Il 17 ottobre, a distanza di ben 3 anni dal bellissimo "Hermann", è uscito "Earth Hotel", il nuovo album di Paolo Benvegnù.
Un disco che sviscera l’amore in ogni sua spietata, quanto commovente, trasfigurazione: un lavoro fatto di spirito e di corpo, di miseria e di splendore, che ribadisce la personalissima cifra stilistica di uno degli artisti più preziosi e importanti della scena musicale italiana degli ultimi anni. Abbiamo intervistato Paolo il quale ci ha parlato del nuovo disco, della “ricerca del vuoto” come motore creativo e del suo lasciarsi andare felicemente alla deriva.
Ciao Paolo, come stai? Di fisico e di spirito.
Rido. Spesso. Sto bene. Spero lo stesso di te. Di tutti.
Sono passati più di 3 anni da "Hermann". In (e con) quel disco provavi a dispensare risposte anche a nome di una collettività che fino ad allora ti era stata, come dire, “sconosciuta”, fisicamente eclissata dalla tua urgenza iper-intimista, e lo facevi attraverso un approccio cine-letterario. In “Earth Hotel” quali dinamiche hanno guidato la tua penna, fatto salvo quel palpabile pessimismo che permea gran parte delle canzoni (insomma, mi viene da pensare a quell’addio addio, non esiste domani oppure a quello spietatissimo Eppure è tutto vero, anche se non c’è niente che chiude egregiamente il disco)?
Niente mi guida più, ormai, se non la ricerca del vuoto. Sono pienamente in resa, felicemente alla deriva. Certo non mi guida il pessimismo. Vivo qui ed ora. Ecco perché domani non esiste. E se tutto è vero nel suo splendore e nella sua miseria, è solo perché lo vediamo sempre in soggettiva. L’universo è misteriosamente immenso. Da una prospettiva così infinita noi non siamo nulla. E a sommi capi tutto ciò che rincorriamo è così poco importante che non esiste. Eppure per noi è così importante.
Perché hai scelto proprio “Una nuova innocenza” come biglietto da visita?
Perché ospito in me mia figlia e mia madre. E ne ho timore.
Che io ricordi non ho mai ascoltato un Benvegnù così frontale come in “Nuovosonettomaoista”: ce l’avevi a morte con qualcuno o qualcosa quando l’hai scritta? Dì la verità.
Oh, no. Semplicemente lo smarrimento che percepisco ha delle cause. Le ho elencate. Scientemente. Realisticamente. Non ce l’ho con nessuno. La disperante vita di un essere vivente su questo pianeta rende qualsiasi tipo di mostruosità accettabile quanto ogni altro gesto. Invito solo a non cadere nella trappola dell’iperdesiderio. A focalizzare il necessario ed il superfluo.
“Everyone is worth saving. Even the monstrous. Even the demons. Everyone is worth saving. In the face of darkness, you drag everyone into the light. That is the point. At least I like to think that is the point of you”.
Ti è costato caro fare tuo questo slancio di buonismo in un contesto generale che di buonista ha ben poco?
No. È stato naturale. Credo ancora nel monologo finale di Charlie Chaplin ne “il Grande Dittatore”. Credo ancora nella visione Zavattiniana di “Miracolo a Milano”. Mi è facile credere a tutto. Perché tutto è vero. Su di me, invece, sono scettico.
Perché hai sentito il bisogno di ricorrere alle parole, e alla voce, di Jacques Lacan per chiudere “Piccola Pornografia Urbana”?
Perché mi commuove il suo tentativo di unificare Uomo e Linguaggio. E ne trovo il Senso Alto e Buono. Quando io per primo spreco parole. Le devasto di immobilità.
Dedichi una canzone a Stefan Zweig il quale, prima di suicidarsi insieme alla moglie, scrisse “Abbiamo deciso, uniti nell'amore, di non lasciarci mai”. Al primo ascolto quel suo “prepararsi all’infinito” mi ha subito richiamato alla mente, per associazione di idee, il tragico congedo di Ian Curtis che, a suo modo, aveva inscindibilmente legato l’amore alla morte persino nel suo ultimo istante di vita.
Forse chi vede troppo non sopporta più. Può darsi. Penso a Van Gogh stesso, sul letto di morte. Eppure penso che dinanzi a scelte così radicali, sarebbe sano, almeno in quei momenti, non dire nulla. Non lasciare nessuna eredità nemmeno linguistica. Ma in questo caso, mi interessava di più il paradosso di un suicidio di coppia per la vittima (Zweig e la moglie, scappati in brasile per via delle leggi razziali) e per il suo carnefice indiretto (Hitler e sua moglie). Per negarli. Perché non credo al suicidio come soluzione.
A proposito di amore: in questo nuovo disco hai voluto smembrarlo tanto poeticamente quanto chirurgicamente. E ad ascoltarti si ha quasi l’impressione che la cosa ti abbia emotivamente sfiancato, e pure parecchio.
Sì. È vero. Per questo motivo mi perdonerai se non entro nel merito.
Figurati. Parliamo di “Orlando”, che a mio parere è uno dei momenti più toccanti del disco nonché una delle canzoni più vicine a certa tradizione cantautoriale italiana; non ti nego che me la sono immaginata intrepretata da De André e Tenco. Come è nata questa canzone?
Io l’avrei voluta sentire cantata da mio padre. Che non vedo da trent’anni. Avrei voluto che mi avesse insegnato a vedere la vita nelle distruzioni, nelle mancanze. Non ha fatto in tempo. Rimedio io, ora che ho la sua voce. E le sue mani.
Ascoltando i tuoi dischi mi è capitato spesso di seguire a tal punto con lo sguardo la tridimensionalità delle tue parole da perdere la messa a fuoco della musica. Con “Earth Hotel” questo non è accaduto. Sembra quasi che tu abbia ritoccato alcuni equilibri. Mi sbaglio? Non hai mai avuto paura, soprattutto nei tuoi dischi precedenti, che il peso specifico delle tue parole potesse schiacciare la tua musica?
Anche i miei compagni dicono che sono troppo denso nella scrittura. E che questo sia un deterrente per la comprensione e per lo sviluppo armonico, musicale dei brani. Come dico a loro, rivendico la possibilità di essere Vasto. Rivendico il diritto di Gigantismo delle intuizioni primarie, che per me è lessicale e melodico. Nel caso di “Earth Hotel” non ho scritto nulla. Ho registrato direttamente sillaba per sillaba, accordo per accordo. Sgocciolando minutamente, per mesi. Secondo per secondo. Forse questo è cambiato. Non avevo obiettivo se non il mio vuoto che ha parlato.
Una volta, in una vecchia intervista, ti affibbiai la secondo me onorevole definizione di Piero Ciampi post-atomico. Fu un segno di riconoscenza, se vuoi. Alla luce dei tuoi nuovi lavori, mi convinco sempre più di quanto ben ti si attagli questa definizione, anche oggi. Ti ci riconosci?
Ti ringrazio. Sarebbe un onore per me. Ma Ciampi viveva allo stremo ed era nel mondo. Io, invece, nascosto vivo. Non ho quella meravigliosa, disperata vitalità. Quanto meno non ancora. E non ho neppure minimamente quel talento, quella Visione contemporaneamente così nobile e così da strada. E poi lui era coraggioso, guerriero, anelante. Io tendo solo a proteggermi, alle volte vigliaccamente. Forse, per ciò che sento tuttora di Ciampi, l’unica cosa che ci accumuna nella diversità è che entrambi non si riesce a scindere Vita Reale e Vita Immaginaria.
Quanto è lontano il tuo e nostro mondo dal "pianeta perfetto"?
Questo nostro è già terribilmente, meravigliosamente, il pianeta perfetto.
Un nome nuovo della scena italiana e uno di quella internazionale che ti hanno folgorato sulla via di Damasco.
Probabilmente sono nomi già obsoleti da tempo. Perché sono lento ed antico. Comunque, Ettore Giuradei e St. Vincent
Te lo chiedo da toscano: vivi ancora in Toscana? Come ti trovi? Una volta mi dicesti “Sotto gli Appenini è Italia, sopra è già Austria”. Lo pensi ancora? Ti senti in qualche modo “tradito” dalla tua terra natia?
Sono tifernate da quasi due anni (vivo a Città di Castello) ma mi ripeto. Qui è Italia, sopra è troppo sopra per me. Non mi sento tradito da Milano, dal nord Italia. Semplicemente non sento legami, non posso sentire legami verso una terra mercenaria e bigotta, settaria e bovina di miseria, senza pietà e misericordia.
Mi spieghi perché la tua (sacrosanta) concezione solidaristica della musica (il disco è dell’artista che lo ha suonato quanto del suo fonico che vi ha lavorato) non potrà mai trovare applicazione nella spicciola quotidianità, nel lavoro, nella politica?
Perché gli esseri umani hanno bisogno di tirannia per trovare identità, un’identità qualsiasi. Di fatto, I custodi finiscono nei roghi. Gli aguzzini scrivono sul Corriere della Sera.
A che punto sei del tuo cammino di ricerca della gioia?
Passo 0. Forse.
Per usare parole a te care, quanto del tuo tempo è stato perso e quanto vissuto?
Tutto tempo vissuto. Specialmente nella noia e nel vuoto. Ti ringrazio a nome di Guglielmo Ridolfo Gagliano. Quelle parole sono sue. E le sue intuizioni, inconsce, per me preziosissime.
Pensa per un attimo a tutte le nuove consapevolezze che hai acquisito negli ultimi anni di carriera e di vita: pensi che sarebbe utopistico metterle a servizio di una reunion degli Scisma?
Penso di sì. Ho perso l’ansia del compromesso e questo certo non aiuta a ritrovarsi. Non umanamente, perché ci vogliamo bene seppur a distanza. Ma vedrei una riunione come un atto di nostalgia. Ed io fuggo la nostalgia come fuggo l’ipocrita necrofilia sul postumo.
Il disco, il libro, il film e la persona che ti hanno cambiato la vita?
Suzanne Vega, “Solitude Standing”. Guido Ceronetti “Insetti senza frontiere”, L. Von Trier “Melancholia”.
Giuseppe Pierri, il mio maestro elementare.
L’ultima volta che hai pianto?
Dieci minuti fa.
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L'articolo Paolo Benvegnù - Pienamente in resa, felicemente alla deriva di Antonio Belmonte è apparso su Rockit.it il 2014-10-29 12:27:00
COMMENTI (2)
Paolo Bevegnù è l'artista per eccellenza... ho assistito ad un live e la sua musica e le sue parole mi hanno completamente catturata, portta in un altra dimenione. Ero completamente in lacrime dall'emozione!!!
tanta roba