Andrea Pulcini aka Persian Pelican ha passato una settimana in una yurta nelle Marche colpite dal sisma del 2016 per registrare il suo personale e sentito omaggio a una donna che ammira da sempre, la siciliana Rosa Balistreri, cantrice di un'altra "terra matta" e di un'altra epoca che però non sono poi così lontane dalle nostre. Ci siamo fatti raccontare la sua esperienza, la sua visione del folk e di un'artista senza tempo.
Raccontami qualcosa di questa esperienza della residence.
La residenza che abbiamo fatto per registrare questo disco, “Terra matta”, è nata da un bando indetto da 10 HeartZ, con l'idea di creare qualcosa che avesse a che fare con il territorio e con l'identità delle persone che vivono in quel territorio. A me era venuto in mente di lavorare sul canto popolare perché credo che non ci sia niente come questo genere musicale che custodisca le tradizioni e l'identità di una comunità. Attraverso il canto popolare si può comprendere il passato, i bisogni legati alle relazioni sociali delle popolazioni che hanno vissuto certi luoghi. Io volevo creare questa sorta di legame tra una Sicilia degli anni sessanta/settanta, che era quella che cantava Rosa con tutto il dolore e le storie di cui parlava nelle canzoni, e una situazione più contemporanea che era quella dei Sibillini dopo il terremoto del 2016. Per una settimana siamo stati ospiti all'interno di una yurta, che è una tenda mongola, in un'azienda agricola che produce formaggio, quindi tra pascoli di mucche, cavalli, asini e pecore; lì dentro abbiamo messo su uno studio mobile e abbiamo, io e i miei collaboratori, riarrangiato le canzoni che avevamo selezionato, e poi registrato. Siamo stati una settimana a contatto solo con la natura, spesso e volentieri venivano a trovarci gli animali perché erano attratti dal suono. Più che le parole, la musica avvicinava e serviva da dialogo con gli animali, e con tutto il mondo che ci ha ospitati.
Una settimana, quindi è stato un lavoro veloce.
Sì, la residenza durava una settimana, anche per quello abbiamo scelto solo sei canzoni, di più non sarebbe stato possibile. Tutto il lavoro è stato fatto con Paola Mirabella, che ha registrato percussioni e voci, e con Roberto Colella, che ha portato uno studio intero all'interno della yurta, registrando ogni respiro.
Com'è nata la scelta di reinterpretare Rosa Balistreri? La conoscevi già, ci stavi già pensando o è stata una decisione presa sul momento?
L'amore per le canzoni di Rosa ce l'avevo già da molti anni, sono appassionato di folk, quindi mi sono imbattuto in lei da appassionato di folk delle origini: in Italia è una delle migliori voci che incarnano questo genere. Quando incontri la sua voce, se l'ascolti in modo profondo e attento, non puoi restare indifferente. In realtà in passato mi era già capitato di fare una cover sua durante dei concerti, poi l'idea dell'EP è nata e si è alimentata anche da questa residenza, senza la quale magari non l'avrei mai realizzato. Diciamo che sono entrambe le cose, la conoscevo prima e la residenza ha donato un altro ingrediente per far sì che potessi preparare questa ricetta.
Invece per la scelta dei brani come ti sei orientato?
Il repertorio cantato da Rosa è molto ampio, ci sono brani che appartengono alla tradizione popolare che lei ha interpretato, oppure brani che ha scritto lei in collaborazione, ad esempio, con grandi poeti come Ignazio Buttitta. Io sono andato un po' a scavare nella sua enorme produzione canora, sonora, discografica, e ho cercato le canzoni che mi facevano vibrare più di altre, e che in qualche modo avessero a che fare con la situazione che vivono oggi le persone colpite dal sisma in quelle terre. Il titolo “Terra matta” è stato preso in prestito da un libro di Vincenzo Rabito, una sorta di epopea biografica di un personaggio nella Sicilia di inizio '900, e le canzoni che sono comprese nel disco esprimono soprattutto l'amore per la propria terra, che comunque è un sentimento molto vivo nelle persone che abbiamo incontrato e conosciuto in quei giorni durante la residenza: anche in una situazione difficile, anche senza casa, in case di fortuna, nelle roulotte, in condizioni di disagio, resistono e con il sorriso cercano di ricucire il loro rapporto con la terra che li ha visti nascere, dove lavorano e dove vivono. Quindi c'è questo legame profondo che si ritrova in molte canzoni come in “Ti vogliu beni assai”o “Terra ca nun senti”, canzoni che erano valide all'epoca ma che allo stesso tempo sono valide in qualsiasi tempo e latitudine. Poi ci sono altre canzoni, diciamo quelle più politiche di Rosa, come “I pirati a Palermu”, che riguardano un po' il rapporto tra mafia e politica, cercano di diradare le ombre su certi tipi di dinamiche, che possono essere quelle di una situazione che non è sempre limpida, o su momenti che fanno parte della vita di ogni persona, che si ripresentano e con i quali ognuno deve confrontarsi. E poi c'è sicuramente un affetto personale verso queste canzoni: a volte per capire un'opera ne devi fare un'altra, quindi ho deciso di selezionare queste canzoni per capirle anche io meglio. È stata una selezione affettiva e allo stesso tempo poetica e testuale.
Tu sei marchigiano. Vivi ancora nelle Marche? Come hai vissuto quel momento?
Non più, ma all'epoca del terremoto vivevo lì, quindi l'ho vissuto in prima persona, fortunatamente senza danni, però conosco molte persone che sono rimaste senza casa e sono ancora senza sistemazione definitiva.
Da un punto di vista più strettamente musicale come hai lavorato sulle canzoni?
Ho tenuto pressoché invariati i testi, abbiamo fatto solo un lavoro sonoro, di arrangiamento: sono partito a volte da un semplice riarrangiamento per chitarra e voce, distaccandomi dalla linea melodica della sua voce e trovandone una mia, perché il dolore di cui cantava Rosa chiaramente non è mio, quindi l'ho dovuto rendere personale e l'ho fatto attraverso una sorta di visione più romantica se così si può dire, anche più melodica, più soave. E ho cercato di personalizzarle attraverso l'uso di strumenti che uso normalmente, chitarre elettriche molto manipolate, con molti effetti: ho usato strumenti di vario tipo, ho cercato di mettere più ingredienti possibile per dare un altro colore alle canzoni. Mi andava comunque di fare un lavoro sulla tradizione, perché spesso e volentieri, oggi più che mai, siamo circondati da una sorta di barbarismo autoctono, ci sono i barbari autoctoni che vogliono il nuovo a tutti i costi, che vogliono spazzare tutto quello che c'era prima. Pensiamo ai giorni del sisma, quando c'era gente che rideva pensando che potevano ricostruire. Questa specie di noia per il passato io non la provo, anzi lì trovo sempre molta linfa, credo che abbia da dire ancora molto. All'interno del folk si può ricreare un terreno talmente fertile che puoi trovare il tuo spazio, il tuo vestito per ricoprire un po' le canzoni come più ti piace attraverso la tua personalità. In questo caso se le ascolti sono canzoni che sembrano uscite da un disco di Persian Pelican, ma cantate in siciliano con i testi originali. Un altro approccio che ho usato, lavorando io anche molto con i loop, è stato trovare una frase chitarristica e andarla a sommare in loop, poi sopra quella frase comincio a mettere altre parti di chitarra o di altri strumenti, come una casa che si costruisce, come dei piccoli mattoni che piano piano vanno a comporre una grande parete.
Ti cito: “attraverso la musica popolare si può comprendere il nostro passato, le condizioni sociali dei nostri antenati e i loro bisogni legati all'amore, al lavoro ed alle relazioni sociali”. Cos'hai imparato da questo lavoro, e cosa vorresti che imparasse chi lo ascolta?
Chiaramente questa è stata un'esperienza genuina e autentica di cui ho cercato di far sì che si percepisse il più possibile il sapore, anche all'interno della musica, è “fatto in casa” come in una cucina casalinga, si sentono anche i suoni degli animali, è molto grezzo. Eravamo circondati da una bellezza talmente insostenibile che in qualche modo si doveva tenere dentro, doveva finire dentro al disco anche a livello sonoro. Quello che ho imparato è che viviamo in una terra di incommensurabile bellezza ma che allo stesso tempo è matta, matta nel senso che non obbedisce a delle leggi umane ma ha delle leggi sue che noi non possiamo governare, da cui possono scaturire tragedie ma anche delle cose bellissime, storie stupende, relazioni umane. Quello che viene fuori da una residenza così è ritrovare una relazione e un legame più equilibrati con la natura e con l'ambiente che ti circonda, una sorta di radice che va a infilarsi nel terreno in maniera profonda e indissolubile. Oltre a farmi conoscere meglio e immergermi ancora di più nella cultura e nella lingua siciliane.
Quello che si può imparare, oltre a conoscere Rosa per chi non la conosce ancora, è a vederla sotto un altro aspetto, perché la tradizione è sì importante però non va rispettata in maniera ossequiosa, va sempre rinnovata, perché altrimenti può diventare macchiettistica: secondo me bisogna rinnovarla e renderla più personale, solo così può continuare a vivere.
Quello che mi farebbe piacere poi fondamentalmente sarebbe che le persone ascoltassero questa che è un'operazione totalmente di amore, non è nemmeno una vera uscita discografica, o un'opera commemorativa, perché non mi andava di fare una cosa che ricordasse Rosa ma piuttosto un dialogo a distanza con una persona che stimavo da sempre. Forse quello che più di tutto può dare è il potere dell'immaginazione contro la noia del vuoto, cercare dalla tradizione di immaginarsi qualcos'altro, dalle storie che raccontano i nonni far crescere qualcosa di nuovo.
Pensi che questa esperienza avrà delle ripercussioni sui tuoi lavori futuri?
Adesso sto finendo di scrivere e in autunno registrerò il nuovo disco di Persian Pelican ma non credo che questa cosa influenzerà più di tanto. Credo invece che influenzerà un altro progetto in italiano che uscirà il prossimo anno, anche nel fatto di tornare alla lingua italiana. Per il resto, a me piace molto quando musicisti, artisti, fanno delle cose anche al di fuori della classica uscita discografica, penso a un album che amo molto di Destroyer che si chiama “Five spanish songs” che è stato anche un po' ispiratore di questo EP, perché lui ha una discografia di tutto rispetto, che io amo molto però a un certo punto ha fatto uscire questo album di canzoni in spagnolo che trovo stupende, quindi questo piccolo EP mio si ispira un po' a questo: una sorta di ramificazione nella discografia, una strada diversa che può arricchire.
C'è qualche brano a cui sei più legato?
Sicuramente l'ultimo, “Quannu moru”, è il pezzo che ha dato un po' l'incipit a questo EP. È una delle ultime canzoni che Rosa ha registrato, ed è considerata un po' il suo testamento artistico. Se ascolti l'originale sentirai una voce profondissima, quasi una litania funebre: all'interno c'è una strofa che dice “quando io muoio cantate i miei canti, non li scordate, cantateli per gli altri”, quindi sento di aver raccolto l'invito di questo testamento. L'ho fatta mia e ho rifatto la mia personale versione di Rosa. Recentemente sono andato al cimitero di Firenze dove lei riposa e le ho portato una rosa rossa, che è un'altra cosa che dice la canzone, e gliel'abbiamo fatta ascoltare. Speriamo le sia piaciuta.
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L'articolo La terra matta di Persian Pelican e Rosa Balistreri di Letizia Bognanni è apparso su Rockit.it il 2018-10-04 10:30:00
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