Giovanni Manzoli da Ferrara, classe 1991, è Natlek dal 2012, quando ha cominciato a produrre la sua musica nel suo stile non convenzionale, libero da ogni forma catalogabile. Tra qualche giorno sarà rilasciato da Lucky Beard Rec (l'etichetta gestita da Phra Crookers e Stabber) il suo nuovo lp "Graduation Burnout": influenze ghetto, percussioni potenti, suono muscoloso. Abbiamo fatto due chiacchiere con lui per conoscerlo meglio, in attesa di ascoltare il disco.
NATLEK — Overdrive Infinity di OverdriveInfinity
Cominciamo da una domanda classica che gioca su facili stereotipi: data la musica che fai, hai mai pensato di trasferirti a Londra?
Sì, in realtà ci avevo pensato, ma mi sono laureato l'anno scorso in design del prodotto e ho trovato presto lavoro qui in Italia, quindi ho deciso di rimanere qui. Questo non solo per motivi economici, in realtà, ma anche perché ho sentito un po' l'esperienza di altri producer italiani che abitano lì, come Butti e Tvsi, e mi hanno tutti detto che campare a Londra con la musica è un casino, quindi mi sono detto: “Hai il lavoro qui, metti via un po' di soldi prima di pensarci”. Per dirti, Wallwork che ha lo studio lì mi ha detto che non è sempre facile economicamente per via degli affitti esorbitanti. Non credo che mi trasferirei per fare quella vita.
La gentrification sta sicuramente dando i suoi frutti amari, sono d'accordo. Tornando a te, quando hai cominciato a fare musica?
Intorno ai miei diciassette anni. Ho cominciato a mettere i dischi in un locale qui di Ferrara che si chiama Suono Club, e da lì pian piano ho iniziato a suonare sempre più e a mettermi a produrre musica. Nel 2012 è uscito il mio primo ep per Sostanze Records di Roma; ricordo che mandai i pezzi a Digi G'Alessio per sapere che cosa ne pensasse. Lui si prese benissimo e decise di farmi un remix... Considera che io ero già un fan di Lucky Beard all'epoca, e infatti il materiale successivo lo mandai a Phra (Crookers, fondatore dell'etichetta) che sulla loro pagina Facebook aveva chiesto di mandare demo. Nel 2013 infatti è uscito il mio “Paki Beers ep” per loro, e da allora la collaborazione è continuata.
Le cose che mettevi quando hai iniziato come dj erano già vicine alle tue produzioni per Lucky Beard?
No, io sono figlio dei Crookers del 2007 proprio, quindi fidget house a manetta. I tempi d'oro dell'elettronica italiana da club.
Quella è stata davvero la scena che ha rimesso l'Italia sulla mappa, certo. Successivamente a livello locale c'è stata la scena wonky beats che ha un po' proseguito il discorso elettronico di casa nostra, prendendo spunto ancora una volta dall'Inghilterra. Ascoltando il tuo album mi viene da dire che il tuo suono sia un'evoluzione delle due correnti, visto che ci pezzi con la cassa in 4 e cose invece più storte.
L'album è la fotografia di un processo di esplorazione musicale che è ancora in divenire.
Sono partito dalla fidget e sono arrivato al suono di Lucky Beard, ma non sono mai al 100% soddisfatto di quello che faccio. Anche se credo che questa sia una cosa comune a tanti musicisti: arrivi alla fine di un progetto che ne hai proprio piene le palle e infatti sto già pensando a che cosa fare nel futuro. Diciamo che per ora ho trovato il “cosa”, cioè quello che voglio fare. L'album è il riassunto di questo. C'è anche tanto Baltimore sound ma rielaborato in chiave attuale, alla luce delle influenze londinesi: penso all'etichetta Night Slugs e ai loro artisti... Però non voglio essere la loro fotocopia, quindi cerco di fare il mio.
(foto di Lorenzo Pardi - Fare Cose)
Certo, oggigiorno è facile ascoltare una cosa su Soundcloud prodotta da un tizio inglese e rifarla nel giro di due giorni.
Assolutamente. Quello che faccio è facile da fare ma non tutti sono in grado, credo, di fare quello che “ha senso” fare, nel senso che appunto a copiare sono buoni tutti, ma aggiungerci il proprio tocco è molto complicato.
Sicuramente con la fidget house era più facile copiare, persino in fase di mixaggio c'erano tecniche che moltissimi produttori usavano pari pari. Tu ti muovi invece in un calderone di riferimenti che rende anche difficile usare delle etichette specifiche, e questo è vero per diversi artisti del roster Lucky Beard. In questo contesto è difficile fare qualcosa che funzioni, visto che non si sa bene a quali trucchi del mestiere appoggiarsi.
Sì, infatti il difficile secondo me è soprattutto ridurre al minimo l'uso di suoni per creare qualcosa di “minimale” ma efficace. Questo infatti secondo me è il lavoro che dovrò fare nel futuro, cioè arrivare veramente a snellire ancora di più le mie tracce, che ora mi sembrano molto piene. Vorrei anche lavorare di più sul suono, anche se non sono un gran tecnico, devo dire. Mi piace il fatto che sia bello grezzo, in certi casi.
Be', per il mix e il master ci si può sempre appoggiare a qualcun altro, così almeno non ci si stufa ad ascoltare sempre i propri pezzi!
Sì, hai ragione.
Stai già avendo qualche riscontro per l'album?
La settimana scorsa sono usciti tre miei mixati: per una radio giapponese, Block.fm, per Rinse.fm Francia, e infine uno per Overdrive Infinty, il programma televisivo di Teki Latex. Sto avendo un po' di supporto, sono molto contento.
Ah, io sono un fan di Teki!
Sì, fra l'altro lui ha avuto una sfiga pazzesca perché mi aveva già confermato per la fine di aprile. Ci conosciamo da un po' perché sono andato a sentire un paio di suoi dj set, ci siamo conosciuti a cena e ogni tanto ci sentiamo. Gli avevo parlato del mio disco e gli avevo chiesto se fosse interessato a farmi suonare, lui mi aveva dato l'ok. Senonché nello stesso palazzo della Daily Motion dove lui gira il programma c'è stata un'esplosione per una fuga di gas che ha finito per danneggiare il suo studio... Quindi alla fine abbiamo dovuto farlo in un altro posto, per fortuna l'abbiamo salvata in qualche modo!
Devo dire che la prima volta che ho visto il programma non sapevo che cosa pensare, perché mi sembrava di guardare una strana tv regionale con un dj che mette dei pezzi... Poi però la sua crudezza e i suoi visual mi hanno catturato. Sarà anche perché come ti dicevo Teki mi sta simpatico, mi sembra uno preso bene.
Sì, infatti è uno che supporta un sacco di produttori interessanti. Questa cosa forse un po' manca in Italia... Io non sono affatto uno di quelli che dice che in Italia tutto fa schifo, assolutamente. Secondo me ciò che manca rispetto a Londra o Parigi è proprio l'essere più protettivi nei confronti di quello che si fa da noi. Loro sono molto chiusi, noi invece al contrario siamo troppo aperti, cioè sempre pronti a far suonare tutti i musicisti che vengono dall'Inghilterra, ma non quei producer validi che suonano e producono da noi. Se non coltiviamo le cose buone che si fanno da noi non possiamo poi lamentarci che i nostri artisti non crescano come si deve! Voglio dire, dopo quattro o cinque anni che suoni e non becchi una serata, ti stufi anche no? Io per fortuna ho fatto due anni in cui ho girato parecchio in Italia, però si tratta sempre di due date al mese quando va bene, capisci? Poi ci sono questi cicli inspiegabili per i quali per un tot di tempo sembra che tutti ti vogliano, e poi c'è un calo di interesse improvviso e senza spiegazioni...
Quello che dici è particolarmente vero per i grandi festival di musica elettronica in Italia, che alle volte sembra che usino la fotocopiatrice per decidere la line up dell'edizione successiva.
Se dovessi organizzare delle serate io, pur da appassionato di elettronica inglese, preferirei all'inizio puntare di più a nomi italiani, come Lorenzo BITW o Nobel, piuttosto che cominciare a darci dentro con i guest. E questo alla fine a prescindere dai generi, secondo me. Come ti dicevo ho girato molte realtà nel nostro paese che per quanto valide alla fine sono costrette a chiudere i battenti, oppure quelli che rimangono vanno avanti a guest dall'estero, resident a parte. E questo alle volte è vero anche per i producer, non solo per promoter e gli organizzatori.
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L'articolo Natlek - Dalla parte dell'elettronica italiana di Francesco Fusaro è apparso su Rockit.it il 2016-05-09 17:24:00
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