Le magliette dei CCCP e la fuga impossibile dal sistema

Lindo Ferretti e soci hanno lanciato la loro capsule collection, tra fan in visibilio e altrettanti sdegnati. Con Matteo Guarnaccia, storico della controcultura italiana, abbiamo provato a capire perché moda e musica non riescono a fare a meno l’una dell’altra per estendere significati e popolarità

Quanta meraviglia la notizia del lancio della capsule collection dei CCCP, inaugurata il 26 settembre: il gruppo punk di Giovanni Lindo Ferretti ha inchiostrato t-shirt, felpe, giacche e accessori con lo slogan Produci, Consuma, Crepa. Frase iconica e ancora attuale, che da Morire del 1986 spiega la bulimia malata dei prodotti e delle informazioni, la velocità, la superficialità, il tramonto degli ideali e delle ideologie, la dissolvenza della cultura e il lento progredire verso il nulla.

Proprio loro, che in passato cantavano i malanni del consumismo e di una società sottomessa alle leggi del mercato, oggi sfruttano Slam Jam per produrre, guadagnare e consumare degli abiti, nel tentativo di rievocare e rinnovare i simboli dell’underground più potente e influente dell’Italia degli anni ’80. E nel tentativo semplice – immagino – di guadagnare e nutrire la propria popolarità sfruttando un sano co-marketing musicale – come hanno fatto Fedez, Fabri Fibra, ElodieRkomi e altri – per coltivare ancora seguaci, apprezzamenti e riconoscimenti della propria arte.

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Niente di strano, io credo – ed è da ipocriti questionarci intorno: gli artisti hanno sempre completato il proprio stile musicale con l’abito e esteso attraverso il look i significati delle loro canzoni, per esprimere il loro essere e il loro modo di rapportarsi al mondo. Certamente in maniera più morbida, meno martellante – e, forse, meno duratura nel tempo? – di come può avvenire oggi con i social a disposizione.

Ne abbiamo parlato con Matteo Guarnaccia, personaggio storico della controcultura italiana tra editoria, design, moda e musica. Uno dei pochi artisti italiani presenti nel prestigioso volume Art of Modern Rock di Grushkin&King, ha pubblicato oltre trenta saggi sulle avanguardie storiche e sui movimenti creativi antagonisti. Uno dei suoi più grandi studi, riguarda il modo in cui il punk abbia influenzato la moda (e viceversa), durante i brillanti anni dei Sex Pistols e a partire da McLaren&Westwood a Londra.

Matteo Guarnaccia - foto di Joe Zattera via Wikipedia
Matteo Guarnaccia - foto di Joe Zattera via Wikipedia

Cosa ne pensi della collaborazione dei CCCP con Slam Jam?

La musica da sempre è uno dei grandi serbatoi di immaginario che la moda ha continuato e continuerà a sfruttare. Non c’è da meravigliarsi che, dopo essere stati per decenni testimonial inconsapevoli dei grandi marchi di moda, i musicisti in prima persona decidano di fare delle capsule collection e di vendere magliette e quant’altro. È la conferma che a sinistra del sistema c’è sempre quel sistema, e per quanto uno vorrebbe uscirne, alla fine si ritrovi immischiato nelle solite logiche mercantili. Il fatto stesso che i Rolling Stones – agli esordi ignari propulsori di un nuovo stile di vita che avevano stimolato un assoluto shock e corto circuito nell’ambiente della moda – abbiano aperto a settembre il loro negozio a Carnaby Street – in quello che era uno dei quartieri della Swinging London degli anni ’60 – per vendere, appunto, le loro magliette, non deve stupire. Fa parte di una commissione che ormai non è più sussurrata, non è più clandestina, ma è assolutamente aperta.

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Come e quando il punk è diventato moda?

Il punk è una delle prime subculture giovanili della storia a comprendere di poter "piazzare la bandierina su fenomeni musicali". Per quanto estrema, la coppia Vivienne Westwood & Malcolm McLaren ha reso moda il punk. In maniera eclatante, i due si sono impossessati del movimento punk e l’hanno lanciato e amplificato, rendendolo qualcosa di presente in tutti gli scaffali. Hanno trasformato uno stile di vita estremo in qualcosa di accessibile a tutti – il punk nasce a New York, sui corpi di artisti e artistoidi bohémien essenzialmente disagiati che si vestivano con abiti strappati e appuntati con delle spille, perché non avevano soldi per comprarsi vestiti nuovo –. Con il marchio della Westwood, tutto questo diventa parte integrante della moda. Da quel momento non sarà più possibile nascondersi dietro un dito e si renderanno evidenti tutte le implicazioni che la musica può avere sul sistema del fashion.

Oggi la moda su quale subcultura si fonda?

Ormai non c’è più il passaggio necessario dalla cosiddetta sottocultura, ma tutto diventa assolutamente vendibile e spendibile nel momento esastto in cui nasce. C’è un’attenzione spasmodica in tutto ciò che può essere nuovo nel campo dell’arte e della musica, come della moda, e non c’è più il filtro dell'attesa. Non è più necessario aspettare qualche anno per notare quei segnali, quei vestiti, quei tessuti anche nei grandi magazzini, ma è tutto immediato. Basti pensare a che cosa è la trap e cosa è stata, e al fatto che i marchi siano un fondamento stesso di questa sottocultura.

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Nel rapporto musica-moda, qual è la grossa differenza tra ieri e oggi?

In passato c’era una "camera di compensazione" più o meno lunga, durante la quale tutti i grandi musicisti – dai rockers estremi agli eleganti jazzisti americani –, venivano rincorsi dagli stilisti. Pronti ad afferrare il verbo estetico dei personaggi che popolavano e uscivano dal mondo della musica. Nel passato, immaginarsi che un rocker potesse diventare testimonial di una casa di moda, sarebbe stato assolutamente un sacrilegio. Immaginarsi un Mick Jagger o un John Lennon esporre, oltre ai messaggi di rivoluzione politca e sessuale,  degli oggetti di mercato, sarebbe stata una mossa scellerata. Anche se, ovviamente, all'inizio della Swinging London tutti (anche loro) si vestivano nelle boutique. Oggi, vedere alle sfilate dei musicisti – come nella recente sfilata a Milano di Ghali per Gucci – è la norma. Tuttavia, c’è una certa refrattarietà da parte degli stilisti a utilizzare subito, nel mercato, questi input.

Cosa rimarrà della moda di oggi, da qui a 20 anni? 

In generale continueranno a rimanere i capi iconici, da sfruttare in maniera infinita nei corsi dei decenni, perchè mantengono il loro peso dal punto di vista simbolico – dal chiodo ai pantaloni di velluto, per intenderci –. Queste cose resteranno, perché il loro valore simbolico va oltre al valore di mercato.

E cosa cambierà?

Da qui a 20 anni, sicuramente ci sarà un graduale ritorno al minimalismo. Per cui, ci sarà una rinuncia alla vistosità e all’appartenenza ai marchi e ai brand – che negli ultimi dieci anni hanno definito e caratterizzato certe culture e sottoculture. Dal rap all’hip hop, tutti hanno sentito il bisogno di mostrare al mondo, ai loro ascoltatori, ai loro fan e ai giornalisti il fatto di essere arrivati da qualche parte. E avere e mostrare un legame con Gucci, con Versace o con altri brand è stato parte integrante del processo di qualsiasi musicista. Tra 20 anni, mi immagino che ci saranno molti più artisti che vorranno nascondere questa contiguità con l'alta moda alta e si tornerà a un minimalismo nell’abbigliamento.

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L'articolo Le magliette dei CCCP e la fuga impossibile dal sistema di Claudia Mazziotta è apparso su Rockit.it il 2020-10-06 15:00:00

Tag: opinione

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