Ha introdotto l’autotune in Italia ed è stato il primo a sfatare il mito del rapper machista e sfornava album quando nel nostro Paese i termini trap ed itpop non erano ancora comparsi. Eppure da troppi anni è vittima di luoghi comuni: Mecna, il Drake italiano, il rapper delle ragazze, quello sempre depresso. E proprio per questo motivo dalla commistione con Sick Luke, forse il più importante interprete di questa nuova wave del genere, era lecito aspettarsi un album diverso, che veleggiasse tra le sonorità minimali che vanno tanto di moda oggi nello Stivale.
Nulla di più sbagliato. Anche grazie al fantastico lavoro di due musicisti d’eccezione (Valerio Bulla de I Cani e Alessandro Cianci), i due si sono mossi entro ambiti che non gli erano consoni, adottando soluzioni innovative, quantomeno inaspettate, per i fan che li seguono da anni. La visionarietà di Luke a servizio della penna intimista di Mecna, il produttore della band emblema della superficialità a braccetto con il rapper che ha fatto della "pesantezza" la propria cifra stilistica. Due mondi che, anche a livello di pubblico, sembrava impossibile potessero incrociarsi. Il risultato è “Neverland”, un lavoro ampio, ricco di influenze, un disco che sarebbe riduttivo etichettare entro i canoni dell’hip-hop. Abbiamo incontrato Corrado Grilli, questo il vero nome di Mecna, per farci raccontare la genesi di una delle più interessanti uscite di questo 2019.
Com’è nata l’idea di un disco con Sick Luke?
L’idea è arrivata da lui, ma il primo passo nei suoi confronti l’ho fatto io. L’ho contattato su Instagram per chiedergli se gli andava di mandarmi qualcosa. Probabilmente già mi conosceva, ma credo non avesse mai approfondito le mie canzoni. Nella prima cartella che mi ha inoltrato c’era il beat che poi sarebbe diventata “Akureyri”, l’unica canzone composta a distanza. Avevo immaginato potesse adeguarsi al mio stile, ma quello è stato il momento in cui entrambi abbiamo capito le potenzialità del progetto. Luke si è preso bene e mi ha invitato nel suo studio di Roma, e dal singolo all’ep alla fine siamo finiti per sfornare un quasi-concept.
Quale sarebbe il concept alla base di "Neverland"?
È un concept maturato col lavoro, non è stato stabilito a priori per dare una direzione all’album. Il titolo, che racchiude un po’ il significato del progetto, è stata un’idea di Luke, nata dopo che avevamo già composto il pezzo omonimo. Inizialmente mi opposi, flebilmente, perché non avevo mai chiamato un mio album con il titolo di una canzone e volevo mantenere quella continuità. Ma “Neverland” ha avuto senso fin da subito: l’idea dell’isola che non c’è, di qualcosa d’impalpabile, che però avevamo appena compiuto. La copertina è venuta da sé, come un quadro, come i versi di una canzone. Ogni ascoltatore in base alla propria esperienza, al proprio momento, la interpreterà secondo la visione che gli è più consona. La nostra ovviamente è quella del dualismo, rivolgersi alla realtà con un’altra prospettiva. Io attraverso gli occhi di Luke, lui con i miei. Ecco il concept compositivo di quest’album.
Oltre a Sick Luke, sono presenti un paio di musicisti, il risultato è un disco molto più suonato rispetto ai tuoi precedenti lavori. Avevi mai lavorato con una “band”?
Il lavoro è stato a tutti gli effetti quello di una band. Quando ci siamo trovati a Roma, per puro caso, io mi ero portato Cianci, musicista che collabora con me ormai da tempo, e con Luke c’era Bulla, che conoscevo di nome, ma non avevo mai incontrato. Valerio è il chitarrista de I cani: è un grafico, siamo due persone molto simili anche se apparteniamo a due ambiti diversi. Io e Luke eravamo i due “rappusi”, loro quelli indie. Questa cosa ci ha gasato, specialmente Luke, che forse non si era mai approcciato alle sue produzioni con dei musicisti. Il team si è consolidato fin dal primo giorno, abbiamo lavorato all’intero album sempre insieme. Ci mandavamo i provini sul gruppo WhatsApp, l’opinione di ognuno legittimava quella dell’altro: “Neverland” è nato da un grande scambio d’idee.
In un certo senso è anche il tuo primo vero disco non-solista e alcune canzoni come “Perdo la testa”, “Se apro gli occhi”, “Si baciano tutti” lasciano trasparire una certa positività. Lavorare con un team ha fatto emergere un Corrado diverso anche in questo senso?
In studio sono uscite delle idee, degli spunti, ma per quanto riguarda la fase di scrittura ho continuato a fare tutto da solo: è il mio modus operandi. Ma, ora che mi ci fai pensare, forse anche sotto quest’aspetto c’è stata un’evoluzione, un’uscita dalla mia confort zone: in fondo essere “preso male” è quel che mi riesce bene.
La title track a me ha fatto quell’effetto che chiamo “alla Strokes”, dove un sound allegro spesso non è altro che un pretesto per farti cantare testi tristi.
Proprio l’altro giorno con Luke parlavamo di quanto queste componenti fossero bilanciate all’interno dell’album. Insieme ad “Akureyri”, nella prima cartella erano contenuti i beat di “Non dormo mai” e “Neverland”. Quella cantilena mi è rimasta subito in testa: prima di andare a Roma gli prenotai la base, che aveva un sound cloudy che ricordava quello del disco di Marina. È una presa male di facciata, sono un po’ vittima di luoghi comuni. Il pezzo chiamato “:(”, ad esempio, funziona secondo il principio opposto: ad un beat molto triste corrisponde un testo molto positivo. Ultimamente nella mia musica sto svolgendo una grande ricerca sui contrasti, ed è uno dei motivi che mi ha spinto a collaborare con Luke.
In “Canzone in lacrime” pronunci questa frase: “non fare un disco se non sei stai soffrendo”. Era un’affermazione ironica o soffri realmente del "complesso di Tenco"?
Un po’ è vero. Nel senso che quando scrivo non sto per forza soffrendo, ma cerco sempre la mia dimensione. Penso di essere affetto da una "sindrome di Tenco", ma non in una versione così pericolosa, così drastica. Un po’ quel pezzo si apre come se fossero altri a parlare, tratta del mio rapporto col pubblico e con la scena rap in generale. Ed effettivamente, quel che vuole il pubblico dal sottoscritto è ascoltare canzoni tristi. C’è chi aspetta i miei concerti per piangere. Li capisco, anche a me capita nei confronti di altri artisti. Il mio pubblico vuole vedermi soffrire.
Uno degli aspetti che mi ha sempre colpito di te è l’eterogeneità del pubblico ai tuoi live. Ok, ci sono un sacco di ragazze, ma anche ragazzini fan della trap, hipsteroni, vecchi rapper con i baggy jeans. Pensi che questo tuo essere trasversale abbia influito positivamente sulla tua musica, ma negativamente sui tuoi numeri?
Sui numeri sicuramente, ma del resto non è la mia ambizione. Ieri un ragazzino mi ha scritto complimentandosi per le basi e per il contenuto dei testi, “non parli nemmeno di droga e troie”. È bello, certo immagino possa essere spiazzante per il fan medio di Luke approcciarsi a queste canzoni, ma credo sia stimolante evadere dai soliti canoni. Per questo mi sono trovato bene con Luke: oltre la patina del trapper c’è un ragazzo normale, un appassionato di musica, un cultore. Un artista veramente dedito al lavoro. Luke non si perde in cazzate, in questo è molto simile a me, ma non potevo saperlo prima di conoscerlo. L’eterogeneità del mio pubblico forse rispecchia l’eterogeneità delle mie influenze. Mi piace essere trasversale, nei mie dischi c’è sempre stata contaminazione.
Hai praticamente introdotto l’autotune in Italia, e hai smontato il cliché del rapper sessista, visto che le ragazze ti ascoltavano prima di conoscere Coez. In “Fuori dalla città” pronunci questa frase: “Io più che un rapper sono particolare”. Ti senti un precursore dei generi, un anello di congiunzione tra la vecchia e la nuova scuola?
Non voglio avere la presunzione di ammetterlo, però un po’ è vero. Quando era uscito “Disco Inverno” bazzicavo molto con Ghemon, già ai tempi mi ricordo che ci confrontavamo molto su questa nostra difficoltà, del fatto che nel rap non si potevano trattare tematiche che oggi sono super consolidate. Mi riferisco proprio a un mood, un’attitudine compositiva ormai comune. Io non ho mai fatto gangsta rap, perché non sarei stato credibile; allo stesso tempo non mi sono mai rispecchiato nella figura tipo del rapper macho. Francamente non penso di far musica da sfigati, non mi sento sfigato, ma volevo emergere come figura di rapper più umano. Sono un ragazzo normale, uno che può andare sotto per una ragazza. E poi ho sempre ricercato la libertà d’espressione, sul piano compositivo come su quello musicale. Forse quest’aura della sfiga mi è rimasta addosso perché sono stato fra i primi a trattare questi temi in Italia. Succede anche oggi, ma il successo di tanti interpreti non delegittima più gli “haters”. Del resto vale anche per l’autotune. Spesso chi sta molto più attento alle parole che al sound non se ne rendeva nemmeno conto.
In “Akureyri" sono campionati i Flaming Lips. Cosa ascolti ultimamente?
È brutto da ammettere, ma negli ultimi anni i dischi che mi colpiscono sono sempre più rari. Io ho la voglia di fare dischi, ma, a livello di ascolti, sono fermo. In studio è stato bello perché avevamo tutti delle reference molto simili, pur con gusti e proveniendo da mondi differenti. Con Cianci ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda: lui è di Foggia e quando ci siamo rincontrati a Milano mi parlò di “Take Care” di Drake, che era appena uscito e ai tempi non era sicuramente così conosciuto in Italia. Ognuno pensa nel privato di avere le proprie chicche, invece Luke conosceva un artista simile a Frank Ocean scritturato da un’etichetta giapponese, che pensavo di conoscere solo io. È stato fico perché abbiamo capito di essere quattro nerd della musica. Luke ha detto che le reference di quest’album sono i Nirvana, Bob Sinclair e Kanye West.
I featuring, invece?
Non volevamo inondare "Neverland" di featuring perché, anche se fondamentalmente canto solo io, era già un disco collaborativo. Non amo i dischi pieni di featuring, spesso si finisce per snaturarne il messaggio, ci sono dischi con 10 feat su 10 pezzi, ma forse è un problema mio che ho un metodo di scrittura troppo personale. Tedua e Luchè erano gli ultimi due rapper con i quali avevo voglia veramente voglia di collaborare tra quelli con cui non avevo mai composto nulla. Generic Animal è un amico e il suo disco è uno dei più belli degli ultimi anni. Coco, si sa, è uno dei miei rapper preferiti. La title track è stata un’idea di Luke, senza di lui non avrei mai fatto una cosa del genere. Avevamo un pezzo che suonava bene ma al quale serviva una svolta, volevamo fare un lavoro con gente che ci piacesse al di fuori dei numeri, gente che ancora non era uscita con un album ufficiale.
Immagino te l’abbiamo già chiesto in tanti, ma quella di “Akureyri” è una palese autocit?
Sì, si spiega da sola. Ma effettivamente da quell’ultimo giorno di agosto non ho più indossato Vans. Mi fanno male ai talloni...
Perché continui a fare il grafico? Non sei capace di vivere la vita del rapper?
Ho bisogno di stare attivo, di isolarmi da quel micro mondo, specialmente in periodi come questo. La gente per strada, i social, mi riconoscono come rapper, non come grafico. È facile perdersi, io cerco sempre di mantenere un profilo basso. Non che mi creda chissà chi, ma non la vedo così strana, e spesso mi chiedo cosa facciamo gli altri rapper durante la giornata. Fare grafica mi piace come fare la musica, è un lavoro a tutti gli effetti, ma anche una passione. Mi piace andare dalle etichette per parlare di grafica, stare dietro le quinte, trattare i numeri e tutti gli aspetti non artistici di un progetto. Per la mia personalità stare dietro le quinte è un ruolo molto più consono, forse mi serve per controbilanciare l’esposizione di Mecna. Ho iniziato grafica perché già facevo musica, mi sono detto “wow, così mi faccio la copertina dell’album, madò che ficata”. Sì, probabilmente non so vivere la vita da rapper.
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L'articolo Mecna: "La gente vuole sentirmi soffrire" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2019-10-23 16:00:00
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