Le luci della centrale elettrica - Milano, 27-09-2007

(Luci della centrale elettrica e Giorgio Canali - Foto di Manuel Vignati)

Il suo demo è stato uno dei dischi che più ci ha stupito quest'anno ed ora le attese sul suo primo album - prodotto da Giorgio Canali - sono alte. Marco Villa ha intervistato Le luci della centrale elettrica: si parla di anni zero, di individualismo sfrenato, di centro, di periferia, di canzoni.



La caratteristica principale del tuo demo (e forse il suo pregio maggiore) mi sembra l’urgenza comunicativa, il fatto che si percepisca che è stato letteralmente tirato fuori da dentro. In quanto tempo l’hai fatto? Da dove arriva?
Il demo è stato registrato in due giorni con un mio amico: le chitarre il primo giorno, la voce il secondo. Otto tracce registrate in un colpo… adesso non sarei in grado, canto due pezzi da registrare e sono fuori. Le canzoni le avevo già, perché è da un po’ che sono dietro a questa cosa. Sono venute fuori pian pianino, anche grazie a dischi che mi hanno fatto venire voglia di scrivere: in particolare “Closet meraviglia” di Cesare Basile e “Fiducia nel nulla migliore” di Moltheni. Ho iniziato a scrivere qualche pezzo e a suonarli in camera mia, senza nemmeno pensare al poterli fare fuori. Poi li ho fatti sentire a Samboela che è un mio amico che lavora in uno studio di registrazione (il Natural Head Quarter di Ferrara): mi ha detto che ci potevano stare e di provare a registrarli. Abbiamo registrato quattro canzoni, che però non mi hanno convinto e che quindi ho tenuto da parte. Questo è successo più o meno due anni fa, poi sempre Samboela mi ha spronato e io ho iniziato a suonare davvero: lavoravo la sera in un bar e di giorno suonavo fino alle sei. I pezzi sono venuti fuori con un lavoro di artigianato, nel senso che io non la vedo come una questione romantica, anche perché non credo molto nell’individualità di chi scrive o canta: a seconda della situazione del momento si è sempre una voce del contesto in cui si vive. Il nome Le luci della centrale elettrica l’ho scelto anche perché non me la sentivo di usare il mio nome per parlare di storie di altre persone, che vengono fuori da quello che ho intorno.

In realtà quello che canti sembra essere fortemente privato.
Questo perché comunque, come tutti, sono spinto verso un individualismo sfrenato, rappresentato molto bene da una frase di un libro di Babsi Jones uscito da poco: «Che guerra combatti tu?» «La mia» (il libro è Sappiano le mie parole di sangue, Rizzoli, NdI). C’è quindi tanta individualità, che non permette di vedere che in fondo stiamo vivendo le stesse cose. Ho scelto un nome collettivo, ma in realtà sono da solo, faccio le cose da solo, vado da solo a prendere i treni per andare a fare i concerti e passo da solo la maggior parte delle mie giornate. E questa è una cosa che un po’ mi spaventa: pur avendo una coscienza collettiva e sociale almeno minimamente sviluppata, mi rendo conto che il privato e l’individuo sono diventati il mondo, così quando devo cambiare la mia vita mi sembra di stare cambiando il mondo. Forse viviamo più dentro noi stessi, dentro città interiori che sorgono tra la bocca dello stomaco e la trachea che non nelle nostre città fisiche. In realtà la nostra mente malaticcia è più abitata e densamente popolata di certi quartieri di notte. Ormai la nostra interiorità è così affollata che abitiamo soprattutto dentro di noi e dentro alle nostre teste.

Un elemento presente nei tuoi pezzi in modo sotterraneo, e quindi realistico, è la televisione, soggetto che ti accomuna a Giorgio Canali, con il quale stai peraltro registrando il tuo disco.
La televisione penso sia imprescindibile. Sto facendo il disco con Canali e sento un problema riguardo certe parole che non sono riuscito a mettere dentro, ad esempio “centro sociale” o “extracomunitario”, perché voglio che anche il disco sia una piccola città. Il disco deve avere un centro, una periferia, le sue vetrine e le sue finestre. La televisione l’ho messa dentro perché è l'elettrodomestico più importante di quasi tutte le case, ma ho cercato di evitare l’attacco frontale. Semplicemente parlo della televisione prendendo atto che è parte integrante della cosiddetta realtà. In generale cerco di non sparare giudizi su tutto e tutti: quello che voglio dire deve uscire più dal generale, dalle fotografie, dal guardarsi dentro che non dal dare giudizi, anche perché cambio idee ogni due secondi su qualsiasi cosa. Il parallelo con Canali senz’altro c’è: io l’ho ascoltato tantissimo, soprattutto il primo disco, “Che fine ha fatto Lazlotoz?”, che ha dei testi bellissimi e che quando è uscito ho letteralmente consumato.

Come sta andando la registrazione del disco?
Per me è incredibile vedere Canali tutti i giorni, con lui mi trovo benissimo. È una persona con un entusiasmo pazzesco e ha la capacità di trasformare in poesia anche la frase “Il fumo uccide” del suo pacchetto di sigarette. Poi quando ci sono le aperture dei pezzi e inizio a urlare si mette ad esultare tirando bestemmie di tutti i tipi… e questo mi riempie di gioia. Penso che sia la persona più adatta sul pianeta a produrre qualcosa di mio, e il bello è che si è offerto lui in modo totalmente gratuito. È una delle cose belle che mi sono capitate per caso. Per dire, io ho iniziato a suonare in giro dopo che a Bologna ho incontrato alla Feltrinelli Moltheni: gli ho dato il demo e due giorni dopo, il giorno del mio compleanno come nei telefilm, tornando da un concerto strepitoso di Massimo Zamboni, ho trovato la sua mail in cui mi diceva che il demo gli era piaciuto e mi chiedeva di aprire qualche sua data. Questo è stato il primo febbraio: ho iniziato ad aprire i suoi concerti e l’essere da solo sul palco è stato una cosa importante, diversa dallo stare nel gruppo. Perché se sei da solo non puoi stare lì ad occhieggiare con gli altri della band, suonando qualcosa di lontano da chi ti sta ascoltando. Io ho suonato per due anni lavorando in un bar e stando con gente che non suonava e che non c’entrava niente con il mondo della musica e sono convinto che questa cosa sia stata importantissima.

Hai citato Canali e Zamboni, non si può non arrivare a parlare del Consorzio Produttori Indipendenti...
Beh sì, insieme ai cantautori storici, soprattutto De André, De Gregori e Battisti, sono forse tra le influenze più forti. A CCCP e C.S.I sono arrivato più tardi: provavo ad ascoltarli a quindici anni ma facevo veramente fatica, mentre poi ci ho trovato una ricchezza che mi permette di ascoltarli miliardi di volte. Sono senza dubbio una delle cose più importanti che ci sono state in Italia, i CCCP soprattutto sarebbero tuttora attuali. Io provo a riprendere la loro idea di mettere la provincia al centro: “non a Berlino, non a New York ma a Carpi, a Reggio, a Sassuolo”. Erano profondi e coraggiosi, molto ma molto più di quanto riesca ad esserlo io.

I tuoi pezzi non sono facili. Come vengono percepiti dal pubblico?
Mi dispiace quando mi dicono che i miei pezzi sono tristi, perché non credo che lo siano: credo che abbiano una disperazione che nasce dall’insofferenza, che è un motore propulsivo per cambiare le cose, per rivoluzionarsi e per rivoluzionare i propri rapporti. Certo, ci sono delle paranoie, ma sono delle reazioni a quello che c’è di fondo, di contesto: è un raccontare gli anni zero, gli anni che stiamo vivendo. Io sto cercando semplicemente di dire che stiamo trovando un’anima ai cavalcavia, ai posti orrendi.

Credo che sia proprio qui la forza di quello che scrivi e canti: il fatto di cercare nuovi schemi interpretativi, ma senza voler mitizzare nulla. Parli della provincia, ma non la attacchi né la esalti, dici semplicemente: “è così”, punto e basta.
Sì, credo che sia importante questo discorso sulla provincia, perché la maggior parte della gente al mondo vive in provincia o in una grande periferia… pensandoci bene, la provincia sarebbe quindi una specie di centro al contrario. Poi secondo me è inutile mettersi a mitizzare gli anni settanta, ottanta o novanta, dobbiamo provare a guardarci intorno e iniziare a goderci quello che abbiamo adesso, rapportandolo con quello che abbiamo dentro. Dobbiamo prendere le cose buone che abbiamo, dobbiamo farlo noi che abbiamo la possibilità di scegliere e di farci vedere, ad esempio con internet, che è una cosa enorme. Io non ho malinconie bucoliche per i prati verdi: noi non li abbiamo mai visti, è un ricordo che abbiamo ereditato ma di cui non sappiamo un cazzo. Io ho in mente una vignetta che vorrei mettere nel disco, in cui due ragazzi un po’ sfattoni sono sotto un cielo stellato bellissimo e lei dice a lui: “andiamo a vedere le luci della centrale elettrica”, che è poi anche il modo in cui è nato il nome. Questo è quello che abbiamo noi e dobbiamo prenderlo nel nostro modo.

Tu ti definiresti un cantautore? Cosa vuol dire oggi essere un cantautore?
Non lo so. Boh. Una specie. A me sono sempre piaciute le canzoni che parlano delle cose che succedono, che descrivono qualcosa, che rappresentano anche involontariamente qualcuno. Non sopporto sentire gruppi che mentre suonano e cantano l'unica cosa di cui sembrano parlare sono le loro palesi influenze musicali. Non trovo che tra loro e le cover band o le tribute band ci siano delle grosse differenze. Forse è un cantautore chi non si limita a metterci le parole solo perché nelle canzoni ci vogliono le parole. In questo senso essere un cantautore oggi significa scrivere dei pezzi influenzati da quello che ci succede attorno più che dalle più recenti o più remote uscite discografiche. Dal fatto che stanno piovendo fogli di via dai cieli, che stanno deportando della gente che non ha fatto niente, che praticamente tutti i nostri coetanei siano precari e sfruttati e lavorano tutti i giorni per finti stage da neanche trecento euro al mese, altro che in Cina, e dei poliziotti armati anche nei supermercati e impreparati e poi processati con tutti gli onori, degli affitti che non ci possiamo permettere, dalle facciate brutte degli edifici e miliardi di altre questioni che comunque se non ci cambiano direttamente la vita la cambiano a qualcuno che ci è vicino. In questo senso anche i Fluxus o Il Teatro degli Orrori o praticamente tutti i gruppi punk-hc italiani dei primi anni ottanta potrebbero essere definiti dei gruppi cantautorali. Che ci sono ancora delle cose da dire ma non importa essere politicizzati che questo modo di dire fa ribrezzo a tutti, anche perché si confonde la politica con la partitica. È solo che se non diamo fastidio noi che siamo i cosiddetti gruppi indipendenti (e praticamente siamo tutti indipendenti più per sfiga che per scelta), chi cazzo lo deve fare? Io non me la sento di canticchiare che quest'estate son andato al mare o cose così.

Tornando alle canzoni, rispetto al demo, cosa sarà il disco?
Del demo mi piacevano soltanto le parole e neanche tutte, poi dallo studio è uscito quello e quello mi va bene. Però il disco ha qualcosa in più, interventi secondari ma che aiutano le parole a creare un’atmosfera intorno, un supporto su cui appoggiare i significati. Ad ogni modo resterà molto semplice e sarà intorno ai dieci pezzi. Metà sono del demo, rivisitati ma non troppo perché comunque, e qui mi contraddico, non me la sentivo di abbandonarlo e poi perché sono molto lento a fare i pezzi e non mi andava di mettermi a fare qualcosa di fretta.

Hai già avuto contatti con qualche etichetta?
Vorrei puntualizzare una cosa: a fronte di critiche positive, se non fosse stato non per un’etichetta o un’agenzia, ma per Moltheni in persona, che mi ha chiesto di aprire senza neanche chiederlo alla sua agenzia, non avrei mai cominciato a suonare e sarei rimasto a Ferrara come uno stronzo. Nonostante avessi iniziato a girare con lui, nessuno si è interessato a me finché Giorgio Canali non ha deciso di fare gratis questa cosa che non si sa con chi uscirà perché nessuno si è ancora fatto sentire. Per tornare all’etichetta, ora ci guarderò, ma sono convinto che molte etichette lavorino talmente male che non so se abbia senso contattarle. Non vedo cosa possano fare: le date non te le organizzano, l’ufficio stampa fa poco… anche perché non girano soldi… e allora perché dovrei andare da un’etichetta, consegnare un disco già fatto, con registrazioni già pagate e in più dover pagare sei euro a cd per poterli vendere ai concerti? Non mi va, piuttosto mi invento mille euro da qualche parte e mi stampo io le copie. Io credo che in Italia abbiamo una scena di altissimo livello umano e qualitativo, ma che non riesce ad avere alle spalle un’imprenditoria musicale capace di gestirla.

Curiosità finale: il pezzo di Vian che chiude “Fare i camerieri” lo farà Canali in francese?
Stavamo parlando proprio ieri di questa cosa, ma lui diceva che metterci Vian è prevedibile e sarebbe molto meglio metterci un manuale di istruzioni di un aspirapolvere in francese… penso che faremo qualcosa di questo tipo e spero che la faccia lui.

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L'articolo Le luci della centrale elettrica - Milano, 27-09-2007 di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2007-11-26 00:00:00

COMMENTI (1)

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  • nelik 7 anni fa Rispondi

    Bellissimo (ri)leggere questa intervista dieci anni dopo, vedere come e da dove é partito, in cosa é sfociato il primo disco e dove é arrivato adesso... grande Vasco !