, gente che prendeva il suono delle orchestre americane o il suono di Isaac Hayes o quello della Stax o della Motown e lo reinterpretava con questo know how armonico pazzesco creando cose incredibili. Sono qualità che tutti ci riconoscono, veniamo campionati nei dischi rap, gli stessi Black Keys hanno messo un campione di Nico Fidenco in un loro pezzo. L'italian touch è un incontro fantastico tra armonie di grande respiro, il groove e la psichedelia. Quello che cerco di fare io è abitare in quella zona del crepuscolo dove si incontra questo mondo italiano con il mondo del southern soul e blues.
E in questo mondo come si scrive un canzone d'amore?
“Telling Like It Is” è una canzone d'amore, ad esempio. E parla di una cosa molto bella: racconta della consapevolezza che, pur passando la vita in giro a suonare, poi tornerai a casa ci sarà qualcuno che ti dice “ma perché ci hai messo tanto, dov'eri fino ad adesso?”. Una canzone d'amore la si scrive non avendo paura di essere semplici. Io sono convinto di questo: l'italiano è una lingua molto complessa, ma puoi sfruttarla per nascondere una tua possibile mancanza di contenuti. Spesso ci si nasconde dietro l'orpello, la parola ad effetto, a discapito di cosa vuoi dire davvero. Io spesso stento a capire cosa vuole dire una canzone italiana.
Se prendo molte delle canzoni che passano su Radio Italia non capisco - a prescindere dal solito amore finito male - cosa mi stiano raccontando davvero.
Si, quelle le puoi considerare parole in libertà ma quanto meno sono parole semplici, poi magari messe insieme non ti raccontano nulla. Ma accade anche, in modo diverso, tra gli artisti indipendenti: l'80% delle canzoni indie si nascondono dietro licenze poetiche discutibili, le trovo davvero difficili da capire. Si portano dietro lo strascico dei cantautori di fine anni '70 e primi anni 80, e io ce l'ho a morte con i cantautori.
Perché ce l'hai a morte con i cantautori?
Noi abbiamo sempre esportato la nostra musica, penso al beat italiano, al progressive, al rock. Ci sono dischi italiani che sono oggetti da collezione in tutto il mondo, oggi un vinile originale di Le stelle di Mario Schifano costa 1200 euro. Facevamo musica al passo con i tempi, sono arrivati i cantautori ed è finita. Hanno incominciato a pescare i musicisti all'interno delle varie band trasformandoli in sessionmen. Hanno sgretolato una scena mettendola al servizio di una musica autoreferenziale, che non è andata più da nessuna parte. Come possiamo risollevare un mercato musicale se non esportiamo musica? Il brutto è che non ci interessa più esportarla. Oggi non ci interessa più essere compresi, raggiungere la gente, il genere non lo richiede più. E questo secondo me è molto, molto grave.
Parlando di coinvolgere e persone, anni fa ho visto Mayer Hawtorne dal vivo: si è seduto al piano, ha detto “this is not a gig, it's a show!” ed è partito a suonare. Condividi l'attitudine?
Bello. Certo che la condivido, bisogna scendere dal piedistallo dell'artista; noi fondamentalmente facciamo musica per divertire le persone, per conoscerle, per avvicinarle. Il pubblico non ha soldi, se decide di usarli per venirti a sentire ti dà un'opportunità importante. Oggi i più grandi show sono quelli di Bruce Springsteen che, a detta dei suoi fan, è quello che si spende di più per lo spettacolo. È quello che ogni sera cambia la scaletta, che regala sempre quel pezzo poco conosciuto, che prende una ragazza per mano, la fa salire sul palco e ballano davanti ad uno stadio pieno. Ed è uno show molto essenziale, non ci sono megaschermi o ballerine, c'è lui che suona con la sua band, suda ed il pubblico è contento. Io aspiro a spettacoli come questo.
Parliamo di soldi, da dove arrivano principalmente le tue entrate?
Dall'Italia arriva molto poco, arriva molto di più dall'estero. Dalla Germania ad esempio, lì sono entrato in classifica, ho fatto delle cose molto importanti come lo show televisivo del sabato sera. Le radio tedesche mi passano, così come in America, anche se la Siae non è molto efficiente nel dialogare con le altre strutture e la maggior parte delle royalties non arrivano mai. L'entrata più importante è il live all'estero, è una fonte interessante. E le vendite all'estero, soprattuto i vinili. Io sono, ovviamente, un fan del vinile, non ho cd in casa, se non per qualche errore giovanile. Sai, da ragazzino ho ascoltato anche altro...
La Deejay Parade di Albertino il sabato pomeriggio?
Ecco, la Deejay Parade no. Come tutti ho ascoltato tanto rock, i Clash, cose di questo tipo. Ma ho sempre comprato solo i vinili, tieni presente che ho un'età... (ride, NdA)
L'anno scorso in America la vendita dei vinili è cresciuta del 32%, secondo te perché?
È un collectible, è un oggetto da collezionare, il cd non lo è mai stato. Il cd è un oggetto brutto che le persone non vogliono in casa, soprattutto adesso con l'mp3, che non occupa spazio ma arriva ad una qualità molto alta, per per non parlare dei Flac o Wav. La gente ha bisogno di un oggetto bello da vedere, da tenere in mano, che suoni bene, che contenga tante informazioni. Credo che nell'arco di pochi anni il cd scomparirà definitivamente.
Come ultima domanda volevo riportarti una cosa scritta da Greil Marcus su Robert Johnson che in qualche modo riguarda anche te. Secondo Marcus l'America è sempre stata una grande promessa e Johnson è stato il primo a disattenderla, è stato il primo a cantare la frustrazione del non farcela e così è diventato l'incarnazione della paura, del Diavolo, ecc ecc.
Su Johnson vorrei raccontarti questo: nella cultura afroamericana c'era questa immagine molto importante legata al Mississipi, ovvero il fiume che se attraversato ti avrebbe condotto alla terra promessa. Immaginati negli anni della grande depressione questi neri che decidevano di compiere quest'impresa enorme per raggiungere la grande promessa americana. In realtà dall'altra parte trovavano cose peggiori: c'era l'America, quella veramente razzista, dove le chiese non avevamo quel calore del sud e la funzione non era vista come una festa. Hanno dovuto inventarsi loro degli standard gospel per cercare in qualche modo e ricreare quella terra promessa che in realtà non era mai esistita. Lo stesso Muddy Waters quando arrivò a Chicago, con la sua chitarra acustica e pieno di speranze, si prese solo degli schiaffi. Robert Jonhson è stato sicuramente la punta dell'iceberg, è forse la migliore rappresentazione di quelli che non ce l'hanno fatta, sono i looser, quelli che hanno sperato fino alla fine che la loro costanza venisse premiata. Ovviamente stiamo parlando del riconoscimento avuto allora, perchè oggi Robert Jonhson oggi è una vera leggenda. Io credo che alla fine tutti quanti ce la fanno, è il caso del mio amico Charles Bradley, che ha 64 anni e ha pubblicato il suo esordio due anni fa dopo una vita da barbone nella metropolitana di New York. Se tu credi nella tua cosa, se sei coerente, sei costante, prima a poi il tuo messaggio arriverà.
Domanda obbligata, cos'è per te il blues?
Ognuno ha il suo blues. Se tu non hai mai provato la diversità, questa sorta di emarginazione, il sentirsi scollato da un contesto, difficilmente puoi avere quella sensibilità e quella rabbia per poter arrivare alle persone. Io ti posso parlare della malattia che mi ha rubato l'adolescenza ma ognuno ha il suo blues personale, l'importante è viverlo. Muddy Waters diceva: in Inghilterra ci sono questi ragazzi che suonano blues e sono molto bravi, sono bravissimi, ma non possono cantare come cantiamo noi perché, fondamentalmente, sono dei ragazzini che arrivano dalla borghesia inglese e non hanno mai raccolto il cotone. Non hanno il blues e per essere credibili devi raccontare delle cose reali.
C'è tantissima solitudine in questo tuo nuovo album, se mai si scoprisse che sei fidanzato la tua credibilità crollerebbe.
Fidanzatissimo (ride, NdA). L'amore può essere anche una metafora, alla fine la solitudine è quella che proviamo tutti i giorni nel non vedersi riconosciuti un valore. È il non vedere premiato il nostro lavoro, nonostante l'impegno e la dedizione. È una condizione in cui tutti quanti ci troviamo, a prescindere dalle stampelle che la vita ci offre, le fidanzate, i fidanzati, i compagni di viaggio. Senza far retorica, questo è un periodo buio, dove c'è un continuo incitarci ad abbandonare la nave, ci consideriamo un paese perdente, per primi cantiamo il necrologio della nostra cultura, tutto quello che prima invece era considerata un'eccellenza. Questa è la condizione che sta alla base di questo disco e tuttavia c'è un messaggio positivo: ogni giorno può essere il giorno giusto per farcela. Perchè “Everyday is gonna be the day, to make it through this rain”. Ce la faremo, dopo tutto questo grande errare nel niente, prima o poi qualcosa arriverà. Questo è il messaggio, prima o poi verremo tutti premiati.
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L'articolo Luca Sapio - Yes We Can. Perché agli americani piace la nostra musica di Redazione è apparso su Rockit.it il 2014-11-24 13:23:00
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