Una delle band punk italiane che più ha saputo rinnovarsi ed evolversi, senza perdere il contatto con il pubblico della prima ora e con l'immediatezza del genere da cui è partita (e che è ancora alla base del suo sound). I Peawees festeggiano quest'anno i vent'anni di carriera, e li celebrano con una succosa raccolta che in 30 pezzi scandaglia praticamente tutta la loro produzione. Ci sediamo a un tavolo dell'Union Club di via Moretto da Brescia per farcela raccontare dal fondatore e frontman della band, Hervé Peroncini.
Il ventennale è sempre un buon momento per tirare le fila, e sebbene il titolo della raccolta ci scherzi un po' su, non siete certo degli sconosciuti...
Questo è vero, in realtà il titolo gioca anche sul fatto che hanno sempre cercato di etichettarci con definizioni di genere che spesso non combaciavano e tuttora continuano a non combaciare con la nostra evoluzione. Oltre a questo, è anche vero che non siamo un gruppo che ha investito troppo nel marketing. Tanto per intenderci, se vai su Spotify trovi solo un nostro disco.
Forse perché per un progetto come il vostro non c'è promozione migliore del live
Sì, quello senz'altro. È anche la dimensione in cui rendiamo di più. Poi, se vai ad analizzare la nostra discografia, in vent'anni abbiamo fatto solo cinque album
Su questo tema, parlando con Andrea dei Manges (formazione con cui condividete molto, a partire dalla città di origine) era venuto fuori un discorso interessante sul perché nonostante la lunga carriera avessero inciso, tutto sommato, pochi dischi. Tu come la vedi, riguardo ai Peawees?
Io la vedo in modo molto semplice: non si può avere sempre qualcosa da dire. Non credo troppo nelle band che decidono matematicamente di fare un disco all'anno, non si può essere sempre creativi allo stesso modo, è importante rispettare i momenti in cui non hai niente da dire. Mi è successo anche di scrivere canzoni, registrarle in provino, riascoltarle e poi dire: “Ma che cazz...”: ecco, a quel punto, tanto vale aspettare. Già il mercato è saturo, e per rispetto sia di te stesso e della tua produzione, sia di chi ti ascolta, è bene sapere quando rifiatare. Molte band ragionano per obiettivi: adesso facciamo questo, poi tra un anno ne facciamo un altro, poi ancora eccetera. Io credo che chiunque possa fare un disco all'anno, ma bisogna vedere poi cos'è quello che lasci.
A questo punto però la domanda è d'obbligo: state lavorando a un disco di inediti?
Sì sì, abbiamo già un po' di pezzi nuovi. Finiremo di fare questo giro di date per la promozione della raccolta, dopodiché ci fermeremo per dedicarci a questi pezzi, ci piacerebbe introdurre cose nuove, fare qualcosa di diverso rispetto a quello che abbiamo fatto in passato. Ovviamente senza perdere il nostro stile.
Uno stile che, ascoltando la raccolta si nota chiaramente, dagli esordi e dagli anni di "'Cause you don't know me" e "Dead end city" all'album "Leave it behind" e all'ultimo singolo “When you walk on my pride", si è evoluto, si è contaminato, incorporando elementi r&b, soul, rock'n'roll. Secondo te questo ha contribuito ad avvicinarvi anche a un pubblico diverso da quello del punk-rock?
Sì, devo essere sincero, ho notato che il pubblico si è allargato, soprattutto dopo “Leave it Behind”. All'inizio qualcuno è rimasto un po' spiazzato da quel disco, soprattutto chi ci aveva seguito fino al 2011. Ma poi, con gli ascolti, anche loro hanno cominciato ad apprezzare. In più ho visto persone che magari prima non ci cagavano che si sono incuriosite e magari da lì sono andate a scoprire anche i dischi vecchi.
Secondo me con quel disco, che porta a compimento un percorso che ascoltando la raccolta si può ricostruire, avete dimostrato che dai Ramones a Wilson Pickett e Eddie Cochran il passo non è poi così lungo come sembra
Assolutamente. Poi ti dirò: io un disco come “Leave it Behind” ce l'ho sempre avuto in testa. Anche nei primi tempi, quando abbiamo scritto “Dead end city”, avevo in testa una cosa del genere, dal momento che sin da ragazzino “London Calling” dei Clash era il mio disco preferito, con la sua serie unica di contaminazioni e di suoni. Il problema è che all'epoca non eravamo in grado di farlo. Non è così facile dosare con gusto questi elementi diversi nel proprio stile, ma col tempo per fortuna abbiamo imparato.
La cosa che notavo della raccolta “20 years and you still don't know me” è che non avete inserito nessun pezzo dei primi due album
No, in realtà non c'è nessun pezzo solo del primo album. Del secondo ce ne sono due, ma sono solo su vinile (cd e doppio vinile hanno due tracklist leggermente diverse, e sono venduti solo insieme n.d.r.), perché non potendo eccedere sul cd, abbiamo pensato di tenere su vinile i pezzi più vecchi. Non abbiamo messo pezzi del primo disco non perché lo rinneghiamo o altro, ma semplicemente perché il criterio di scelta di questi 30 pezzi non è venuto solo da noi: abbiamo chiesto consiglio sia agli ex-membri della band, sia a tutte le persone che ci hanno seguito in questi anni. Mettendo insieme tutti i vari suggerimenti abbiamo notato che mettere dei pezzi del primo disco (che non è altro che la nostra prima demo-tape riversata su vinile, avevamo 18 anni ed eravamo ancora acerbi) avrebbe tolto spazio a canzoni che sicuramente sono più rappresentative di quello che siamo stati e che siamo oggi.
Possiamo però tornare un momento a quegli esordi, al 1995. Tu all'epoca già suonavi punk-rock con i Manges, ma cosa ha fatto scattare la scintilla per la fondazione dei Peawees?
Sì, io suonavo all'epoca nei Manges, e oltre a noi c'era un’altra band punk-rock: i Nukes, di Sarzana, all’interno dei quali suonavano Riccardo “Lalo” La Lomia e Livio Montarese, con cui abbiamo formato il primo nucleo dei Peawees, partiti inizialmente come trio. La prima volta che Nukes e Manges hanno suonato insieme è stato a Sarzana, era una festa di liceo e nonostante fossero completamente ubriachi, avevano fatto uno show che mi aveva colpito. Mi ricordo che facevano anche una bella versione di “Nobody’s Hero” degli Stiff Little Fingers. E così con Livio ci siamo conosciuti meglio, a me piaceva il suo stile, a lui il mio, e “perché non proviamo?” ci siamo detti... Così ci siamo visti in sala prove solo io e lui, io avevo due pezzi, che poi sono finiti sul primo disco dei Peawees, e poi è entrato il Lalo come bassista.
Ed è rimasto al tuo fianco per diciott'anni, mentre Livio è uscito a inizio 2000 per poi rientrare dal 2005 al 2008: non è una cosa frequente, quella del componente che rientra nel gruppo, spesso ci sono troppi screzi di mezzo...
Non è mai stato il nostro caso, per fortuna. Se guardi, anche l'ultimo concerto che abbiamo fatto al Dialma Ruggiero a Spezia, c'erano tutti gli ex membri della band, siamo rimasti come una grande famiglia. Per dire, settimana prossima abbiamo un'intervista in radio a Carrara, e andiamo io e Livio, nonostante lui non sia più da anni nella formazione della band. Per me lui è come se facesse ancora parte del gruppo, e così il Lalo.
Tecnicamente però sei ormai tu l'unico membro rimasto dei fondatori. C'è da dire che l'intero repertorio o quasi porta la tua firma. Qual è il pezzo a cui sei più legato?
No, troppo difficile, non riesco a sceglierne uno... Io credo che un pezzo rimanga tra quelli importanti, a cui sei più legato, quando dopo averlo composto continua a risuonarti in testa, a girare per del tempo. Per “Leave it behind” mi è successo per esempio con “Memories are gone” e “Don’t knock at my door”. Poi ci sono pezzi che rimangono perché dopo quindici anni la gente li vuole ancora sentire, come “‘Cause you don't know me” o “Road to rock'n'roll”.
Ce n'è invece magari uno di quelli storici, di quelli che in qualche modo “non puoi non fare”, da cui ti senti un po' più distante?
Sì, a volte ci sono pezzi che guardando la scaletta sul palco li vedi e pensi: “No, non ho voglia di farlo”... poi però sai quale sarà la reazione del pubblico nel momento in cui parte il pezzo e quindi ti prendi bene. Ci sono in realtà dei pezzi che abbiamo tolto dalla scaletta, per motivi stilistici più che altro, perché deve avere senso con quello che facciamo oggi.
In questi anni hai suonato molto sia in Italia che all'estero, hai prodotto dischi altrui, gestito locali (la Skaletta prima e lo Shake ora) e disegnato artwork e non solo. Per dire, ti manca di mettere su un'etichetta e di recensire dischi e poi hai fatto tutto!
E qui ti sbagli (ride, ndr), ho fatto anche l'etichetta: la raccolta esce per Wild Honey in collaborazione con Slowbeat Records, etichetta che ho attivato solo per questa occasione! In realtà mi sarebbe sempre piaciuto fondare un'etichetta, solo che una volta non c'erano i mezzi, adesso invece non è più il momento, ma è un'idea che non ho ancora accantonato. Non so se pubblicherò altri dischi come Slowbeat Records, però sicuramente è una cosa che mi piacerebbe molto fare.
Qual è secondo te lo stato di salute del punk nel 2015?
Be' se parliamo di punk nel senso più stretto del termine ti dico che non ne vedo molto e quello che c’è, nella maggior parte dei casi, scimmiotta cose già sentite e risentite. Poi se devo essere sincero io non seguo il filone strettamente punk da un bel po’. Amo il punk, ma ascolto prevalentemente le cose vecchie. Noi abbiamo iniziato come gruppo punk rock ma già a vent’anni mi rendevo conto che quello che facevamo non poteva avere molto senso senza una contaminazione personale. Quindi, se mi chiedi qual è lo stato del punk nel senso più vasto del termine, quindi parlando di band che hanno anche solo una componente punk, ti dico che è in buona salute. Ci sono un mucchio di band che spaccano in circolazione... ma rimane il fatto che il punk spesso ce l’hanno solo nell’attitudine, che secondo me è quello che conta.
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L'articolo 20 anni di Peawees di Silvio Bernardi è apparso su Rockit.it il 2015-05-13 11:29:00
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