Il periodo d'oro dell'hip hop italiano risale senz'altro agli anni '90. C'è chi non è d'accordo – una ristretta minoranza, sia chiaro – ma la cosa buffa è che spesso i motivi di questo disaccordo non c'entrano nulla con la produzione artistica. In ambito musicale, ad esempio, il fatto che in quegli anni siano usciti i più fulgidi capolavori del rap di casa nostra è universalmente riconosciuto; quello che fa storcere il naso ad alcuni, però, è che i continui disaccordi e gli atteggiamenti talebani interni alla scena hanno finito per distruggere completamente tutto ciò che era stato costruito in quel decennio, spesso riducendo anche la carriera di molti artisti in macerie fumanti. Un esempio su tutti è l'Hip Hop Village, un enorme raduno che si tenne a Milano nel 1997. Promosso da Albertino e Radio Deejay e sponsorizzato dalla Mentos, terminò con il pubblico che bombardava il palco, gli organizzatori e gli artisti presenti di caramelle alla menta, accusandoli di essere dei venduti: il pubblico che si ribella perché il concerto è sponsorizzato è una scena impensabile al giorno d'oggi, ma all'epoca era quasi la normalità. All'inizio degli anni 2000 di quella che era stata la gloriosa scena hip hop italiana restava poco o niente, e parte della responsabilità era da imputare a chi ne aveva fatto parte.
Parlare di questi argomenti è da sempre difficile, sia per chi c'era che per chi non c'era. Ancora più difficile, finora, è stato far parlare i protagonisti di quel periodo, gli unici in grado di spiegare i motivi di quella magia, ma anche di quell'orrendo buco nero che a un certo punto inghiottì tutto e tutti. Uno dei pochi ad esserci riuscito è Enrico Bisi, regista del documentario "Numero Zero", che prende il titolo da un verso dei Sangue Misto "(Lo straniero" si apre proprio con la frase “Io sono il numero zero”). Con un'impresa titanica, sia dal punto di vista dello sforzo produttivo che dal punto di vista della persuasione, Enrico è riuscito a convincere i diretti interessati a raccontare la loro verità, mentre Ensi, in veste di narratore, tiene le fila del discorso.
La lista degli intervistati è impressionante: Esa, Tormento, Fish, Neffa, Fabri Fibra, J-Ax, Dee'mo, Frankie Hi-NRG, The Next One, Kaos, Colle Der Fomento, Fritz Da Cat, dj Double S e molti altri, ma anche alcuni addetti ai lavori, come Paola Zukar e il già citato Albertino. Uscito all'inizio dell'estate, Numero Zero è stato accolto in maniera entusiasta dalla maggioranza degli spettatori, ma è stato anche aspramente criticato – spesso in maniera preventiva – da alcuni degli artisti che all'epoca dei fatti erano presenti. In occasione delle prossime proiezioni del documentario (il 29 settembre a Torino e il 4 ottobre al MEI di Faenza) abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il regista.
Quando hai cominciato ad occuparti di documentari?
Mi sono laureato in storia critica del cinema agli inizi degli anni '00, e durante gli ultimi anni di università ho cominciato a cimentarmi con la regia con dei cortometraggi indipendenti. Da lì sono arrivati in maniera molto naturale anche i documentari, di solito basati su soggetti miei. Mi sono sempre appassionato a progetti lunghi e complessi, e infatti Numero Zero ne è l'esempio lampante... (ride)
Quando hai cominciato ad interessarti di hip hop, invece?
L'hip hop è una passione precedente al '99, l'anno del mio primo cortometraggio. Negli anni '90 era uno dei miei interessi principali: da ragazzino ho avuto due crew con cui ho calcato qualche palco e dipinto qualche muro, ma poi la passione è un po' scemata alla fine del decennio, quando per tutta la scena italiana si è chiuso un periodo. Naturalmente, però, è qualcosa che ti si incolla addosso per sempre. Parlare di anni '90 ancora oggi è complicato: c'è chi sostiene che all'epoca fosse tutto nettamente meglio e chi invece pensa che fosse solo una fase embrionale dell'hip hop italiano.
Come mai hai deciso di imbarcarti nell'impresa di Numero Zero, oltretutto conscio del vespaio che la cosa avrebbe potuto sollevare?
Per passione, innanzitutto, e poi perché mi piaceva l'idea di raccontare qualcosa che non era mai stato raccontato in formato audiovisivo. Ci sono diversi libri molto approfonditi che ne parlano, come per esempio quello di Damir Ivic (si intitola "Storia ragionata dell'hip hop italiano" ed è edito da Arcana, ndr), ma mancava un documentario, un film. Il progetto mi girava in testa già dalla metà degli anni 2000, avevo cominciato a prendere appunti e a proporlo a qualche produttore, ma poi non riuscivo mai a concretizzare. Però continuavo a chiedermelo: come mai nessuno ci prova? È una storia così forte, che ha una bellissima parabola: nasce dal nulla, si sviluppa, arriva all'apice e poi collassa su se stessa, per poi rinascere in altre forme. Così, insieme ai produttori Davide Ferazza e Francesca Portalupi, abbiamo deciso di concretizzare.
Oltre alle interviste e alle testimonianze dirette dei protagonisti dell'epoca, è impressionante anche il lavoro che hai fatto sul materiale d'archivio, che di fatto è poco e quasi introvabile, essendo un'epoca pre-internet e smartphone...
È stato un lavoro molto lungo, in effetti. Sapevo che il materiale d'archivio doveva avere la stessa importanza delle interviste. Proprio perché è un argomento controverso, ricco di rapporti umani che si sono sviluppati e poi deteriorati nel tempo, ci voleva un po' di oggettività, e per ricostruire i fatti l'archivio è stato fondamentale. È stata un po' una caccia al tesoro: per fare un esempio banale perfino i locali più importanti, tipo l'Hiroshima Mon Amour a Torino, all'epoca non avevano l'abitudine di riprendere i concerti. Ogni tanto c'era qualche spettatore che, per suo piacere, filmava i live con una telecamerina privata, e infatti molte delle immagini che mostriamo sono sporche e mosse perché sono girate da gente che stava in mezzo alla platea. Più riuscivamo a creare fiducia attorno al progetto, più il nostro database si arricchiva: molte persone hanno aperto per la prima volta i propri armadi e ci hanno spedito decine di vhs impolverate, alcune addirittura ammuffite, che ho dovuto aprire personalmente e far girare a mano per non rovinare la pellicola... (ride) Questi spezzoni video ci hanno anche aiutato a definire una mappa delle persone importanti da intervistare.
Restando in tema, sei riuscito a raccogliere le testimonianze della stragrande maggioranza dei protagonisti dell'epoca. Si notano alcune assenze eccellenti, però (due su tutti, opposti tra di loro per approccio: Gruff e Bassi Maestro). Ci sono anche diversi altri che si sono lamentati di non essere stati interpellati. Come hai deciso chi era dentro e chi era fuori?
In alcuni casi è stata una decisione forzata, nel senso che diverse persone mi hanno detto di no, nonostante io abbia fatto di tutto per convincerli a partecipare. Forse quegli anni bruciano ancora, o magari c'è chi semplicemente non ama tornare sull'argomento. In altri casi, la decisione è dipesa dal voler restringere il campo: il documentario è focalizzato sul rap, quindi ho evitato di inserire turntablist e dj, ad esempio. L'unico che compare è Double S, ma per motivi diversi: lui ha iniziato a farsi strada negli anni '90, quando ero ancora un ragazzino, e il suo punto di vista era interessante perché rappresentava la generazione di mezzo che cominciava ad affacciarsi sulla scena. Un altro dei criteri che ho usato è quello della rappresentatività: ho cercato di intervistare almeno un membro di ognuna delle crew più importanti dell'epoca. Insomma, non ci sono state esclusioni di valore, sul genere “Non lo chiamo perché non mi piace” o “Non lo chiamo perché lo ritengo scarso”... Si tratta di scelte legate al tipo di racconto che volevo fare.
Viceversa: ti aspettavi che così tanti accettassero di farsi intervistare? Mi riferisco in particolare a quelli che hanno cambiato completamente il loro approccio alla musica e ora rileggono la propria produzione anni '90 con un occhio molto critico, come Neffa, J-Ax o Fabri Fibra...
Diciamo che lo speravo! (ride) Non è stato facile, e non tutti hanno detto sì al primo colpo. Però credo che gli indecisi si siano convinti man mano che vedevano crescere il numero di persone che accettavano di esserci: probabilmente ciascuno voleva raccontare la sua verità, sapendo che altri avrebbero raccontato la loro. Ero sicuro che all'inizio sarebbe stato difficilissimo, ma che da un certo punto in avanti sarebbero stati i rapper a venire a cercare noi. Anzi: molti si sono fatti avanti all'ultimo momento, tanto che ormai era troppo tardi per inserirli nel documentario. Credo che ci sia voglia e paura di parlare di quegli anni; la paura, però, è legata più ad aspetti personali che a quelli musicali e artistici.
C'è qualcuno di cui proprio non avresti potuto fare a meno?
Per me era fondamentale avere almeno uno dei tre Sangue Misto, e alla fine ce l'abbiamo fatta: Neffa ha accettato. Tempo fa avevo visto un reportage sul freestyle in cui lo intervistavano, e ricordo che aveva pronunciato questa frase: “Io oggi sono qui per parlare di freestyle, ma se dovessi parlare di rap e hip hop, prima di me dovrebbero parlare molte altre persone”. Quindi ho aspettato di avere molte altre persone, e una volta ottenuto un buon numero di interviste eccellenti, ho contattato Neffa... E lui ha accettato subito! (ride)
Cambiando discorso, approfitto di questa chiacchierata per rigirarti una domanda che ho sentito spesso in giro, da quando è uscito Numero Zero: ha senso tirare in mezzo in un documentario sul rap italiano persone che il rap lo hanno completamente rinnegato (soprattutto quelli che ai tempi lo hanno rinnegato perché i soldi non giravano più, e ora tornano ad attaccarsi al carro del vincitore)?
Questo è un documentario storico, e se vuoi raccontare dei fatti nella maniera più oggettiva possibile paradossalmente dovresti cancellare quello che c'è stato dopo: io metto una parola fine al film attorno al 2000-2002, quello che è successo poi non può e non deve interessarmi, almeno come filmmaker. L'aspetto documentaristico ti obbliga in qualche modo a interpellare anche persone che poi hanno preso strade diverse. E in ogni caso, secondo me è giusto chiamarli in causa. Credo che alcuni non abbiano mai sparato davvero merda sul proprio passato: Neffa, ad esempio, semplicemente non ne aveva mai parlato prima. Ricordo la prima intervista che ho fatto ai Colle Der Fomento, che poi non è stata inserita nel documentario per problemi tecnici: c'era anche Masito, e mi ha detto “Se Neffa arrivasse a parlare di questi fatti, sarebbe un bene per tutti”. E penso avesse ragione: dalle sue parole, e non solo dalle sue, si capisce molto bene perché molti dei rapper di quell'epoca hanno smesso, si sono presi delle pause o hanno cambiato direzione.
Le persone che hai intervistato, in effetti, si sono davvero messe in gioco, sbottonandosi parecchio e a volte facendo anche autocritica: una cosa rara...
Credo che dipenda anche dal fatto che gli artisti che ho intervistato non mi conoscevano: non c'era uno storico su di me in ambito hip hop, non sono mai stato parte attiva della scena, non sono un giornalista musicale... Insomma, l'ho sempre vissuta da fan e non ho mai dato fastidio a nessuno. Però c'è anche il rovescio della medaglia: un po' si chiedevano perché dovessero raccontare i cazzi loro a me, un po' si chiedevano come mai conoscevo così bene vicende interne alla scena eppure non mi avevano mai visto né sentito nominare prima. Però vedendo un quarantenne completamente esterno alle storie in questione ma così appassionato, si creava immediatamente un terreno comune. Più che interviste erano vere e proprie chiacchierate fiume: per quella a Dee'Mo ho girato sei ore di materiale, e anche chi poneva dei limiti all'inizio, dandomi magari mezz'ora di tempo, alla fine si ritrovava a parlare per più di due ore. Tutti hanno raccontato la loro storia con trasporto e sincerità, personalmente sono molto soddisfatto del risultato.
Visto che ci hai parlato a lungo (e visto che il documentario non tocca quest'argomento, concentrandosi solo sul passato): da quello che hai potuto percepire, cosa pensano dell'hip hop italiano di oggi?
Non saprei. Generalmente mi sembra che in Italia si tenda ancora a pensare che l'hip hop debba essere per forza underground, e che non possa esserci del vero hip hop nel mainstream. Sicuramente è una tendenza che ha origini molto lontane, forse addirittura negli anni '80, fatto sta che al momento gli artisti che hanno un contratto con una major e che sono universalmente rispettati sono davvero pochissimi: forse l'unico è Ensi. L'hip hop è nato in America e in Italia non potrà mai essere uguale: lo abbiamo assorbito e deformato a modo nostro. E queste deformazioni si sono in qualche modo riflettute anche sul documentario: una delle critiche che abbiamo ricevuto più spesso è “Questo documentario non parla di hip hop ma solo di rap, e non si possono separare le quattro discipline”. E allora come la mettiamo con "The Art of Rap"? (celeberrimo documentario ad opera di Ice-T e incentrato proprio sulle capacità tecniche, stilistiche e compositive dei rapper, ndr)
Oltre alle critiche, però, tu hai ricevuto anche diverse minacce (addirittura alla tua incolumità) da parte di diversi artisti rap provenienti dalla scena anni '90, in alcuni casi perché non li avevi intervistati, in altri perché avevi usato delle loro immagini di repertorio nonostante ti avessero rifiutato l'intervista. C'è qualcosa che vorresti dire a queste persone?
Di guardarlo prima di parlarne, come ho già suggerito! Ho sempre cercato di spiegare le mie ragioni e le mie scelte, ma se non ci sono riuscito pazienza: sono sicuro che prima o poi, quando non sarà più necessario recarsi fisicamente alle proiezioni per vederlo, lo guarderanno per curiosità e magari cambieranno idea, o magari no. Come dice Ensi, “tutti contenti non li farai mai”, e quindi va bene così.
Le prime proiezioni come sono andate, a proposito?
La prima è stata a Bologna, al Biografilm Festival: è andata molto bene, abbiamo anche vinto due premi. Il pubblico era molto eterogeneo, ma soprattutto c'erano tanti ragazzi giovani – alcuni arrivati addirittura apposta da Roma – che si sono mostrati davvero entusiasti e ci hanno ringraziato del lavoro che abbiamo fatto. Ringraziamenti che ho girato agli artisti, perché non ho fatto altro che raccogliere le loro parole. La seconda proiezione invece è stata al Magnolia di Milano, davanti a oltre 600 persone che hanno applaudito e sono esplose in boati durante la visione del film: sono reazioni e numeri mostruosi per un documentario! Sono molto felice: mi aspettavo una scena divisa in due, con un 50% di soggetti che avrebbero amato "Numero Zero" e un altro 50% che l'avrebbero odiato, e invece le percentuali sono molto più sbilanciate verso chi l'ha amato.
Oltre alle due proiezioni del 29 settembre a Torino e del 4 ottobre a Faenza, dove si potrà vedere il documentario prossimamente?
Stiamo lavorando per farlo uscire in sala e speriamo di riuscirci; nel frattempo, però, stiamo lavorando anche alla colonna sonora del film, che dovrebbe uscire in doppio vinile con allegato un DVD in tiratura limitata. Successivamente dovrebbe arrivare anche il dvd vero e proprio, che conterrà anche alcuni extra inediti. Insomma: ottimi riscontri, diverse grane, un lavoraccio infinito.
A conti fatti, questo documentario lo rifaresti?
Assolutamente sì. Eventuali insulti e minacce erano già preventivati, anzi, me ne aspettavo molti di più... (ride) La cosa importante è che abbia avuto un valore per alcuni, in particolare per chi in quegli anni era parte della scena hip hop. E che gli intervistati siano soddisfatti del risultato: molti di loro mi hanno detto che il finale li ha commossi, anzi, addirittura Frankie Hi-NRG, che era ospite della proiezione di Bologna, alla fine del film era talmente emozionato non è neppure riuscito a parlare sul palco come era previsto. E questo per me significa tutto.
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L'articolo Alle radici del rap italiano: l'intervista al regista del documentario "Numero Zero" di Marta Blumi Tripodi è apparso su Rockit.it il 2015-09-28 08:48:00
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