Io quest'intervista non la volevo fare. O meglio, la volevo fare eccome e ho pure insistito un po' per farla. Però allo stesso tempo non la volevo fare, e la temo parecchio. Per una serie di motivi.
Vanetti Alessandro nato a Gallarate il 30 novembre 1992 lo conosco abbastanza bene. O comunque meglio di quanto conosca ogni altro suo collega – per lo meno quelli delle ultime due generazioni – in Italia. Per motivi personali e professionali. Perché da quando ho ascoltato 7 miliardi e poi Sabbie d'oro sono andato in fissa con la sua persona e la sua musica, che ogni tanto ho come un bisogno fisico di sentirmi in cuffia o in diffusione le poche volte che prendo l'auto. Perché mi era capitato di "studiarlo" a fondo per preparare una sua intervista televisiva, che poi in effetti ci avrebbe dato parecchie soddisfazioni.
Artisticamente penso che sia la cosa migliore capitata al rap e alla musica italiana da una bella cifra di anni (quasi tutti gli altri meritevoli di stare in questa lista, curiosamente, sono tra i feat. del suo nuovo album). Lo conferma Solo tutto, uscito il 26 marzo, un disco praticamente impossibile dopo l'assordante debutto intitolato come l'operazione antidroga che lo aveva portato in carcere poco più che ragazzino. Invece siamo davanti a un nuovo lavoro che risplende, di una luce del tutto diversa dall'esordio eppure altrettanto accecante. Tutto quello che dovevo dire sul disco – dalle liriche al lavoro sui beat di Phra Crookers fino al nuovo corso di "storytelling" intrapreso con Fumo e Air Force – sta qua.
Solo tutto suona come una conferma fragorosa: Massimo Pericolo è una delle poche entità in grado di ridare senso e dignità a un carrozzone su cui sono saliti in troppi, spesso scaltri e caricaturali. Le cicatrici di Vane ci ricordano che – al di là della sua brillante storia, dei suoi usi e attuali abusi – il rap è una forma di espressione come le altre, di cui si può fare un utilizzo buono, cattivo oppure inutile, onesto, sleale, a volte magistrale e a volte imbarazzante.
Le immagini che crea arrivano come un treno in faccia per vividezza e (neo)realismo, le quotes di cui sono pieni i suoi pezzi fulminano e lasciano interdetti. Non sono le frasette "catchy" da bigliettino d'auguri che hanno fatto la fortuna dell'itpop, né le punchline hey-guarda-quanto-sono-urticante di molti colleghi MC. Sono un mix strano di materiale che sale su dalle viscere, che mette assieme le scritte anarchiche sulle mura delle carceri e le più fataliste, nichiliste e disilluse tra le grandi menti del '900 – Foster Wallace, Bukowski, magari pure Lansdale, Edward Bunker e ognuno aggiunga i suoi –, gli abusatissimi (e meravigliosi) film generazionali tipo L'odio o Tarantino, i rapper disgraziati che vi faceva sentire vostro fratello maggiore e i vecchi punk ostili a tutto compresi loro stessi.
Le parole di Vane si prestano a più letture – se un concetto non lo fa, diffidate da esso –, quella epidermica reca con sé ilarità, incazzatura o un generico disturbo, ma una più profonda porta all'elaborazione di un pensiero. Sono spesso politiche, nel senso più antipolitico del termine. Sono sempre personali, pure a 28 anni e con un conto corrente per cui ora i funzionari della banca trovano il tempo di riceverti.
Se ho maturato questa insana passione per lui è perché potrebbe essere al contempo il mio scrittore preferito (che di solito vive in qualche ranch texano) e il centravanti della mia squadra di calcio a sette, temibile in aria avversaria e ancora di più seduto di fronte alla spina della birra. A questa sensazione di contiguità, è onesto dirlo, contribuisce la mia biografia: conosco e frequento da sempre quella "sponda magra" del Lago Maggiore che è il teatro delle imprese di Scialla Semper come di Solo tutto, e perdermi con lui lungo una statale tra le nebbie di Angera o di Gavirate mi è semplice, quasi naturale.
Con la gente con quella sua stessa identica faccia, vestita come lui (qualche anno fa...), dura, arroccata eppure umana come lui, ho bevuto centinaia di volte, ho fatto i giri in macchina fin tardi, ho sparato cazzate e pure discusso (quando proprio non potevo farne a meno). Mi è tutto così familiare, e questo mi porta ad avanzare delle pretese. Di capirlo più di altri, conoscerlo più di altri. Pericolosissimo, per chi fa questo mestiere.
Questa è la mia difficoltà ora. A cui si aggiunge il fatto che negli anni ho letto ogni cosa che riguardasse MP e negli ultimi quattro giorni ho compulsato ogni sua intervista (e sono state parecchie). Per questo ora non vorrei fargli dire cose già dette, cose che non siano del tutto mie che "lo conosco così bene". O, ancora peggio, fargli dire cose banali, a lui che riesce a dare una risposta brillante (di una brillantezza di strada, indolente nel tono e dritta al punto) a ogni cosa che gli viene chiesto. Insomma, non è che a farsi le paranoie assassine ha diritto solo Vanetti Alessandro.
Lo chiamo con questo spirito d'animo. Lui sta, da quel che ho capito, a Roma: per motivi di lavoro si è dovuto allontanare dal varesotto, dove continua a vivere (non più a Brebbia, ma lì vicino, in una Casa nuova, come canta nel disco). È distrutto e disponibile come ogni volta. Registro.
Il punto è che non so che cazzo chiederti. Per cui ti chiedo come stai. Intendo proprio: hey, davvero, come stai?
Non posso dirti che sto male, non è quel periodo nella mia vita. Non posso nemmeno dirti che sono felice. Ho un sacco di pensieri legati all'uscita del disco: quando ti confronti con l'opinione di tutti, diventa molto difficile farsi un'opinione obiettiva di se stessi e di quel che si fa. Il mio lavoro in questo momento è tutta la mia vita, per cui sono in forte tensione.
Di cosa ti preoccupi?
Dei risultati, anzitutto. Perché un disco è fatto per essere "venduto" e come sarà andata io non lo saprò prima di sei mesi. E poi di cosa ne pensa la gente, quella è la vera paranoia.
Quanto incombe lo spettro di Scialla Semper?
Non mi abbandona mai. Continuo a pensare se la gente starà recependo Solo tutto come migliore, peggiore o altro rispetto al primo disco. Non riesco a non pensare continuamente a quel confronto (su cui Massimo Pericolo "gioca" nella prima traccia di Solo tutto, prendendo in prestito il famoso adagio di Caparezza sulla difficoltà del secondo album per un artista, ndr). Con Scialla Semper era facile non farsi mangiare dall'ansia: non avevo un cazzo da perdere, come andava andava. Poi è andata com'è andata e ora ogni cosa viene inevitabile riferirla a quel disco, paragonarla. Va bene, spero solo che si faccia un discorso basato sulla qualità degli album e non su altro.
Dentro di te, ti sarai posto il ragionamento: come si evolve dopo un disco come Scialla Semper?
In realtà mica tanto. Nella vita e nella carriera ho avuto un'evoluzione improvvisa, tutto è successo di botto dopo 25 anni più o meno passati allo stesso modo. Poco dopo la fama è arrivata la pandemia, che è come se avesse bloccato tutto. Ho come la sensazione di non essere arrivato in fondo al cambiamento che Scialla Semper ha fatto scattare, perché oggi si vive a un'intensità più bassa e il paradosso è che ora ho più soldi, ma posso fare meno cose di prima.
Come ha influito sulla tua musica?
È come se, a livello di racconto, avessi sentito l'esigenza di un disco di passaggio, in cui raccontare ciò che non ero ancora riuscito a raccontare della "vita di prima" e iniziare a inserire elementi di novità (anche dal punto di vista umano, tipo Casa nuova). Forse più avanti ci sarà bisogno di un nuovo inizio, per ora, avendo fatto da 0 a 100 in un attimo, avevo ancora bisogno di metabolizzare delle cose.
Personalmente detesto l'idea di successo per come è stata modellata oggi. Tu che lo hai raggiunto, com'è il successo?
Ho sempre considerato il successo sopravvivere a questo mondo senza fare qualcosa che odiassi, e non dovendo fare troppe rinunce. In questo momento ci sono arrivato. Quella è l'unica cosa che mi interessa davvero: il resto è effimero, l'approvazione delle persone va e viene. Un giorno mi piacerebbe poter continuare a vivere la vita che mi piace senza stare sotto i riflettori, campando di rendita, di "successo precedente".
Hai fatto un gran lavoro di promozione del disco sui tuoi canali social. Quanto ti è pesato fare questa cosa?
Un po'. Dovendolo fare, ho cercato di farlo nel migliore dei modi, a modo mio, di cuore. Ma inutile fingere che mi piaccia farlo. A me sta cosa dei social, il fatto che un artista non possa più prescindere da loro, pesa. Cresciamo vedendo i social come un affare personale, a un certo punto diventi un personaggio pubblico e questi strumenti "inquinano" ogni aspetto della tua vita. Gli amori, le amicizie, dove vai a fare la spesa diventano informazioni pubbliche, magari anche strumenti di marketing. Fare la musica, purtroppo, è diventato anche questo. Se vado a lavorare in fabbrica faccio un lavoro di merda – l'ho fatto e sono contento di non farlo più –, ma sono 8 ore e poi la fabbrica rimane al suo posto, e il resto è tempo libero per davvero. Io sono impegnato con il cervello 24 ore su 24 su questa cosa, su come comunicare me stesso, come pormi alle persone. Non lo rinnego, ma alla lunga è logorante.
In qualche modo l'esperienza della reclusione ti ha allenato alla pandemia?
Avevo un po' di trucchetti da parte, tipo farsi una routine e trovare degli spazi personali. Ma in realtà credo di averla sofferto persino più di altri, perché non avevo nemmeno quel senso di "novità" della condizione di semi-reclusione. E spesso mi sono trovato a rivivere angosce, c'erano ricordi brutti che riaffioravano. Aggiungi il disco, le difficoltà di dover lavorare "a distanza" a un progetto così importante. Per uno paranoico come me l'assenza di feedback diretti, che sono fatti anche di sguardi e sensazioni di pelle, è una cosa pesante. E conta che non sono uno di quelli che pensa che ciò che non ti uccide ti fortifica, anzi. Ci si abitua alle cose brutte, ma si diventa più vulnerabili.
Com'è la storia che vuoi aprire un centro di fitness?
Dovessi fare un investimento lo farei in quel campo, perché è l'unica cosa che mi interessa nella vita oltre al rap. Da ragazzo ho fatto l'allenatore di kung fu per un anno: non mi arricchiva affatto, tanto è vero che poi ho fatto altre tipi di scelte e ne ho pagato le conseguenze, ma era qualcosa che amavo. È da quando sono piccolo che porto avanti questa doppia passione, che è quasi una doppia personalità: musica e arti marziali. Sono due ambiti in cui, se vuoi fare le cose per bene, devi investire te stesso al 100%. Io per anni non sapevo scegliere, poi, per un caso del destino, la musica è diventata la mia fonte di reddito ed eccomi qua. Però sarebbe bello tornare un giorno a impegnarmi maggiormente anche nel combattimento.
In che modo "spiritualmente" questo ti aiuta e ti orienta?
Le arti marziali, se vissute intensamente, influiscono parecchio sugli stili di vita. Io ho iniziato da piccolo col karate, poi sono passato al kung fu e alla kick boxing, a 19 anni ho fatto uno stage di tre mesi in Cina in cui mi sono dedicato al Sanda (una specie di kick boxing cinese, perdonerete la semplificazione, ndr). Da questa pratica ho appreso il valore del sacrificio e come la gratificazione sia l'esito di un percorso e di un impegno costante. Per me che sono emotivo e che soffro di depressione, e quindi mi lascio spesso andare, è un aiuto enorme. Ho imparato la disciplina facendo una cosa che mi affascinava, è tipo la medicina che dai al cane infilata nel prosciutto.
Un anno e mezzo fa, quando ci incontrammo per la prima volta per la tua intervista all'Assedio, non sapevo se chiederti della depressione, e come parlarne. Alla fine prendemmo in prestito la tua metafora del Polo Nord per introdurre l'argomento. Ora ti chiedono di parlarne a ogni intervista, e tu non ti tiri indietro. Inoltre il tema – per fortuna, e forse mai abbastanza – è quasi la quotidianità di questi tempi. Che effetto ti fa?
Per me parlarne non è un problema, ma so benissimo che ognuno poi vive le cose a modo suo, io per primo, e non ho la pretesa di risolvere la questione in questo modo. Che si faccia un po' di sensibilizzazione sul tema mi pare una cosa bella e importante, perché come malattia è presa meno sul serio di altre. Perché è un argomento difficile da capire, e quindi si pensa che alla gente interessi di meno.
Qual è la cosa peggiore della depressione?
Che non passa. Personalmente speravo che una volta realizzato artisticamente, le cose potessero andare a posto, o per lo meno che potessi stare sensibilmente meglio. Invece non è così. Non sono questo tipo di cambiamenti che sistemano le cose, o magari questo un po' avviene ma solo alla lunga. Certe malattie è più facile farsele venire che farle andare via.
Siamo quasi giunti alla fine e non abbiamo ancora parlato del disco, di solito è una cosa che gli artisti in promozione apprezzano...
Be', ma io nel disco scrivo di me. Quindi ci sta.
In Solo tutto ci sono parecchie donne, c'è sesso e c'è amore. Argomenti che affronti con un vocabolario che fa decisamente a pugni con la "tenerezza" che ti contraddistingue. Perché "tratti" così le donne?
Perché, esattamente come puoi avere simpatie e antipatie per i maschi, puoi averle per le femmine. Io guardo alle persone e non a cosa rappresentano. Amo la mia ragazza e detesto altre donne con cui ho avuto a che fare, darei tutto per i miei amici e odio gli infami e per quello dico nei pezzi che gli vorrei sparare. È una questione di rapporti umani, non di generi.
A chi ti dice "sei un sessista", cosa rispondi?
Che è una stronzata. Se insulto una donna, uso le espressioni che so che la possono offendere tipo "puttana". A un uomo dico "non hai le palle". Guarda caso sono tutte cose basate sul sesso, perché è qualcosa che ferisce. Il fatto è che ci sono temi sensibili su cui ci si concentra e che creano dibattito. L'odio è sempre di genere, la violenza di genere, etc. Per me sono perdite di tempo: serve l'amore per tutti e l'odio per nessuno, non le categorizzazioni.
Sei un anarchico?
No, perché da quel che so l'anarchico è un orientamento politico. Io ho solo delle idee molto personali e sogno, come tutti, un mondo in cui la gente la pensa come me. Ma non la vivo come una battaglia, non faccio alcun tipo di attivismo. Anche perché non ho fiducia nel fatto che il mondo possa cambiare.
Nel tuo non fare politica, mi hai dato la risposta più politica (e non quella paracula, come fanno sempre i tuoi colleghi quando faccio questi tipi di domande): il tuo orizzonte è sempre individuale e mai collettivo, mi pare di aver capito.
Una cosa del genere. Io scrivo per me: sono contento se le mie canzoni aiutano qualcuno, ma non è il mio obiettivo, se no scriverei della fame del mondo. Se scrivo di carcere è perché lo conosco, mi riguarda. Lì mi fermo.
Cosa leggi?
Adesso poco, ma quando ho potuto ho letto tanto. Mi piacciono, così come nella musica o al cinema, i racconti di vita vissuta, molto legati alla realtà. Ho letto tanto Irvine Welsh, amo il fatto che usasse gli stessi personaggi e gli stessi luoghi e creasse via via situazioni diverse, ho avuto una fissa per Bukowski, in cui a 20 anni mi rivedevo parecchio. Mi piacciono molto le biografie, tipo quella di Tyson. Nei libri cerco esperienze di vita e pensiero umano, anche la filosofia mi interessa molto. Della fiction pura non mi frega un granché.
Hai detto che un giorno potresti mollare il rap. Di scrivere potresti smettere?
Il motivo per cui volevo fare il cantante è sempre stato raccontarmi, sfogarmi. E allo stesso modo volevo fare successo per levarmi dalle sofferenze, che mi portavano a scrivere. L'ho sempre immaginato come un cerchio che si chiude, un percorso per crearsi un futuro: era l'unica cosa che avevo in mente, smettere di sopravvivere e fare una vita che mi faceva cagare. Quindi credevo che, una volta raggiunta la realizzazione, sarebbero venute meno le motivazioni che mi portavano a scrivere. Però in effetti non so se è davvero così: come il successo non è affatto come mi sarei aspettato, anche in questo caso i miei piani potrebbero essere del tutto sbagliati.
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L'articolo Massimo Pericolo: "Il successo è smettere di fare le cose che odi" di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2021-03-28 16:05:00
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