(No Joy Rev II, di Scarful)
Ridendo e scherzando gli Zu hanno raggiunto il loro primo decennio di vita e lo festeggiano con "Carboniferous" - pubblicato dalla Ipecac di Mike Patton e con la prestigiosa collaborazione di King Buzzo dei Melvins - ultimo capitolo di una saga lunga quindici album. I trio ha importato in Italia un genere - il jazz punk acrobatico lo definivano agli esordi – lo ha fatto proprio, lo ha condiviso con molte delle menti più importanti della musica sperimentale mondiale, l'ha fatto diventare sinonimo di attitudine DIY, estetica del lavoro e abnegazione completa. E nonostante gli anni si facciano sentire, non esiste ancora nessuno che può permettersi di spaccargli il culo e prendere il loro posto. E un po' dispiace. In occasione del concerto benefit per il Cox 18 di Milano - suonavano insieme al Teatro Degli Orrori e ai Bachi da Pietra - abbiamo incontrato Massimo Pupillo, Jacopo Battaglia e Giulio Favero (che ha prodotto il disco). Di Sandro Giorello. Le illustrazioni sono di Scarful.
Partiamo dalle sonorità di questo ultimo "Carboniferous": ci avete messo dieci anni a fare un disco rock, altre band ci sono riuscite prima...
Jacopo Battaglia: Ad esempio il Teatro degli Orrori (ride, NdA).
A parte gli scherzi, è un lavoro compatto, dal suono roccioso, molte cose fanno pensare ad un concept album.
Massimo Pupillo: E' un concept, parla di un ragazzo che scopre una spada nella roccia, che a sua volta è stata lasciata lì dall'arcangelo Gabriele duemila anni prima.
Mi prendi in giro?
J: Assolutamente no, questo per noi è un momento epico…
M: E' un viaggio nel cattolicesimo, parla della riscoperta delle nostre radici cristiane e affronta la nostra riconciliazione con il Papa Ratzinger. E' una persona di cui si parla troppo male, dovrebbe essere rivalutato per… per quello che è insomma (ridono, NdA).
E il fatto di dividere il disco in due parti, una più dura e compatta e l'altra più "eterea"?
Giulio Favero: E' una cosa che spesso viene travisata, la tracklist dei dischi solitamente si fa alla fine, al momento del mastering. Si spendono sempre molte energie nel migliorare il suono di ogni singolo brano mentre all'ordinare le varie canzoni si dedica il tempo che rimane, che di solito è pochissimo.
J: Non è stato pensato in quest'ottica ma quello che dici è vero, me ne sono accorto la prima volta che l'ho ascoltato per intero.
In effetti era solo una delle possibili interpretazioni… cosa c'entra Ratzinger?
M: Ancora… Stiamo riprendendo il catechismo, abbiamo davvero sentito questa riconciliazione con Cristo (Ridono tutti, NdA). E' un bel momento per noi, troppe volte il rock e la cristianità sono state lontane.
J: Massimo si è fatto battezzare e io ho fatto la Prima Comunione. Andiamo a catechismo il sabato pomeriggio, suoniamo anche con il parroco.
Ci rinuncio. E' il primo album che può vantare una produzione del suono fatta come Dio comanda. Vuole segnare una qualche svolta nella vostra discografia?
J: Non pronunciare il suo nome invano… (ride, NdA)
M: Seriamente, ti dico solo questo: avevamo un budget.
J: Avevamo del tempo e un'etichetta che ci finanziava le registrazioni.
M: Invece di avere i soliti cinquanta euro per fare un disco, questa volta ne avevamo di più, quindi abbiamo fatto di più.
J: Di base la nostra discografia viene divisa tra dischi Zu e dischi Zu con ospiti.
Che poi i dischi Zu sarebbero…
J: "Bromio", "Igneo", "Radiale". Quelli con i titoli di una parola sola sono dischi composti da noi, quelli con i titoli lunghi sono scritti insieme ad altri.
Anche il pezzo con i Melvins l'avete composto voi? So che la registrazione della chitarra di King Buzzo risale a molto tempo fa.
J: Giugno 2006, calcola che molti pezzi di questo disco noi li suoniamo dal vivo da circa tre anni.
Questa è una cosa interessante dal momento che certi vostri dischi, invece, sono stati registrati in pochissimo tempo, alcuni in un solo pomeriggio. Era come scattare delle istantanee di quei momenti?
J: Esatto, quei dischi erano prove aperte, come in recitazione, quando una compagnia teatrale ti invita a vedere le sue prove per spiegarti in che direzione sta andando. Alcuni sono stati davvero registrati in un solo pomeriggio, ad esempio "How To Raise An Ox" con Mats Gustafsson. Sarebbe stato bello avere più tempo, ma significava anche dover investire più soldi. In quei casi l'unica è improvvisare e registrare subito cosa esce.
M: Quei dischi li chiamiamo "suicidi commerciali", sono le classiche cose che un gruppo non dovrebbe mai fare. Sono davvero la foto di persone alla deriva che guardano in tutte le direzioni senza sapere cosa cercare.
J: Se ascolti gli ultimi tre album prima di "Carboniferous" ti accorgi che ci sono degli elementi che man mano si sviluppano e che poi si solidificano in "Carboniferous". C'è molta solidità, è tutto super composto.
Quindi un abbandono dell'improvvisazione a favore della composizione, è una cosa che manterrete in futuro?
J: Si.
Quanto pesano le collaborazioni in "Carboniferous"?
M: Quanto pesano… relativamente poco. Anche quelle sono delle fotografie, delle istantanee, guarda: qui sono con il mio amico. Le vogliamo intendere in questo modo, sono delle incursioni dall'esterno. E poi non abbiamo tutti quei problemi d'identità tipici delle rock band… Possiamo essere tre, quattro. Perché un gruppo deve essere composto sempre dalle stesse persone? Non capiamo perché ci debba essere questa fissità: la musica si fa così, dovete essere in tre, sempre quelli, la melodia, dovete cantare.
Qual è stato l'apporto di Mike Patton a questo disco?
J: Ci ha chiesto di fare un disco sulla sua etichetta.
Tutto qui?
M: E' stata la persona più discreta del mondo, non ha mai interferito sulla scrittura dei pezzi. (Finita l'intervista Jacopo è ritornato sull'argomento: quando gli ho detto che i pezzi con Patton sono quelli che mi convincevano meno lui ha risposto che non ero l'unico a pensarla così ma che, a differenza dell'idea che hanno tutti di lui, Patton è davvero una persona umile. Durante il tour fatto lo scorso marzo si è sempre sentito parte del gruppo e mai una star con la backing band a seguito, NdA)
Parliamo dei vostri concerti.
M: E' la parte della giornata che preferiamo. Sorridiamo più dopo i live…
J: La giornata non è nient'altro che la preparazione per il concerto.
In quasi tutti i vostri dischi c'è almeno un ospite, i live sono sempre in trio…
M: No, abbiamo anche fatto tour in quattro. Purtroppo non possiamo farli spesso, sempre per problemi di budget. Ci tengo a ribadire che per noi le collaborazioni sono fondamentali, è una forma di vampirismo: succhi e dai energie, impari cose nuove, sia dal punto di vista umano che musicale. E poi noi abbiamo sempre odiato le scuole di musica, per fortuna non abbiamo fatto il conservatorio. Siamo cresciuti solo grazie alle persone con cui abbiamo avuto a che fare.
In effetti, mi sembra che l'obbiettivo degli Zu sia sempre stato quello di riuscire ad collaborare con le proprie band preferite, dai NoMeansNo in avanti. Oggi è un metodo che può ancora funzionare? Chi sono i NoMeansNo del 2009?
M: Gli Zu (ride, NdA)
Presenti esclusi.
M: Ci sono molti gruppi che portano avanti un discorso simile al nostro. Noi siamo stati all'ATP (festival la cui direzione è affidata ogni anno ad un gruppo o ad un'artista diverso. Gli Zu hanno partecipato all'edizione inglese, lo scorso dicembre a Minehead, i direttori artistici erano Mike Patton e i Melvins, NdA). Sembrava davvero una comunità di persone con lo stesso modo di intendere la musica.
A quali gruppi italiani gli Zu potrebbero passare il testimone?
M: Ce ne sono tanti... Mesmerico, Aucan, Dispositivo per il lancio obliquo di una sferetta, Neu, gli Squartet, i Morkobot, i Lento. C'è talento…
Non riesco capire però perché dopo dieci anni non ci sia stata una sola band che sia emersa più degli altri. A ribadirlo il fatto che i nomi che rappresentano il noise rock italiano, se così vogliamo chiamarlo, sono sempre gli stessi. Guarda caso suonano stasera sullo stesso palco: Zu, Bachi da pietra e Teatro degli Orrori, tutti gruppi i cui componenti vantano una carriera pluridecennale.
M: Vuoi la versione light o quella lunga?
Quella lunga…
M: Le nostre scelte sono piuttosto chiare: chi siamo, che musica facciamo, i posti che scegliamo, il fatto di essere qui stasera. Non vogliamo metterci a fare i seminari sul Do It Yourself perché come noi abbiamo scoperto il DIY leggendo i libretti dei Crass e seguendo la storia dei Black Flag, un giovane adesso lo può fare leggendosi un'intervista come la tua o farsi le sue ricerche su internet. Noi eravamo influenzati dai NoMeansNo, dai The Ex, dai Black Flag. Se i gruppi di oggi sono influenzati dai Kings Of Convenience non so che farci. Al di là dell'etica, che è comunque importante, noi siamo molto legati anche all'estetica.
Quindi è il momento storico ad essere poco fortunato?
M: Non lo so, ce lo chiediamo anche noi. Ogni concerto speri che il gruppo prima di te ti spacchi il culo… Invece ti becchi dei pischelli che forse, e dico forse, sono più "furbi", sono più attenti a quello che va o che non va, all'introduzione di un certo tipo di elettronica, alla melodia.
J: La domanda che ci fanno più spesso è: che management avete? In molti sono alla ricerca della figura fantomatica del grande produttore, cercano la svolta.
M: Poi me lo vieni a chiedere tu che hai spinto a mille i My Awesome Mixtape…
Quelli sono proprio l'esempio meno adatto, perché so per certo che la prima cinquantina di date se le sono organizzate da soli. Per certi versi sono più simili loro a voi che molte altre band italiane di stampo noise-core.
M: Poi adesso c'è Myspace, quando abbiamo iniziato era diverso, era il giurassico…
J: Non c'erano nemmeno le mail massificate (ride, NdA).
M: Ma sul serio, facevi tutto per telefono, addirittura via fax.
J: E poi c'era il demo, dovevi pagarti uno studio e allora prima di registrarlo passavi almeno un anno a provare e riprovare in saletta, sicuramente dovevi essere animato da una spinta maggiore.
M: Si, c'era un filtro maggiore.
(No Joy Rev I, di Scarful)
E' servito partorire una discografia così grande? Se non sbaglio sono quattordici…
M: (lunga pausa, NdA) Si, "Carboniferous" è il quindicesimo.
J: Serve, il disco è sempre un buon passaporto.
Da un gruppo con la vostra attitudine ci si aspetterebbe dischi autoprodotti, invece le etichette ci sono e sono tutte prestigiose. Come si arriva a incidere per l'Ipecac o per l'Atavistic/Touch'n'Go?
M: Dopo dieci anni di tour in tutto il mondo certi incastri avvengono.
J: Sarebbe preoccupante se cose del genere non accadessero.
M: Per quanto riguarda l'autoproduzione: veniamo così tanto da quel mondo da riuscire a capire cosa non funziona realmente, ovvero mancano i canali distributivi. Ma ti ricordo che questo è il primo album dove un'etichetta ci ha destinato un budget, i precendenti li abbiamo registrati tutti con i nostri soldi, in sostanza erano autoprodotti.
Quando si parla di DIY cito spesso la dichiarazione di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle che mi rilasciò tempo fa in un'intervista: da soli non si fa nulla, i collaboratori validi sono fondamentali.
M: Forse lui non riesce a far nulla.
Voi ci riuscite?
M: Praticamente si, adesso stiamo lavorando con un ragazzo di Vienna che ci aiuta per i concerti nel nord Europa e abbiamo un'agenzia in America ed un'altra in Giappone. E questo ci alleggerisce un po' il lavoro, ma non siamo il gruppo che dice: il musicista deve fare solo il musicista.
J: L'estetica del lavoro ce l'abbiamo fin dall'inizio. E a forza di andare avanti si crea una rete di contatti che poi diventano anche tue amicizie. In mezzo non ci puoi mettere un manager, risulteresti ridicolo.
M: Ipeacac è Patton e Patton è un amico, perché dovremmo mettere un intermediario tra noi e lui?
J: E i tentativi sono stati fatti, attenzione, ci abbiamo provato e non è stato certo facile, dopo anni e anni ci vuole coraggio a mettere tutto quello che hai fatto nelle mani di qualcun altro. E' andata male. C'è da dire che è anche difficile promuovere un gruppo come il nostro.
M: E poi fin dall'inizio volevamo dire un qualcosa di nostro, di personale. E in più abbiamo avuto la fortuna di conoscere quasi subito gruppi che portavano avanti quella che noi chiamiamo l'"etica Black Flag": ti fai un mazzo così e tiri dritto.
Qual è il segreto del vostro successo? Perché gli Zu sono così famosi?
G: Famosi per i debiti (ride, NdA).
Mi spiego meglio: siete davvero un gruppo trasversale, che va al di là delle nicchie di genere. E sostanzialmente continuate a far rumore.
M: (Lunga pausa, NdA) Perché siamo belli.
A vostro parere, quali altri gruppi ci sono riusciti?
M: Ce ne sono tantissimi… i Locust, i Torch.
Cosa ne pensate dei Battles?
G: Devi tener presente che quando varchi il confine cambia tutto. Non è così vero che i Battles facciano sempre migliaia e migliaia di persone… qua le fanno. Mi ricordo il primo concerto dei June Of '44 in Italia: c'erano 1000 persone, Doug Scharin mi disse che in tutta la sua vita non aveva mai suonato con più di 400 persone davanti, neanche con i Codeine.
J: La stessa cosa vale per i Blonde Redhead.
Avete mai pensato di lasciare l'Italia?
M: Tutti i giorni.
J: La lasciamo quasi tutti i giorni, o meglio, ogni giorno ne lasciamo un pezzo. Pierpaolo Capovilla: Il massimo sarebbe obbligare qualcuno a lasciare l'Italia. Portiamolo in Africa (ridono tutti, NdA).
M: E' arrivato Capovilla, sei il classico veneto razzista, cosa ne può l'Africa?
Cosa vi tiene ancorati qui?
M: Noi siamo sempre in giro, e ci dispiace per chi ci sta a fianco, le nostre compagne, le nostre famiglie. La casa per noi è il posto dove ritorni ogni quattro giorni, fai la lavatrice, metti a posto un po' di cd che ti hanno regalato, paghi il mutuo e riparti. A noi basta vivere vicino l'aeroporto.
Per quanto la farete ancora questa vita?
M: Centotrenta…
J: …centotrentamila anni.
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L'articolo Zu - Milano, Cox 18, 26-03-2009 di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2009-03-08 00:00:00
COMMENTI (6)
posso dire che secondo me la domanda è mal posta?
o la risposta di fasolo alla precedente intervista male interpretata?
conoscendo bene marco e avendo fatto parte di quella storia, la risposta di marco non può che riferirsi alla situazione attuale: oggi ovviamente i jg hanno bisogno di validi collaboratori per fare quello che fanno.
i jg da soli con l'aiuto di un grande amico hanno fatto 3 dischi registrati, prodotti artisticamente ed economicamente in proprio, fondato anche un'etichetta, distribuito i loro lavori (metaforicamente) porta a porta fino agli usa e all'inghilterra visto che in italia trovarono moltissime porte chiuse, cercato e ottenuto spazio sulla stampa, paradossalmente trovando più attenzione su quella mainstream che su certa altamente specializzata e indie, organizzato da soli tutti i loro concerti fino al 2005. grazie a questo sono arrivati a sub pop e a suonare ovunque.
oggi ovviamente hanno bisogno di validi collaboratori se vogliono continuare a suonare.
non direi che è molto diverso da quello che hanno fatto e fanno gli zu.
Il loro disco è meraviglioso. Il loro approccio all'intervista anche.
Mah, sono sempre perplesso quando qualcuno accusa sbrigativamente di furbizia tutto quello che non capisce o non conosce.
"Quando si parla di DIY cito spesso la dichiarazione di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle che mi rilasciò tempo fa in un'intervista: da soli non si fa nulla, i collaboratori validi sono fondamentali.
M: Forse lui non riesce a far nulla"
Frase sciocca, parlando di uno come Fasolo - peraltro smentita una risposta più tardi (le agenzie di booking, l'etichetta di Patton etc). Vabbé, gli Zu li preferisco su disco.
O-S-T-I-A-[:
Il disco è davvero fantastico. Il loro approccio all'intervista.. uhm.