Oggi esce “Folfiri o Folfox”, il nuovo album degli Afterhours. È un disco che affronta temi importanti e pesanti come il cancro, la morte e la libertà, partendo da vicende personali che hanno cambiato in maniera radicale il punto di vista di chi le ha vissute. Dopo la perdita del padre, Manuel Agnelli racconta nelle sue canzoni tutti i cambiamenti che ha dovuto affrontare e quali sono le priorità che oggi contano davvero per lui. A confronto le varie polemiche scatenate dalla notizia della sua partecipazione in qualità di giudice a X-Factor sono davvero poca cosa. La nostra intervista.
La notizia che parteciperai alla nuova stagione di X Factor ha generato due tipi di risposte: mentre c’era chi gridava allo scandalo nell’immaginarsi uno dei maggiori esponenti del rock alternativo italiano in un talent, sulla pagina Facebook del programma in molti si domandavano chi fosse Manuel Agnelli. Quale delle due ti interessa di più?
Manuel Agnelli: Il fatto che in molti non sappiano nemmeno chi sia vi può far riflettere sul tipo di rischio che si sono presi gli autori del programma. Hanno deciso di puntare su una credibilità musicale che gli altri talent non hanno: aver scelto Morgan o Elio, o Mika - anche lui ai tempi quasi sconosciuto - li ha aiutati negli anni a fare discorsi che andassero oltre il semplice “Sei bravo/non sei bravo” e raccontare un percorso musicale diverso. Ovviamente c’è il rischio di non essere capiti: molto probabilmente io e il pubblico di X Factor non parliamo lo stesso linguaggio, ma è anche vero che nessuno mi ha mai chiesto di essere diverso da quello che sono, ed è uno dei principali motivi per cui ho accettato di partecipare. A prescindere che vada bene o male, non sarà un’esperienza così difficile come credono tutti.
Perché ci vai?
M: Mi interessa raccontare la mia visione della musica. Prima di tutto ci dev’essere un’urgenza nel voler suonare mentre in molti credono ancora che l’unico motivo per farlo sia avere successo. Non che il successo sia per forza negativo, ma se vuoi fare il musicista solo per avere successo sei fottuto in partenza. Io credo alla parte più “educativa” di questa cosa. Il lato didattico mi ha sempre appassionato molto: ho già tenuto diversi corsi di marketing e alcuni workshop con i ragazzi delle scuole superiori, ora posso farlo davanti a migliaia e migliaia di persone. E poi ci vado perché mi pagano e perché con quel tipo di visibilità ho un potere della madonna. Potrò dire delle cose a mio avviso importanti e promuovere un certo tipo di musica.
Sei consapevole che la popolarità offerta da un talent è spesso brevissima e che la maggior parte dei cantanti vengono dimenticati nel giro di pochi mesi.
M: Vi assicuro che la mia non è una velleità. È vero, l’attenzione che ricevi dopo un talent è più piccola di quella che può sembrare ma se anche solo 100 persone decidono di mettere su una band perché hanno ascoltato le cose che dico, il mio compito l’ho fatto. Non vado certo in tv per fare la rivoluzione.
Diventerai buonista come tutti i giudici del programma o riuscirai ad essere severo?
M: Il più è da domandarsi se riuscirò a non essere stronzo (ride). Parto dall’idea che il rispetto sia dovuto a tutti, se poi qualcuno vorrà fare il furbo saprò come comportarmi. Sicuramente non porterò avanti nessuno che non mi sembri all’altezza.
Chi sarà il tuo braccio destro?
M: Rodrigo
Passando ad argomenti ben più seri: “Folfiri Folfox” affronta un tema delicato come quello del cancro, immagino ci siano delle esperienze personali alla base di queste canzoni?
M: Mio padre è morto circa due anni fa, e altri nel gruppo hanno dovuto affrontare dei lutti piuttosto pesanti. Questo tipo di esperienze ci ha fatto diventare più radicali su alcuni argomenti. Quando ti scontri con il fatto che la vita finisce, l’unico desiderio è di essere te stesso: non vuoi più compromessi non te ne frega più niente di certe cose cui prima davi peso.
Il cancro oggi è un tabù?
M: Sì, me ne sto accorgendo ora durante questo giro promozionale, ci sono radio o televisioni che rimangono scioccati quando ne vogliamo parlare.
La title track ha un tono quasi da operetta, come se volessi scherzare su un tema così pesante.
M: È un modo per non essere pietistico, quando parli di cose così intime rischi di cadere nell’autocompiacimento. Prendo in giro il medico di mio padre che mi diceva cose tipo “ho imparato ad essere fatalista”. Mi padre è morto per una sepsi, un’infezione del sangue. Ci sono delle ragioni precise per cui una cosa del genere accade mentre lui lo spiegava con il fatalismo. I medici sono tecnici, non possono essere fatalisti. Se gli serve per sopravvivere, forse non sono adatti a fare il mestiere che si sono scelti.
Facciamo un passo indietro, ha ancora senso fare uscire un doppio album nel 2016?
M: I pezzi parlano di morte e di malattia ma volevo che il disco comunicasse anche un senso di rinascita. Se avessimo pubblicato meno pezzi non saremmo riusciti a farlo capire. È certamente un album duro -“Folfiri o Folfox” sono due cicli chemioterapici - ma non volevamo fare un album sinistro o oscuro. In più c’è il fatto che fare un disco doppio oggi era talmente fuori dal tempo che solo dei dinosauri come noi potevano ancora farlo, quindi l’abbiamo fatto (ride).
L’album si apre con “Grande” ed è veramente una bellissima traccia. Com’è nata?
M: La musica è nata da un’improvvisazione in studio, quando poi mi sono messo a cercare delle melodie ho provato a sperimentare qualcosa di diverso e ho spinto la mia voce molto più del solito. L’ho cantata in modo molto istintivo senza troppe raffinatezze. Il testo, invece, l’ho scritto dopo una chiacchierata con mia sorella Silvia: un giorno, parlando di mio padre, mi ha raccontato che da piccola lei credeva che non saremmo mai morti. Da qui mi sono immaginato di un possibile patto con mio padre dove lui mi giurava che non sarebbe mai morto e il fatto che non rispettasse l’accordo mi permettesse di crescere e di diventare grande, che è un parola molto ricorrente nella canzone.
Dopo quello che hai passato, immagino sia molto pesante a livello emotivo dover cantare dal vivo una canzone come “Oggi”, nella quale il protagonista cerca di rassicurare una persona che, in realtà, sta per morire.
M: In realtà non così pesante, fa parte del percorso che intraprendi quando capisci che una persona che ami se ne potrebbe andare. Non è nemmeno una questione di coraggio: io ci credevo seriamente che sarebbe andata bene con mio padre, non gli ho mai raccontato cose che pensavo irrealizzabili. La sua morte è stato uno shock enorme e il più grande fallimento della mia vita è stato di non essere riuscito ad aiutarlo fino in fondo.
Come puoi considerarlo un tuo fallimento? Non sei mica un medico.
M: Lo stavo seguendo e consigliando, su alcune cose l'ho convinto, altre no. È chiaro che non sento una mia responsabilità diretta di quanto è accaduto ma resta il dubbio che se l’avessi spinto in maniera più decisa verso certe decisioni, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Tra le tante cose che ti avrà sicuramente insegnato come padre, qual è quella a cui sei più affezionato?
M: È quella presente praticamente in tutti i testi del disco: il voler essere liberi. Mio padre è morto libero, che non significa solo aver raggiunto dei risultati ma aver fatto esattamente quello che voleva fare nella vita e aver acquisito, così, una libertà interiore importante. Io mi sono trovato a dover gestire dei pesi molto diversi dal passato, quello che importava oggi non importa più e quello che invece potevo aver dimenticato è tornato ad essere importante. C'è la vita, c'è la morte, il resto è contorno e nient'altro.
Nel disco c’è un'evoluzione dell'utilizzo della parola libertà: all’inizio ha un'accezione negativa, la si associa a vari tipi di dipendenza, ma poi assume un valore catartico.
M: Il concetto di libertà è certo una cosa piuttosto personale e soggettiva, ma quella che vedo in giro non mi piace. Sia chiaro, il mio non è un giudizio morale, anche perché quello fatto di anfetamine nel festino in “Il mio popolo si fa” sono io…
Alla tua età?
M: Tengo ancora benissimo (ride)… Scherzi a parte, “Il mio popolo si fa”, il primo singolo estratto dal disco, usa parole piuttosto pesanti per descrivere un tipo di libertà che è del tutto illusoria. È una libertà che deriva dalla new economy di qualcun altro, è un modello che ci hanno imposto, noi stiamo abbracciando tutta una serie di cose - pensa a Google - credendo che sia la democrazia orizzontale. La verità è che quando stringeranno il cordino – e lo stringeranno – questa cosa qua per noi sarà diventata indispensabile. Questa euforia per questa presunta libertà per me è semplice controllo di massa.
Ne parlavamo già quattro anni fa e speravo che nel frattempo ti fossi ravveduto, non sei un po’ esagerato?
M: Ma io non parlo del web come mezzo – che è bellissimo – parlo della libertà, della rivoluzione...
Di solito, a questo punto della conversazione, spuntano fuori Twitter e la primavera araba.
M: È certamente un esempio interessante ma ti posso dire che abbiamo avuto l'illuminismo anche se non c’era Facebook o che tutto il blocco sovietico è caduto senza bisogno di internet. La cosa che mi fa paura è che alcune cose siano diventate indispensabili. Tempo fa ho deciso di non accedere ai social per un paio di mesi e ti assicuro che si vive benissimo. Il progresso morale negli ultimi anni è una merda rispetto a quello tecnologico, siamo degli uomini preistorici che usano delle cose pazzesche. E non sono l’unico a dirlo, c’è un nutrito gruppo di intellettuali ben più importanti di me – tra cui anche David Foster Wallace o Jonathan Franzen – che la pensano così.
Perché scegliere "Il mio popolo si fa" come primo singolo nonostante l’arrangiamento sia così sperimentale?
M: A noi quel pezzo piace ma, di certo, non è la grande canzone. Sarebbe stato più facile partire subito con “Non voglio ritrovare il tuo nome” ma non avrebbe rappresentato a dovere tutte le sonorità presenti nel disco.
Quando nella canzone parli del “culto della sfiga” cosa intendi?
M: Quando sei davanti alla morte ti fai molte domande, una di questi è sul credere o meno alla superstizione. C’è una parte nobile e affascinante della superstizione legata a quella voglia di magia che vuole superare tutti i limiti della scienza. E poi c'è la parte più nera, volgare, la cosiddetta sfiga: il toccarsi le palle, pensare che determinate cose possano portare sfortuna, ecc. Sono atteggiamenti che, nel nostro paese, possono diventare anche molto violenti. Così come la paura che qualcuno ti freghi.
“Sappi che se mi impegno, non mi incula nessuno”, come canti nella canzone.
M: Esatto, in Italia sembra che la peggior cosa che ti possa capitare è prendere una fregatura. C’è gente che si è addirittura suicidata per questo. Nel cosiddetto paese dei furbetti se qualcuno ti incula la colpa non è di chi ti ha imbrogliato ma è tua che non sei stato abbastanza scaltro. Ed è una cosa terrificante: per colpa dello spettro che prima o poi qualcuno li inculerà, gli italiani sono diventati diffidenti, non si associano, fanno fatica a prendere posizioni e hanno perso la loro efficacia sociale. David Foster Wallace si augurava il ritorno di una nuova generazione di intellettuali che avessero il coraggio di essere presi per il culo, di passare per illusi romantici e che rifiutassero totalmente l'ironia e il cinismo della rete.
Anche tu sei cinico nelle tue canzoni.
M: Io penso di essere un grande romantico.
Io pensavo tu fossi lo stronzo contento di essere stronzo, senza offesa s’intende.
M: (ride) Forse perché ho rifiutato le cose più cheesy dell'essere romantici. I romantici erano pericolosi, facevano le rivoluzioni, tagliavano le teste, menavano, questo è essere romantico. Chopin era una grandissimo fan di Napoleone, per dire. Essere cinico, invece, significa stare seduto sul divano e dire “questo fa cagare, questo non mi interessa, non succederà mai un cazzo”.
Che non è tanto lontano da cosa hai detto in alcune interviste sulla musica italiana di oggi.
M: Io di cose ne ho fatte – non c’è bisogno che te le elenchi – non me ne sono rimasto seduto a criticare. Quando dico che la musica alternativa non esiste più non sono cinico, sono sincero. Negli anni ’90 gli squat ed i centri sociali avevano un ruolo sul territorio: ci suonavano dal gruppo di merda che non trovava date altrove fino agli Einstürzende Neubauten. C’erano le comuni, i teatri occupati, tutti esperimenti sicuramente criticabili ma che trasmettevano un sogno di alternativa sociale. Tra i gruppi di oggi vedo molto talento e suonano tutti meglio di come suonavamo noi venti anni fa, ma vivono tutti a casa con i genitori. Non fanno una musica che propone un’alternativa sociale e che ha un vero impatto sul territorio. Se già ai miei tempi la società era borghese, oggi si è imborghesita ancora di più, e la musica italiana ne è l’emanazione perfetta. Ancora più borghese, ancora più innocua. L’alternative italiano è diventato un mondo pieno di regole e di codici, è puro fascismo. Non c'è più nessuno che vuole rischiare, non esistono più i veri freak, quelli che magari fanno un sacco di cagate ma quando ne azzeccano una allora creano capolavori. Edda può essere un ottimo esempio in tal senso, o anche Cesare Basile.
Non direi che le canzoni Noyz Narcos non abbiano un valore culturale forte in determinate borgate romane, o quelle di Rocco Hunt o dei CoSang nella periferia di Napoli. Per non parlare dei numeri che stanno facendo i Cani o Calcutta pur avendo canzoni tutt’altro che facili.
M: Non sto dicendo che non ci siano eccezioni – prendi i Ministri ad esempio, uno dei pochi gruppi nuovi con le palle – o che non ci sia gente capace di parlare in modo nuovo al pubblico. Io parlo di alternative sociali, ovvero creare modi diversi di vivere all’interno della società. Ci possono essere dei gruppi che propongono alternative a livello etico, è un’attitudine e posso anche essere d’accordo. Ma è un’attitudine, non una scelta di vita.
In “Fra i non viventi vivremo noi” canti “sopra il post punk: fascismo e libertà”. È un riferimento ai Disciplinatha?
M: No, ma è un’ottima citazione. Per me il post punk è stato l'emanazione scema delle avanguardie del ‘900 e, se sei un ragazzino, è normale rimanerne affascinato. Io ai tempi ho abbracciato quel movimento per un'ideale di libertà e, alla fine, mi sono ritrovato in una gabbia fascista. L’idea iniziale per quel pezzo era immaginarmi un film dedicato alla libertà girato da un gruppo di fascisti. Poi ho concentrato tutto in quelle tre parole e mi rendo conto che il messaggio sia diventato più criptico.
Quella canzone, come molte altre del disco d’altronde, ha un approccio decisamente sperimentale. È un’impostazione che vi siete dati fin dall’inizio?
Rodrigo D'Erasmo: Non è stata decisa a tavolino, anzi, fin da subito l’obiettivo era evitare ogni tipo di gabbia. La scrittura del disco è partita da me e Manuel con un apporto fondamentale - almeno in questa prima fase - di Fabio Rondanini, il nuovo batterista. Dopo abbiamo condiviso le varie parti con tutti gli altri e ognuno poteva lavorare a distanza, direttamente nella propria città. Questo tipo di approccio ha dato a ognuno di noi una grandissima libertà espressiva: ha evitato che ci censurassimo a vicenda, come capita spesso quando si suona tutti nella stessa stanza.
Quanto ci avete messo a scrivere l’intero album?
R: Circa un paio d’anni.
M: abbiamo sperimentato una cosa che fa Nick Cave, ovvero darsi degli orari regolari per scrivere, come se se dovessimo timbrare il cartellino in ufficio. E funziona: ti toglie l’angoscia e il peso di dover creare in un periodo di tempo ristretto perché sai che ogni giorno potrai produrre qualcosa. Poi la maggior parte di questi esperimenti facevano schifo, non c’è problema ad ammetterlo, ma basta che esca un’idea buona a settimana e, alla fine dell’anno, ne hai 50. Non sono poche.
Lou Reed diceva di scrivere più di dieci canzoni al giorno.
M: Magari quando era giovane (ridono). Scherzi a parte, è proprio così: quando sei giovane vedi stimoli ovunque, ti sorprende qualsiasi cosa, più vai avanti con l’età e più difficile non ripeterli. Per questo facciamo un album ogni 4 anni: devi vivere per aver qualcosa da dire. Anzi, devi vivere e basta.
In questo disco ci avete messo Dio, perché non metterci anche i preti?
M: Perché non sono la stessa cosa, ovviamente. Anche se sono ateo delle domande me le pongo ugualmente, in questo caso sarebbe più corretto parlare di “assenza di Dio”. E no, i preti non ce li voglio proprio (ride).
Nonostante i temi trattati, l’album si chiude un maniera solare, quasi catartica.
R: È come se una persona ti dà uno “sgrullone" e ti dice “stupido, svegliati. È ora di tornare a vivere”. Nel disco si affrontano molti temi in maniera più approfondita ma volevamo che al fondo ci fosse un messaggio positivo che ti portasse a reagire a tutto quello che può esserti accaduto.
E il messaggio è imparare a fare a meno del dolore?
M: Esattamente, pensare che il dolore non sia una cosa necessaria della nostra vita. Quando ho scritto il comunicato stampa per il disco alla fine ci ho messo “Voglio essere felice”. La verità è che non ce lo diciamo mai perché sembra talmente banale e hai paura che la gente ti rida in faccia, ma ti assicuro che quando ti trovi davanti alla fine e ti chiedi cosa vuoi che succeda in quel momento, quella è la risposta.
Gli Afterhours l’hanno mai scritta una canzone d’amore solare, serena, da lieto fine?
M: Sì, “Riprendere Berlino”. È quella su cui tutti scagazzano ma è la più serena in assoluto. Continuano a chiederci cosa vogliamo dire nel pezzo eppure la risposta è la più facile di tutte: cercare di essere felici.
Se ti chiedessi perché fai il musicista cosa risponderesti?
M: Sembra incredibile ma sono molto timido, ho sempre avuto un grande pudore nel parlare con la gente. Inizialmente suonavo musica classica, poi dei miei compagni di classe mi hanno fatto ascoltare i Joy Division. Venivano dalla classe operaia e li invidiavo per come fossero del tutto a loro agio con la loro emotività. Li vedevo sinceri, tranquilli. Allora ho provato a cantare cercando di tirare fuori cosa avevo dentro e, come ogni adolescente che trova il gruppo che sembra parlare la sua stessa lingua, quel tipo di sensazione non l’ho più mollata. Che voi ci crediate o no, non ci sono soldi, successo, o gente che ti applaude, che vale tanto quanto quella sensazione lì. Così arrivi a fare un album che parla del cancro o della morte di tuo padre, è quello il tuo bisogno più importante, mica vendere dischi.
Com’è la vecchiaia?
M: È una merda. Quello che più mi fa girare i coglioni è l’aspetto fisico, non avere più quell'energia che avevi anni prima. Io faccio ancora live da tre ore: è tutto merito dell’adrenalina che ti sale quando sei sui palco ma, finito il concerto, sono morto; quella è la vera merda. La cosa bella, però, è che a 50 anni puoi davvero fregartene di cosa pensa la gente. Sei un vecchietto che si mette a guardare i lavori in corso con le mani dietro e commenta. Dici sempre la verità, anche quando non ti conviene o non è il caso – ed è una roba liberatoria, meravigliosa.
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L'articolo Afterhours, un inno alla gioia di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2016-06-10 08:52:00
COMMENTI (5)
riguardo alla partecipazione ad X-Factor:
"Mi da fastidio che Manuel Agnelli (inteso più ampiamente come Afterhours) non sia più solo nostro. Il mio è solo egoismo, come un bambino che deve condividere il suo giocattolo preferito. Credo di interpretare un sentimento comune nella comunità indie (anche se non so cosa sia).
Me ne farò una ragione.
Grande disco comunque ed è l' unica cosa che conta.
Bella intervista, comlimenti!
Bella! Grazie mille!
Voglio essere felice!
Chiara
Bella intervista da entrambe le parti.
Speravo non finisse così presto.
Bella intervista @sandro !