Marcello e il mio amico Tommaso - Quando parliamo d'amore

"Nudità" è il primo album di Marcello e il mio amico Tommaso e parla di sfioramenti e amori che evaporano. Sullo sfondo: Roma, presenza costante e fondamentale. L'intervista di Filippo Cicciù a Marcello Newman

Marcello Newman mi dà appuntamento al bar dei Brutti, affollato locale a San Lorenzo, il quartiere romano «molto di sinistra» dove vive un numero imprecisato di studenti universitari fuori sede e sulle case ci sono ancora i segni dei bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale. E’ il luogo ideale per bere qualcosa mentre si chiacchiera ma anche per farsi un’idea della vita universitaria romana. La conversazione inizia proprio da qui: a Roma gli studenti universitari che non vengono da fuori continuano a frequentare le stesse persone che vedevano al liceo. Si creano quindi delle piccole comunità dove «i manierismi delle micro comunità liceali non scompaiono con l’università»

Quanto c'è di Roma nelle canzoni di Marcello e il mio amico Tommaso?
Mi rendo conto che una delle prime cose che mi trovo a chiedere a una persona che non conosco è quale liceo abbia frequentato, e non intendo chiedere se ha fatto il liceo classico o il liceo scientifico ma proprio quale liceo e in che parte della città. E’ una cosa che succede forse a causa della mancanza di una cultura da campus, tipo quella americana. In realtà in “Nudità” non parlo tanto di questo e non volevo soffermarmi solo sulla città. Prendi ad esempio un pezzo come “Erica”, non volevo parlare tanto di Roma quanto del modo in cui ci rapportiamo con le altre persone, soprattutto quando cerchiamo di rimorchiare, quindi quando siamo in questa sorta di gioco di ruolo dove ci sono delle leggi molto precise riguardo a quanti punti ficaggine hai. C’è qualcosa di molto autobiografico in quel pezzo, la storia è andata esattamente così: io ero il personaggio maschile, c’era una ragazza, poverina…

…si chiamava realmente Erica?
Non ricordo, mi pare si chiamasse Erica ma mi diede un contatto Facebook in cui non usava il suo vero nome. Non so neanche se l’abbia sentita la canzone. E’ una canzone che c’entra con l’idea base del disco, il disco parla d’amore, parla di rapporti interpersonali, di sesso. All’epoca del fatto ero in tour coi Jacqueries e una sera ho cercato di rimorchiare questa tipa in questa maniera terribile. Nella canzone c’è quindi un personaggio che si pone in maniera simpatica, è facile empatizzare con lui al primo acchito. Poi entra lei, rovina tutto, e alla fine scopri che il personaggio in questione è uno stronzo. Non so se sia una dinamica solamente romana, anzi penso sia una dinamica un po’ più globale.

Hai scritto questa canzone per autoassolverti o per descrivere qualcosa che vedi attorno a te?
Per entrambi i motivi. C’è una parte di quello che faccio che è trovare cose che mi imbarazzano, trovare cose che credo siano sbagliate e poi soppesarle, capire che valore hanno. Da una parte lo faccio perché mi dispiace e mi dà conforto dire in pubblico che questa è una cosa sbagliata. Dall’altra parte penso sia sensato fare arte con un contenuto morale. Senza voler essere il maestro o l’insegnante, come narratore sento il bisogno di pormi dei problemi riguardo alla moralità di quello che sto raccontando. In “Nudità” ho fatto questo in alcuni pezzi. In "Blues Balneare" c'è un personaggio con cui è facile empatizzare all’inizio perché pensi: “poverino è così distaccato dal mondo, poverino quanto è sensibile”. In realtà la stessa causa di quella presunta sensibilità è quella che poi lo porta a dire delle cattiverie e delle stupidaggini tipo: “Sarò l’ultimo a farti ridere ma mi vesto meglio dei tuoi ex/sarò l’ultimo a farti venire ma parlo italiano forbito”. Ovviamente è meglio fare venire una ragazza e farla ridere. Credo comunque che chi ascolta si trovi in una posizione di ambiguità rispetto a quel narratore di quella canzone, non sa se è buono o se è cattivo. Io credo che nel pop italiano, o comunque nel pop in generale, ci sia una prevalenza di narratori buoni.
Credo che alla lunga questa situazione possa portare a un’arte sempre meno interessante. Secondo me le cose sono un po’ più complicate, c’è un pezzo dei Cani, “Post-punk”, dove c’è un personaggio che viene dipinto come uno sfigato ma di fondo dice delle cose vere e belle come “la gente non è il mestiere che fa”. Niccolò, che in quel caso è il narratore verso cui dovresti empatizzare, avrà anche delle buone ragioni per parlare male di questo personaggio ma nello stesso tempo è anche lui in una posizione di ambiguità morale. Credo che nel costruire un narratore credibile sia importante lasciare questa ambiguità rispetto al valore morale dell’azione del narratore stesso. E’ meglio non fare qualcosa di troppo bidimensionale, potrebbe diventare noioso.

Come decidi se una tua canzone è una bella canzone?
Lavoro molto sui testi. E’ un lavoro decisamente analitico che poi mi porta a dire “va bene, è finita”. Mi devo mettere dei limiti, quindi una cosa che tendo a fare è darmi dei limiti formali, stabilire che ho pochi elementi - un violoncello, un oboe, un clarinetto, un batterista che usa solo le braccia, la mia chitarra - e devo usare quelli. E' importante per potere essere più creativo, come in poesia. Poi, nel caso di “Nudità” avevo bisogno di parlare di sesso e avevo bisogno di parlare d’amore. Alla fine si tratta di un concept album anche piuttosto rigido per certi versi.

Mi spieghi meglio?
E’ un po’ da megalomane fare l’esegesi del proprio disco ma credo che “Nudità” parli di qual è il senso del contatto tra le persone. Da una parte vedo una grande difficoltà ad incontrarsi, a capirsi, ma nello stesso tempo in “Nudità” c’è anche una spinta verso il contatto, verso l’accorciare le distanze. Quasi una speranza, direi. “Bossa nova” è la canzone in cui c’è più speranza, ed è quella che parla un po’ più di sesso in effetti. Il pezzo dice “toccami i pantaloni” o “sul tuo corpo diventerò una scimmia un po’ più furba”, ecco in quel modo di scopare, in quel modo di fare l’amore, di toccarsi... io spero che ci sia la possibilità di un contatto vero tra me e l’altro, tra l’altro e l’altro ancora. C’è una scrittrice femminista radicale americana che si chiama Andrea Dworkin, lei ha scritto un libro che si chiama “Intercourse” e in questo testo c’è un capitolo, “Skinless”, in cui si parla della ricerca e della possibilità di un contatto tra due corpi che passi attraverso le barriere protettive che abbiamo, l’epidermide, la pelle. Ecco, lei è molto più pessimista di me (sorride, NdA). 

Parli di “Nudità” come di un disco sinceramente intimo, come ti senti a sapere che tra il pubblico ai vostri concerti potrebbe esserci qualcuno coinvolto nella storia che stai raccontando?
E’ una cosa che capita continuamente. La prima volta è sempre un po’ imbarazzante perché la gente tende a sentirsi un po’ violata quando ne parli in una canzone. C’è stata gente che si è arrabbiata. Poi dopo un po’ l’effetto passa perché credo che la prima volta che stai scrivendo una canzone sia l’unica in cui davvero stai dicendo quello che senti. Dalla seconda volta in poi sei un interprete. Devo rientrare nel me in cui ho scritto questa cosa. La canzone “Dio”, ad esempio, parla di una ragazza con cui stavo, l’ho fatta sentire a lei anche prima di portarla nei concerti, lei si è un po’ arrabbiata, poi l’ho cantata dal vivo. Parla di una coppia, non credo che se parli di cose che sono realmente avvenute stai solo parlando di cose che sono realmente avvenute. Stai parlando di drammi interpersonali che possono diventare più generali, meno specifici, che in qualche modo sopravvivono a quello che è successo. Una volta che le scrivi un po’ te ne liberi, per fortuna.

E' quando la condivisione parte direttamente dalla scrittura? "Piscina" l'hai scritta a quattro mani con Valeria Papi.
E’ stato l’ultimo pezzo scritto per il disco. All’epoca io facevo nuoto libero in una piscina sulla Prenestina. Lei faceva nuoto al CUS, la piscina dell’università. Siamo molto amici e un giorno stavamo chiacchierando sul potenziale erotico di un incontro che avviene in piscina. La piscina dove andavo aveva le corsie particolarmente strette e una volta in particolare ero convinto che ci fosse una specie di teatrino dell’amore tra me e un’altra ragazza che faceva nuoto libero nella mia stessa corsia. Ci fermavamo e ci guardavamo nello stesso momento dal lato a lato della vasca e poi ci incontravamo sempre a metà. E’ finita lì ovviamente, come le ragazze che vedi in autobus. Ora rileggendo il testo ci siamo accorti che se anche sembra una canzone scema se ascolti bene contiene una descrizione metaforica dell’incontro dei tempi dell’orgasmo maschile e femminile quando dice: “Non rallentare/voglio essere puntuale/al nostro appuntamento più unico che raro”»

Il vostro disco si apre idealmente con un racconto scritto da Francesco Pacifico, è una prefazione che si lega a qualche canzone in particolare o in generale all’atmosfera di tutto il disco? Qual è il rapporto tra i tuoi testi e la letteratura?
Parlandone con Pacifico abbiamo pensato di intendere la sua introduzione come fosse un featuring: Pacifico che scrive un pezzo per il disco di Marcello e il mio amico Tommaso, però invece di suonare un pezzo ne scrive un racconto. In quel racconto ci trovo lo spirito del disco e credo che sia una buona introduzione ai temi del disco. Riguardo ai rapporti con la letteratura, l’altro giorno leggevo un’intervista al cantante dei Distanti, che credo siano il mio gruppo italiano preferito, e lui diceva di essere stufo di come gli chiedessero sempre quali fossero le sue ispirazioni musicali facendo finta che uno scrittore di canzoni non legga libri. Personalmente io leggo molti più libri di quanti dischi ascolto. Anche la scelta di fare un canzoniere nasce da questo. A me piacerebbe scrivere un romanzo, purtroppo so scrivere canzoni.

Scriveresti canzoni per altri? Tipo, esistessero ancora i Distanti. 
Non ne sarei in grado. Loro sono troppo bravi (sorride, NdA). Ti dico, per un po’ mi sono interessato alla forma canzone, alla scrittura di canzoni come tecnica, alla Burt Bacharach o alle cose fatte da Stephen Merrit dei Magnetic Fields in cui ci vedo molto la scrittura di musica pop, proprio come tecnica intendo. Tutto questo mi piaceva molto anche se adesso mi interessa un po’ di meno. In questo momento ho capito che per me quello che funziona meglio e quello che mi interessa di più è esprimermi, espormi. Cercare di dire qualcosa di vero, di vero per me.

Nel disco ci sono dei riferimenti letterari? 
Ti posso dire che durante la registrazione di "Nudità" ho letto alcuni racconti di Cesare Pavese e molto Dino Buzzati.  “Un amore” di Buzzati è un libro incredibile, penso che da allora sia diventato il mio romanzo preferito. Mentre prima di registrare leggevo molto David Foster Wallace, ero un periodo in cui non facevo molto e ho letto “Considera l’aragosta” e “Infinite Jest”, ma la lettura di “Un amore” è stata importantissima. Se ci pensi il racconto di Pacifico che apre il nostro disco si chiama “Un amore” e ti posso dire quasi con certezza che il prossimo disco si chiamerà “Un amore”.

Stai già pensando al prossimo?
L’ho già quasi finito. Ho avuto un'esplosione creativa a febbraio e in un mese ho scritto sette o otto canzoni.

Chi scrive belle canzoni in Italia?
Alessandro Fiori secondo me scrive bellissime canzoni. I Baustelle continuano a scrivere belle canzoni, mi è piaciuto molto l’ultimo disco. Pensa che i Baustelle per anni non mi sono piaciuti mentre da un po’ sono andato in fissa per i loro primi due dischi. I Cani scrivono belle canzoni, il primo disco in italiano dei Gazebo Penguins secondo me era proprio molto bello, mentre non ho ascoltato ancora abbastanza “Raudo” per avere un parere in proposito. I Fine Before You Came sono molto fighi. Devo dire che ultimamente mi sono andato ad ascoltare quel tipo di scena italiana. I Distanti per me rimangono enormi, hanno fatto un disco, “Enciclopedia della vita quotidiana”, di cui mi viene ancora la pelle d’oca a parlarne, i Raein anche hanno fatto un disco incredibile, meno bello di quello dei Distanti ma comunque un disco pazzesco. Chi altro scrive belle canzoni? Se ci pensi ce n'è un sacco.

Brunori SAS?
Ha scritto delle belle canzoni.

Vasco Brondi?
Ha scritto delle belle canzoni anche lui, guarda non dirò delle cattiverie su nessuno (ride, NdA).

Torniamo a “Nudità” allora, rispetto al primo Ep il suono non ha perso in pienezza, il passaggio dall’inglese all’italiano ha cambiato molto lo stile. Come ci sei arrivato?
Non mi ero mai posto il problema delle dinamiche che intercorrono tra l’autore e il suo pubblico, ho cominciato a pensarci un po’ tardi. Scrivere e cantare in italiano non è tanto potersi fare capire da qualcuno che hai davanti, ma soprattutto dire a te stesso che lo stai facendo. Se scrivi una stronzata in inglese non te ne accorgi o te ne accorgi più difficilmente. E tieni presente che io ho imparato l’italiano molto dopo l’inglese: mio papà è americano, sono nato a Bruxelles, dai tre ai nove anni ho vissuto a Londra, poi in Italia; e nonostante questo mi accorgo subito se racconto male qualcosa in Italiano. Ho sentito il bisogno di fare le cose meglio. Ho passato sei mesi in cui non ho frequentato l’università, andavo al parco a non fare un cazzo, parlavo molto con altre persone di quello che facevo e sono arrivato alla conclusione che dovevo espormi di più, che ci voleva più progettualità. Il gruppo è nato in un modo assolutamente poco serio, io e Tommaso scrivevamo canzoni ma poi non le pubblicavamo, facevamo tanti concerti e ci divertivamo tantissimo. Oggi... diciamo che la progettualità c’è ma è estremamente precaria. Ho fatto il conto che nella storia dei marcelli abbiamo avuto sette cantanti femminili diverse (ride, NdA).

Perché iniziate ogni vostro concerto con “The Luckiest Guy on the Lower East Side” dei Magnetic Fields?
E’ l’unico pezzo felice in scaletta, non ce la sentiamo di iniziare un concerto subito con cose molto tristi, non possiamo partire subito con cose troppo depressive.

In realtà anche “Un ragazzo per l’estate” è un pezzo allegro.
Sì certo, anche se è una canzone che abbiamo suonato pochissimo dal vivo. L’ha scritta suo padre (indica un ragazzo ventenne seduto a un tavolino poco più accanto, NdA), che è Roberto Tinti, un amico della mia famiglia. Mi aveva portato questo pezzo chiedendomi di arrangiarlo e cantarlo perché voleva regalare poi la canzone ad una sua ex di tanti anni prima. Poi lei si accorta che era invece dedicata a una delle ex del padre (ride, NdA). Quella canzone è davvero felice e infatti non l’ho scritta io...

Nelle vostre canzoni ci sento molto Beirut, Belle and Sebastian, Kings of Convenience ma anche tanta canzone d’autore italiana anni ’60 come ad esempio Gino Paoli. Vi ritrovate?
Io di canzone italiane degli anni ’60 non conosco praticamente niente. Conosco qualcosa di Tenco, mi piace molto, ma in realtà non ho nemmeno presente tutta la sua discografia. Non mi sento molto legato a quella tradizione, non perché non mi piaccia, chiaro, ma perchè mi sono trasferito a Roma quando avevo nove anni, quando verso ai quattordici anni incominciai a divorare dischi su dischi non parlavo così bene l'italiano, quindi ascotavo quasi esclusivamente musica in inglese. Se dovessi definire cosa mi ha influenzato ti citerei nuovamente i Baustelle: se ascolti “Mademoiselle Boyfriend” tratto da “La moda del lento”, ecco credo che il mio disco sembri un plagio enorme di quella canzone. Una cosa di cui non mi sono accorto in fase di scrittura, ma solo ascoltando il disco successivamente.

Terminiamo da dove siamo partiti: Roma. Nei testi fate spesso dei riferimenti specifici a determinati luoghi di Roma. Spieghereste a un non romano perchè li avete scelti, cosa rappresentano per Roma e cosa rappresentano per voi?
Non trovo che siano fondamentali ai fini della comprensione della narrazione. Perché il bar Marani o il San Callisto? Il San Callisto è un bar a Trastevere, è un bar storico che sta in piazza San Callisto appunto. E’ un posto dove vai per bere molto, dato che costa molto poco o per chiacchierare dato che non c’è musica, non c’è una sala da ballo, è un baretto un po’ all’antica. Sia il bar Marani sia il bar San Callisto sono posti dove mi è capito molto frequentemente di fare quello che facciamo tutto il cazzo di giorno, ovvero: parlare di cose come “che cazzo farò l’anno prossimo?” oppure “dove mi vedo tra dieci anni?”, “quanti figli voglio avere?”. Il pezzo “Per Mikhail” parla di quello che succede qualche ora dopo conversazioni di questo tipo, quando realizzi concetti come “Ho capito quello che voglio fare, ho capito che devo fare le cose che voglio fare e non quelle che non voglio fare, che devo essere proattivo, ho capito che devo fare le cose per me e che devo vivere come se non fossi un problema per gli altri”. Anche in questo trovo una speranza anche se molto evanescente, una speranza che trovo ma che poi muore la mattina dopo.
Gli Artic Monkeys non sono un gruppo a cui sono particolarmente legato però i testi del primo disco erano scritti molto bene e ricordo un pezzo, “From the Ritz to the Rubble”, in cui lui dice “Last night what we talked about/It made so much sense/But now the haze has ascended/It don't make no sense anymore”. Volevo parlare un po’ di questo in quella canzone. Quello che voglio dire è che il San Callisto è un posto bellissimo dove faccio bellissime riflessioni ma sono consapevole che non ci potrei vivere dentro, non potrei affittare una stanza la bar Marani o al San Callisto. Ci sono nella mia vita dei momenti di speranza certamente. Potevo parlare anche del bar dove siamo adesso, il bar dei Brutti, che in effetti è molto legato a queste dinamiche. Passo molto più tempo al bar dei Brutti che al San Callisto o al Marani però, anche se si tratta di un posto vero, il nome “bar dei Brutti” sentito in una canzone poteva sembrare inventato, una cosa alla Ligabue. Ci tengo molto a non essere frainteso, sia nei testi delle canzoni, sia nella vita e dire bar dei Brutti poteva evocare qualcosa tipo culto dello sfigato anni ’90.
Faccio la metà delle mie date a Roma, il pubblico che mi trovo davanti quando suono è gente che sa esattamente di cosa parlo. Nello stesso tempo io non voglio essere un gruppo romano che parla solo al pubblico romano, una cosa che purtroppo è successa molto in passato.

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L'articolo Marcello e il mio amico Tommaso - Quando parliamo d'amore di Filippo Cicciù è apparso su Rockit.it il 2013-07-05 00:00:00

COMMENTI (2)

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  • iocero 11 anni fa Rispondi

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  • enzosa 11 anni fa Rispondi

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    è semplice... lineare... chiara...
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    ora ho un po' di spunti di cose da ascoltare ed anche da leggere...
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    mi piace anche il disco "nudità"...
    ma non solo il disco...

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