NOVE, musica brutta per tempi orrendi

Nove canzoni sghembe e rumorose, dalla corteccia profondamente punk, che nascondono domande irrisolte e un ribrezzo senza condizioni per la nostra società. Il cantautore milanese con il naso a punta ci spiega il suo concetto di musica impegnata e ci porta un saluto dagli inferi

NOVE, al secolo Marco Manini, già membro dei Les Enfants  Ph. Lorenzo Arrigoni
NOVE, al secolo Marco Manini, già membro dei Les Enfants Ph. Lorenzo Arrigoni

NOVE è il nuovo folle progetto di Marco Manini. Classe 1990, già voce dei Les Enfants, il 9 Novembre debutta da solista con Nove canzoni che non ricordo di aver scritto, prodotto da Woodworm. Parte dei pezzi del disco li abbiamo potuti ascoltare dal vivo all’Idroscalo la scorsa estate, durante la rassegna Cuori Impavidi.

Un breve concerto dadaista, esasperato, a metà tra leggerezza folle e disperazione. E sta proprio qui la chiave per capire quello che NOVE ci sputa addosso: canzoni apparentemente goliardiche cui esempio perfetto è il primo singolo, Gabbiano, un incontro dantesco con tre fiere – e un escremento – che con strafottenza ci punzecchiano la coscienza. Lo abbiamo incontrato a Milano, la sua città, alla vigilia del nuovo lockdown lombardo, per capire qualcosa in più della sua selva oscura.

Questo album è interpretabile in modo diversificato, nello spettro che va dal molto serio al molto cazzone. Qual è la genesi del tutto?

C’è poca intenzionalità in queste canzoni. Le ho trovate su vecchi telefoni. Erano registrazioni molto casuali. Un paio sono di sei anni fa. Poi è nata una cartella nel mio computer in cui ho iniziato a infilare tutto quello che non potevo proporre ai Les Enfants. L’anno scorso sono andato a Berlino per un breve ritiro artistico. Mi sono fatto prestare una scheda audio, ho riascoltato tutto il contenuto della cartella: alcune cose non ricordavo nemmeno di averle fatte. Ho smanettato un po’, ho tagliato e incollato pezzi qua e là, e indagando su quello che avevo sono nati alla fine gli altri pezzi.

Dunque c’è una linea comune che attraversa le canzoni?

La linea comune è il criterio con cui sono concepite. Facevo partire il registratore e iniziavo a improvvisare testi, come un flusso di coscienza. L’importante era però trovare in partenza accordi orribili, e ritmi zoppi. Doveva fare proprio schifo. In questo periodo pieno di pop edulcorato, dolciastro e impacchettato, voglio fare qualcosa di impegnato. Ed essenzialmente ci provo con le canzoni più brutte che posso scrivere.

L’approccio  è molto punk. Ma a differenza del 1977 c’è una consapevolezza diversa. Per creare una rottura dobbiamo ricercare qualcosa di brutto?

Nel mio caso si può dire che, come prima cosa, non so suonare. Non sono un bravo musicista, non ho mai studiato uno strumento. In secondo luogo, penso di aver trovato una via per esprimere certe emozioni abbastanza forti in modo nuovo, in modo diverso. Dunque, probabilmente, è una sorta di punk.

Qual è il pezzo più brutto del disco?

Penso sia Kurt Cobain. La melodia del riff iniziale è la musichetta che mi immagino possa esserci all’ingresso dell’inferno. E infatti il titolo doveva essere proprio Inferno. Ancora prima si chiamava Invidia, che è poi quello di cui si parla nella canzone. L’invidia è uno dei motori del mondo. La maggior parte delle cose succedono grazie a lei. Solo alla fine ho scelto Kurt Cobain, perché alla fine porto i suoi saluti dagli inferi.

Sei l’Enea de noialtri. Ma al posto di portarci la profezia della nascita del grande Impero Romano, torni a ricordarci l’eredità troppo ingombrante dell’impero che Cobain ha fondato trent’anni fa.

Certo, c’è ancora molta impronta dei Nirvana in giro. Basti pensare all’immaginario di molte trap star americane che sono più grunge di quanto si pensi. Tutti distrutti, un po’ marci. Un modo d’essere che Cobain aveva messo in musica in modo molto forte, e sicuramente più naturale.

Passiamo a Bonatti. Perché dedicargli una canzone?

Bonatti mi ha sempre colpito profondamente come figura. Faccio parte da tanto tempo di un gruppo scout, anche come capo: la montagna l’ho vissuta parecchio. Durante un’escursione mi diedero un libro da leggere con i miei ragazzi, Montagne di una vita. Leggendolo ti rendi conto che la storia di Bonatti non ha nessun senso. Ha fatto delle cose che non sono possibili. Ha scalato il K2 negli anni ‘50, dormendo all’addiaccio a 7000 metri, per esempio. Forse è stato uno dei più grandi eroi del Novecento. Durante la scalata della parete Nord del Cervino venne abbandonato dai suoi compagni, e allora la scalò da solo in 5 giorni. Senza senso. Poi la canzone esprime solamente la “fotta” con cui Bonatti andava sempre avanti. Non voglio assolutamente mitizzarne la figura.

E quindi cosa ti lega a lui?

Io mi sento un po’ Bonatti, che va da solo avanti in montagna.

In una società che pretende tanto dai suoi individui, ma che toglie sempre di più i paletti base per mantenere l’equilibrio, essere tutti un po’ come lui ci potrebbe aiutare a stare in piedi meglio?

Sicuramente. Ma quello che mi fa impressione di questa vita assurda che Bonatti ha vissuto è pensare come passiamo oggi la vita. Quante possibilità ha l’essere umano di fare le cose, e quanto dobbiamo fermarci davanti a problemi quotidiani che possono sembrare irrisori? Ma anche sul versante dell’arte: perché fossilizzarsi a emulare qualcosa o qualcuno? Apri una nuova strada! Poi magari è una strada di merda e ti sputano in testa, però quantomeno hai allargato la via. Dovremmo forse avere un po’ più di coraggio; io stesso dovrei. Mica voglio fare la morale. Sono dei consigli che faccio a me stesso alla fine.

Vedendoti poi dal vivo si capisce ancora di più che non ce la vuoi menare, anzi. Ma certo, perché poi chi sono io?

Mi presento sul palco e ti suono le mie canzoni più brutte. Lo faccio soprattutto per sdrammatizzare. In giro c’è sempre più gente che pretende di aver qualcosa da dire. E ho iniziato ad avere una sorta di ribrezzo nei confronti di questa roba.

Quindi l’altra rottura che ci porti è il concepire il concerto come un vero spettacolo, anche se dovrebbe essere la prassi in un live.

Ma certo. Si tratta pur sempre di una performance. Siamo pervasi dal contatto freddo con la musica. Si ascolta la canzone di un artista, magari emergente, magari con tanti numeri nello streaming, ma poi se lo sento al concerto è esattamente uguale. Le due cose non possono corrispondere, perché sul palco deve esserci un corpo, e io lo devo percepire. È una questione culturale. La cultura del live è preziosa, e fa parte sempre del mondo dell’arte. Questo non va dimenticato. Le forme artistiche sono belle da mescolare, ma alla base della creazione, oltre a una grande voglia, ci vuole tanta metodicità.

La tua rivoluzione è il recupero, quasi classico, di alcune basi fondamentali che si erano perse. La vera avanguardia di NOVE è il ritorno all’ordine?

Può essere. Il disco è conservatore, perché è semplice e non rompe i coglioni. Però la canzone Libero è il mio brano impegnato. La mia canzone comunista. Parla del concetto larghissimo di libertà. Oggi si dice sempre che siamo liberi. Ma in realtà siamo liberi di scegliere un canale della tv, o che cosa comprare. Questa non è libertà. Ho un pensiero molto radicale sulla nostra società, e penso che siamo in un grossissimo delirio. Non voglio tirare un pippone, ma siamo forse al punto più basso della storia. Siamo immersi dentro una strana bolla. Non sappiamo nulla di quello che ci circonda. Tutto quello che usiamo non lo sappiamo fare, e non immaginiamo minimamente come funzioni. Il problema grosso è che ci sembra normale. In Libero, e in tutto il disco, provo a dire tutto in modo così sputtanato perché mi anima una forte rabbia. Ci sono pezzi estemporanei di miei pensieri. Niente di assurdo, anche perché fondamentalmente della vita non ho capito un cazzo.

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L'articolo NOVE, musica brutta per tempi orrendi di Gabriele Vollaro è apparso su Rockit.it il 2020-11-09 12:23:00

Tag: album

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