È una Milano avvolta dalla nebbia e dal freddo quella in cui mi trovo mentre sto andando a intervistare uno dei personaggi più curiosi che abbia mai conosciuto, ed è solo questo pensiero che riesce a riscaldarmi un po'. Lui si chiama Marco Fracasia, è un giovane musicista torinese – di Rivoli, per la precisione – che sembra uscito da un libro di Andrea De Carlo, con la voce tenorile e i modi di fare super pacati che nascondono un'irrequietezza che riesce a sfogare solamente tramite la musica. Il suo primo ep è Adesso torni a casa, manifesto di un ragazzo che scrive canzoni a casa di sua nonna sognando i grandi palchi dei festival europei, pervaso da una sincerità che lo rende davvero emozionante.
Adesso torni a casa un ep pervaso dalle spinte elettroniche figlie degli LCD Soundsystem, tra i riferimenti più immediati del disco, ammorbidite da arrangiamenti acustici vellutati e molto concreti. E anche se il primo singolo – un brano molto intimo e sofferto, che parla di insicurezza e di una sindrome dell'impostore da cui sembra impossibile fuggire – si intitola black midi, le furiose e dissonanti scariche di chitarra dell'omonima band inglese sono molto sporadiche. A trovare più spazio sono le atmosfere eteree dei Beach House, anch'essi citati all'interno di un brano (Un inizio), declinandoli in una dimensione molto più terrena e fisica, che punta più alla realtà che al sogno.
Scendo dal tram vicino a Porta Romana per avvicinarmi a piedi al luogo del nostro incontro. Si tratta del Pulp, un pub dall'estetica, così come nel sottofondo, di quel classic rock monolitico che rimane stoico e inamovibile di fronte alle mille direzioni che ha preso la musica dopo il 1974, creando un certo effetto meme rispetto alla morbidezza elettronica che caratterizza Adesso torni a casa. Insomma, il contrasto tra il locale e l'immaginario di Marco si percepisce, beffardo come il sorriso che sbuca sul suo volto mentre, intabarrato nel suo giubbotto rosso acceso, mi confida: "Sono un po' in paranoia, è la mia prima intervista. Bella, grazie!".
Assieme a lui c'è un inaspettato gruppo di musicisti: Marco Giudici, produttore dell'ep, Luca Galizia aka Generic Animal – anche lui così colpito dalla musica di Marco da prendere parte alle registrazioni del disco – con il suo batterista Giacomo Ferrari, il chitarrista Luciano Rovetta e Fabio Copeta di Cacao Prod. e dei Giallorenzo. Ovviamente non poteva mancare Alessandro Petris, soprannominato "Dando", miglior amico di Marco e anche lui musicista, che ridacchia con me e Marco mentre iniziamo la nostra intervista.
Su Instagram ho letto un commento legato a black midi che definisce la canzone come "un pezzo che ti strappa la pancia". Cosa accade nella canzone?
black midi è uno sfogo dove emergono le mie ambizioni contrastate dalla paura di non essere mai bravo abbastanza. Nel senso, non scrivo pezzi fighi se mi compro il disco di Fiona Apple, il problema sono io. Non è che se passo la giornata a guardare l'equipboard di James Murphy e a sognare di comprare tutte le sue macchine automaticamente mi sblocco e riesco a fare qualcosa di concreto nel mondo della musica. Il punto è che Murphy ha un cervello e io ne ho un altro: realizzarlo può far male, quindi torno a casa con le orecchie basse come un cane piccolissimo. E appunto: "I membri di un gruppo a piedi nudi sul palco di un festival europeo" è una citazione a tutti quei gruppi che suonano al Primavera di Barcellona alle 18 circa, non so se mi spiego, un po' come i "piccoli" Tame Impala di Innerspeaker o proprio i black midi.
Il titolo del tuo ep è, secondo me, super azzeccato per i testi e le atmosfere presentate. Da dove arriva?
Me l’ha suggerito Emiliano (Colasanti, 42 Records, ndr), non sapevo come chiamarlo! In realtà nelle demo black midi si chiamava Adesso torni a casa, Juju (soprannome con cui viene chiamato Marco Giudici, ndr) mi ha consigliato di usare direttamente black midi e quindi rimaneva fuori questo titolo. Poi all’Apolide Festival la scorsa estate ho incontrato Emiliano e lui mi ha suggerito di intitolarlo così, a me è piaciuto subito e abbiamo deciso di tenere direttamente questo che esprime bene anche il concetto generale delle canzoni.
Come mai hai iniziato a scrivere?
Avevo circa 11/12 anni, stavo camminando nel bosco del castello di Rivoli, con Giacomo (il suo cane, ndr) e mio padre. A una certa, dal nulla, gli ho chiesto se volesse un mio cd da ascoltare in macchina mentre andava a lavoro, perché lui mi dava soddisfazione e mi ascoltava mentre strimpellavo. Io suonavo quella che oggi viene considerata “chitarra ruock”, facevo un sacco di assoli, cercavo su Youtube le backing tracks dei pezzi rock, le mixavo assieme come se fosse un concerto e ci suonavo sopra le parti di chitarra. Comunque gli ho chiesto se volesse un cd anche se non avevo assolutamente idea di come farlo dal nulla. Da lì mi son comprato una scheda audio e ho iniziato a registrare su Audacity, da Is There Anybody Out There? in loop son passato ad alcune esperienze fallimentari con vari gruppi e, qualche anno dopo, alle mie prime demo.
A quanto tempo fa risalgono le canzoni?
Ho scritto Ipersoap nel 2019 e ci ho lavorato sopra per molto tempo prima di raggiungere la forma "finale". Le altre canzoni sono nate tutte nel 2020, le ultime due sono state Solfeggio e Un inizio.
Qual è la tua preferita e perché?
Penso proprio le più recenti, Solfeggio e Un inizio, anche perché sono collegate. Solfeggio è la mattina in Conservatorio, il docente di solfeggio mi ammazza dicendo che non valgo niente. In sottofondo si sente anche il rumore del pub vicino a dove abita mia nonna, che spesso è il luogo da cui voglio tornare a casa. Un inizio è il pomeriggio in cui vado appunto da mia nonna a scrivere, anche se è un po’ pesante farlo con il ricordo di un vecchio che ti insulta.
Mi racconti un tuo ricordo legato alla scrittura di queste canzoni e uno legato alle registrazioni?
Durante le scrittura sicuramente le lenticchie che mi cucinavo quando tornavo a casa dei miei genitori, solitamente a notte fonda perché finivo tardi le sessioni. C’erano giorni in cui non dormivo da nonna, quindi rincasavo senza aver cenato e mettevo in pratica questo piccolo rituale, un po' per sopravvivenza un po' per mio gesto personale, la cosa bella è che questo trip delle lenticchie va avanti ancora... mi piacciono tanto le lenticchie. Invece durante le sessioni di registrazione qui a Milano ogni tanto dormivo per terra mentre Juju lavorava, poi mi mostrava i video in cui russavo mentre cenavamo, dopo te li faccio vedere. Oppure il suo fischio polifonico che ancora non riesco a spiegarmi come sia possibile... Al di là di questo, un bel ricordo è la sua bontà a livello umano, mi ha anche lasciato dormire a casa dei suoi genitori per farmi lavorare con comodità.
A chi ti ispiri?
A James Murphy e Gennaro Gattuso. Gattuso è un guerriero: dai campi di terra battuta in Calabria – mio padre è originario di lì – fino alla vittoria della Champions League, senza mai arrendersi. Sa un po' di commento da dvd sulle vecchie glorie del Milan in allegato alla Gazzetta dello Sport, però è vero.
Ho sentito l'influenza degli LCD Soundsystem nell'ep, ma ho sentito soprattutto delle produzioni e delle sonorità molto originali. Possiamo approfondire un po' di più i lati tecnici e gli strumenti usati da te e Marco?
La casa di tua nonna a Rivoli è diventato un luogo mistico per me. Come mai scrivi solo lì?
Perché lì è dove ho tutti gli strumenti ed è il posto dove posso stare da solo! In realtà è uno stanzino con una finestra, ma lavorare in un posto piccolo e che sento essere solo "mio" aiuta decisamente la mia creatività. Secondo me non è troppo contenta del fatto che suono così tanto, però mi vuole troppo bene per dirmelo e quindi mi sopporta.
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L'articolo Marco Fracasia torna a casa tua di Lorenzo Lena è apparso su Rockit.it il 2022-03-11 12:45:00
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