Mellow Mood - Che cosa significa fare reggae oggi?

L'appropriazione culturale, l'artigianato musicale, le bestemmie dei friuliani, la Jamaica: i Mellow Mood

Tutte le foto sono di Cara Robbins
Tutte le foto sono di Cara Robbins

Incontro i gemelli Garzia la mattina del loro trentesimo compleanno. È un giorno di festa, ma anche di bilanci e ripartenze. Il senso di riflessione che l'età porta con sé dona a questa nuova fase dei Mellow Mood - sicuramente la più importante band raggae d'Italia e forse anche d'Europa – una complessa profondità. Jacopo e Lorenzo – qui chiamati a rappresentare Giulio e gli altri compagni di viaggio – sono in piena promozione del loro ultimo disco “Large”, da lì a poco partiranno per un intenso tour mondiale che li vede tutt'oggi a spasso per il globo. Eppure risuona più forte che mai una campana d'allarme su temi come identità e appropriazione culturale. Che cosa significa fare reggae al giorno d'oggi? Di questo e altro parleremo. Il mood è in generale assolutamente sereno e positivo, c'è energia nell'aria; dopo gli abbracci iniziali, un caffè e un sorso di acqua frizzante comunico loro di avere acceso il registratore. A quel punto inizia un irripetibile e divertentissimo turpiloquio che si conclude nella prima domanda, che mi viene inaspettatamente fatta da loro: “possiamo partire con una bestemmia?” Maledetti benedetti friulani... Ridiamo.

Si bestemmia nel rastafarianesimo?
Jacopo: Direi proprio di no, sono peggio dei cattolici da quel punto di vista.
Lorenzo: Un giorno, in Jamaica, Juba Lion (leggenda della musica jamaicana che ha più volte collaborato con Mellow Mood e Paolo Baldini, recentemente scomparso, ndr) disse “Rastafari” ruttando. Lo guardammo perplessi, pensando fosse una roba brutta. Ripensandoci, potrebbe non essere affatto maleducazione: ho mangiato, ho digerito, ringrazio così.

Avendo avuto una formazione cattolica, per me la bestemmia è il superamento dell'adolescenza, l'affermazione della propria personalità.
J: In Friuli, terra di contadini, la bestemmia è una roba seria. Se ti rivolgi a Dio, è perché ce l'hai con lui in quel momento. Ti racconto un aneddoto. Il nonno del nostro sassofonista lavorava nei campi. Un giorno inizia a grandinare forte, così in preda alla rabbia e allo sconforto entra in casa, prende il crocifisso dal muro e lo lancia dalla finestra dicendo: “te', ciapa anca ti” (prendine anche tu). (Ridiamo, ndr) È quasi una relazione personale.

Papa Francesco ha detto che i bestemmiatori vanno capiti, perché bestemmiando comunque affermano l'esistenza di Dio.
J: Il senso è quello. Quel tipo di bestemmia friulana è solitamente pronunciata da credenti.

Qual è il vostro legame con il Friuli?
L: Abbiamo fatto le elementari in un paesino che si chiama San Paolo al Tagliamento, in campagna. Era una scuola a tempo pieno pazzesca: ci insegnavano a cucire, a intagliare il legno. Ci facevamo i peluche da soli, ci portavano a mungere le vacche. Siamo addirittura andati in tour, alle elementari, abbiamo fatto un paio di spettacoli in centro Italia con i vestiti tradizionali friulani. La maggior parte dei nostri compagni era gente che veniva accompagnata a scuola con il trattore. Giocavamo a giochi tradizionali, i nostri insegnanti parlavano tutti friulano. A ricreazione i bambini giocavano alla trebbiatura. Avevamo l'ora di musica, un sacco di strumenti. Penso che tutto sia nato lì. Bada bene che non era una scuola “leghista” vecchia maniera, era semplicemente così. Era la cosa più friulana del mondo, in senso buono e autentico, e siamo finiti a fare reggae.

Che cos'era il reggae per voi all'inizio?
L: Abbiamo iniziato a fare questa musica in maniera totalmente inconsapevole. Abbiamo ascoltato Bob Marley e abbiamo detto “vogliamo essere come lui”. Stop. Non sapevamo cosa volesse dire prendere in prestito una cultura. Ormai nel mondo contemporaneo ti costruisci la tua identità mescolando cose che arrivano da diverse parti del mondo. Da un certo punto di vista noi siamo proprio un prodotto della globalizzazione. Ci sforziamo al massimo per fare questa musica al meglio, e dare messaggi che a volte neanche i jamaicani danno.



(a proposito di identità: due gemelli portoghesi coverizzano i Mellow Mood imitando l'accento a sua volta imitato altrove. E' tutto bellissimo)

Ricordo perfettamente la prima volta che ho sentito parlare di voi. Fu Davide Toffolo a dirmi: io sono sempre stato scettico sulle band italiane che cantano in inglese; per loro e la loro generazione è diverso: è naturale. L'inglese oggi è una delle tante chiavi del mondo in cui viviamo, semplice.
J: Noi siamo cresciuti in una famiglia in cui si ascoltava cantautorato italiano. Ma guardaci: all'occhio di un italiano che crede ai valori del riconoscimento superficiale, io cosa rappresento?
L: Siamo un prodotto della globalizzazione. Il nostro è un problema interiore. Ti ritrovi un giorno che sei musicista esposto alla scena internazionale, fai una musica di altri in una lingua di altri. In un momento in cui si parla di crisi di identità, di integrità e di saccheggio delle culture, non c'è niente di più moderno e attuale di questo. Noi ci siamo in mezzo.

Problematizzate l'appropriazione culturale. Non è giusto eticamente fare reggae?
L: Se non saccheggi una cultura, la stai rispettando. Ci sono alcuni musicisti jamaicani a cui non va bene questa cosa, anche se per molti di loro è ormai fatto accettato che il reggae sia divenuto fenomeno globale. Per molti però la musica equivale a mangiare. Bisogna sapere che le persone che ci hanno fatto innamorare di quella musica hanno dei problemi. Pur non togliendo lavoro a nessuno, anzi spingendo la musica reggae nel mondo, bisogna sapere chi siamo in questa industria. Un musicista italiano che fa musica in italiano è automaticamente risolto, giustificato. Per noi invece è importante affrontare questo argomento.

Apprezzo la vostra sensibilità nei confronti della faccenda. Però correte il rischio di essere più jamaicani dei jamaicani stessi. Magari, da qualche parte, c'è un jamaicano che fa pop giapponese o country americano.
J: È diverso. Stiamo parlando di un'isola saccheggiata, per metà comprata dai cinesi e per l'altra metà dagli americani. Condizioni di vita da terzo mondo. Il paragone non regge in questi termini.

Avete bisogno che qualcuno approvi la vostra identità musicale.
J: Da musicisti reggae abbiamo l'esigenza di essere accettati dalla Jamaica. Ogni qual volta la riceviamo, ci sentiamo a posto con la nostra coscienza.

Siete, in qualche maniera, migranti musicali.
L: È una camera di specchi. All'inizio qui si manteneva l'identità territoriale della musica: gli Africa Unite cantavano in italiano, i Sud Sound System in salentino e i Pitura Freska in veneziano. Dopo Alborosie, che però viveva già in Jamaica da dieci anni, siamo stati fra i primi a cantare in inglese in maniera credibile. Dopo di noi, o forse contemporaneamente, tutti hanno iniziato a farlo in inglese. Da un certo punto di vista mi sento un po' responsabile di questa cosa; mi fa sentire un po' male non cantare in italiano, ma non sono capace di scrivere nella mia lingua.

È un tema che riguarda molto chi fa musica, meno l'ascoltatore.
L: Pensaci bene. È un tema super contemporaneo. È lo stesso discorso degli italiani che sono buddisti, o induisti.

Il vostro è un discorso su identità e tradizione. Che cosa intendete esattamente?
J: La tradizione subisce un processo, è una pianta annaffiata continuamente, ma ha radici; bisogna capire da dove arrivano quelle radici. L'identità invece non la scegli. Io sono italiano, orgoglioso di esserlo, ma non l'ho scelto, non posso decidere di non esserlo. Dentro il termine identità ci sono le parole “provenienza”, “cultura”, “origini”. Per questo il problema del mondo globalizzato è che è fondato sul mito dell'uomo globale, che non può funzionare. Se sradichi la gente dai propri posti, dalla propria identità, ci sono dei problemi. Per esempio le seconde e terze generazioni che non si sentono parte del mondo in cui vivono. Se sono nato a Parigi ma figlio di algerini, sono sì francese ma ho anche altre radici: prima o poi quella cosa lì emerge.

Qual è la canzone di "Large" in cui avete maggiormente affrontato il tema?
J: “Place called home”, la canzone che chiude il disco. La ricerca di un “posto chiamato casa” ha a che fare con l'identità.

Gran parte della letteratura italiana del secondo Novecento è stata influenzata dalla letteratura americana. Per non parlare della musica. Non c'è niente di chiuso. L'arte ci insegna che il mondo è più liquido di quanto pensiamo.
J: L'identità è un territorio complessissimo, si fa in fretta a sbagliare. Nel momento in cui varie culture si mescolano in maniera libera nell'arte, quella è una cosa positiva. Il problema è che stiamo assistendo a mescolanze forzate dalle leggi del mercato. Qui non si tratta di libero arbitrio o curiosità, ma di economia e politica. Se masse di persone di diversa provenienza volessero mischiarsi per la voglia di farlo, bene, ma non credo sia possibile né che sarebbe necessariamente una cosa buona se succedesse.

 

Cambiando argomento. Siete effettivamente sulla strada, un po' come la frase che ha aperto il disco: “after all, we're still on the road”.
J: Ci piace proclamare un'intenzione con atteggiamento pomposo. Ci crediamo molto. Siamo stati fermi tanto, quasi un anno. Siamo tornati con un prodotto di un alto livello. Volevamo gasare tutti perché siamo gasati anche voi.

Per questo disco avete ancora una volta investito su voi stessi, senza delegare ad altri.
L: Molto dipende dal genere di musica che facciamo. Il reggae non riceve finanziamenti pubblici o una grossa esposizione mediatica, quindi bisogna necessariamente fare di necessità virtù. Nel passato siamo stati “corteggiati” da major, ma abbiamo preferito fare da soli perché le sovrastrutture non conoscono il nostro mondo e dunque non sanno lavorarci bene. Con questo disco ci siamo detti: facciamo le cose con calma, investiamo su copertina e uffici stampa, cose che non avevamo mai fatto. Sta funzionando!

La cosa che mi piace del vostro atteggiamento è che cercate di arrivare al top, ma solo con le vostre gambe.
J: Siamo un team, una squadra, dunque ci dividiamo i compiti. Ognuno di noi regge la sua fetta di relazioni con il mondo esterno. In più, tutti i nostri dischi noi li abbiamo sempre fatti con Paolo Baldini, a partire dal primo registrato nella sua cucina. Fin dall'inizio a Paolo era molto chiaro che sia giusto fare le cose con i mezzi che si hanno. È una filosofia della decrescita. Il nostro è uno dei mestieri più inquinanti del mondo, questa è la nostra etica lavorativa.

Avete appena compiuto trent'anni. Come vi immaginate tra trenta?
J: Sarebbe anche giusto smettere se uno vuole, ma soprattutto se uno può. Non è sempre scontato. Nella mia vita la musica è importante, ma sono consapevole del fatto che ci sono molte altre cose. Spero di avere una famiglia. Spero di saper leggere il mondo. Spero di aver accumulato ricchezza e studio in modo da sapere leggere il mondo. Dal punto di vista artistico, spero di avere ancora qualche cartuccia da sparare.
L: Mi sa che ci toccherà fare concerti fino alla fine dei nostri giorni. Fra le tante cose dette da Alborosie, ce n'è una che è vera, che all'inizio non capivo ma ora si: della musica, dei suoi impegni anche un po' futili, poi diventi schiavo; ti dà una vita, ma te la toglie anche.

Ora che siete anziani, mandate un messaggio ai giovani.
(Ridono, NdR) J: Oggi sembra facile, con internet e i talent, fare musica e svoltare. Non è così. Questo non è un mestiere per tutti, è dura. Noi, che siamo un gruppo autoprodotto, facciamo tutto da soli. Quando siamo a casa a volte è come stare in ufficio – magari devi stare sveglio fino alle cinque per aspettare il fuso orario americano e rispondere ad una mail importante. Io però credo che se ti piace fare una cosa, nessuno la farà meglio di te.

Artigianato. Essere padroni del proprio lavoro.
J: Esatto. Quando incastro due date di fila, godo.

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L'articolo Mellow Mood - Che cosa significa fare reggae oggi? di Carlo Pastore è apparso su Rockit.it il 2018-07-17 12:55:00

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