"Azulejos" è il nuovo album di Populous che uscirà per Wonderwheel e La Tempesta International questo venerdì 9 giugno. È un disco che concentra in dieci tracce la sensualità selvaggia dei ritmi sudamericani (la cumbia su tutti) alla tradizione della musica elettronica e del clubbing europeo. In poche parole: il primo disco italiano di cumbia elettronica. Un lavoro che aldilà delle etichette sprizza felicità e buonumore a ogni nota, e che, a detta del suo autore, è anche ideale come colonna sonora al sesso. Dopo il release party allo scorso MI AMI Festival, Populous racconta la sua nuova creatura.
Per questo disco hai fatto i bagagli e sei partito per Lisbona, dove hai abitato per qualche mese. In effetti già solo leggendo la tracklist (con titoli come "Voz Serena", "Azul Oro", "Mi Sueno") si capisce che è un lavoro dalle atmosfere prevalentemente portoghesi e ispaniche...
La mia intenzione era quella di eliminare le influenze, ogni riferimento alla cultura “esterofila” come la intendiamo noi italiani, ovvero inglese e americana. Per questo avevo bisogno di avere degli stimoli nuovi a livello sonoro e culturale. Ero stato già in Portogallo, ma non a Lisbona. Era una città che volevo visitare già da tantissimo tempo, e l’anno scorso ho pensato che fosse un buon momento per farlo.
Sei andato completamente solo, giusto?
Sì. Non conoscevo nessuno, non conoscevo nemmeno il portoghese. Diciamo che avevo un'idea della città che mi ero costruito sulla base dei racconti dei miei amici, ma nulla di che. E così sono stato lì un mese e mezzo e ho cambiato cinque o sei zone della città, ogni settimana facevo un piccolo trasloco. Avevo voglia di vivere la città e di conoscerla bene. Se sei sempre fisso in un posto, alla fine finisci per sapere a memoria le strade attorno casa tua e basta. Io invece avevo voglia di vivere varie zone di Lisbona, che sono molto diverse tra loro. Ho cominciato da Alfama (la prima traccia del disco prende il nome proprio da questo quartiere, ndr), quindi l'impatto è stato con la parte più antica, tradizionale e selvaggia della città. Poi mi sono spostato nel Bairro, e dopo ancora a Principe Real, dove vive Panda Bear. Ma non l'ho beccato cazzo, ogni giorno dicevo "oggi lo becco, oggi lo becco, oggi lo becco, cazzo, lo faccio cantare nel mio disco!” E invece niente (ride, ndr)
Cosa hai riportato a casa di quei mesi portoghesi?
È stata un'esperienza conoscitiva da più punti di vista. Alla fine sono tornato senza comunque parlare una parola di portoghese, anche perché è incomprensibile, è una lingua completamente diversa rispetto al brasiliano che noi conosciamo attraverso le canzoni - sembra una lingua slava, una lingua molto spigolosa. Ad un certo punto ho socializzato con un gruppo di persone del posto che mi hanno consigliato delle cantanti della zona, però non mi convincevano appunto per questa spigolosità sonora, che non era quello che stavo cercando. Per questo e per altri motivi, dopo poco ho abbandonato l'idea di collaborare con dei musicisti portoghesi. Però essere lì è stato comunque di fondamentale importanza per questo disco. Per dire: camminare per le strade e vedere i ragazzini che, con in mano il cellulare, invece di ascoltare il Marracash di turno ascoltavano il kuduro angolano è stato pazzesco, una roba strana. Anche gli artisti di strada erano molto concentrati sull’aspetto ritmico. In generale c'è una concezione ritmica molto particolare a Lisbona, probabilmente influenzata proprio dalla tradizione angolana.
Gli scambi tra il Portogallo e l’Angola se non sbaglio iniziarono già nel Medioevo, per cui...
Esatto, e poi è stata ovviamente una colonia. Per quello che ho potuto vedere io, gli angolani in Portogallo sono molto integrati nel tessuto della società. Pensa anche a tutta la scena che ruota intorno a Branko dei Buraka Som Sistema: ci sono i bianchi, ci sono i neri, angolani e non. O anche questa etichetta/negozio di dischi che si chiama Principe Discos, che produce delle cose pazzesche a livello sonoro, un po' simili a quelle cose che sta spingendo in Italia Gqom Oh!. Il concetto è quello. Pezzi che sono fondamentalmente ritmo puro che non può funzionare durante un ascolto domestico. Può funzionare solo sparato a migliaia di watt, in delle situazioni notturne, da ballo.
Tornando a Lisbona…
Che ti devo dire? Non volevo tornare più in Italia. Mi sono sentito iper integrato pur non parlando una parola di portoghese, e poi la città non l’ho trovata così decadente come me l'avevano descritta.
E poi c'è questa cosa strana, veramente particolare, che ho realizzato dopo un paio di settimane dal mio arrivo: c'era una luce stranissima. Il periodo era quello di aprile, c'era una luce veramente immensa e inquietante, quasi psichedelica. E mi ricordava insistentemente qualcosa. Il mare, la città con tante salite e discese, la luce pazzesca, i tramonti. Alla fine mi ha ricordato Napoli. Poi sono andato sulla cartina a vedere i meridiani e i paralleli, ed effettivamente Lisbona è sullo stesso parallelo di Napoli. Ovviamente sono due città molto differenti, ma alla fine di tutto ho capito che per me l'elemento marino è una cosa fondamentale. Non posso vivere lontano dal mare. Sembra una banalità immonda, però è vero.
Come si svolgeva una tua giornata tipo?
Diciamo che ho studiato la città. Avevo portato un computer, qualche macchinetta, un microfono per i field recordings e poi sono andato in giro per mercatini, negozi di dischi, negozi dell'usato e ho comprato solo musica che proveniva dal Portogallo o da tutto il Sudamerica, quindi Colombia, Brasile, eccetera. In realtà sarei voluto andare in Sudamerica a scrivere il disco, ma sarebbe stato troppo complesso. Allora ho scelto Lisbona perché per prima cosa avevo voglia di vederla, e poi perché secondo me è un punto a metà tra il nostro occidente e tutta la tradizione sudamericana. La mia intenzione era fondere le influenze sudamericane con la tradizione elettronica europea. Mi era sembrata una cosa logica, almeno nella mia testa.
(Foto di Jacopo Farina)
Tra le altre cose, sei stato completamente da solo per due mesi. Com’è stato?
È una cosa che mi capita di rado, stare da solo. Ed era una cosa che cercavo perché volevo concentrarmi molto sul processo creativo. Io sono super pigro: se sono a casa, qualsiasi cosa mi fa distrarre. Per questo volevo ricreare una situazione di isolamento, da solo in una città sconosciuta. Di solito mi svegliavo la mattina e ascoltavo tutta la musica che avevo comprato il giorno prima, e selezionavo i suoni per i campioni. Poi uscivo e di nuovo tornavo in casa per comporre di nuovo al computer, e via così...
La primissima cosa che mi ha colpito di questo disco è che, ascoltando le tracce, si ha come un'esperienza sinestetica: si riesce quasi a visualizzare i colori che evocano le canzoni
Non è un caso che il disco si chiami "Azulejos", che sono proprio queste mattonelle colorate tipiche di Lisbona ma anche della Spagna, del Marocco e di altre parti del Mediterraneo. La particolarità di quelle di Lisbona è che, essendo molto lucide, riflettono molto il riverbero della luce solare. Che è già tanta di suo. Vedere le facciate dei palazzi con queste mattonelle che si illuminano, che hanno questi riflessi strani, diventa veramente una cosa psichedelica. E una cosa che volevo trasmettere attraverso questi pezzi era l'idea della luminosità della città. Poi mi sono immaginato di finire queste tracce e di risuonarle al tramonto, sulla spiaggia. Non volevo uscisse qualcosa di ansiogeno, o di oscuro. Volevo fare un disco da presa a bene.
Esatto. Tutte le tracce sono di un “presobenismo” commovente. Non è solamente un disco felice, mi sembra non sia un tipo di felicità piatta, ma è mista ad un sentimento di serenità unica e voglia di divertirsi
La felicità fine a se stessa può anche sfociare nella stupidità, a volte. Le persone che sono felici a prescindere non hanno capito un cazzo della vita, bisognerebbe essere felici con una certa consapevolezza di fondo. Secondo me nel disco però c'è anche un altro aspetto, che è quello della malinconia. La malinconia è sotto, veramente sotto. Perché quando ero a Lisbona sapevo che sarei ritornato alla mia vita. Non che la mia vita sia triste, chi mi conosce lo sa che mi diverto e sono sempre in compagnia, ma mentre ero lì sapevo che stavo vivendo un’esperienza unica che non avrei ripetuto mai più. Magari la rivivrò in un altro posto, ma so già che se tornassi a Lisbona per fare un disco, non sarebbe la stessa cosa.
La seconda cosa che mi ha colpito di “Azulejos” è che mi sembra un disco estivo, non riuscirei a concepirne un ascolto invernale, lontano dal mare, dal sole e dal bel tempo. Nelle tue composizioni c'è sempre una serenità di fondo che riporta tantissimo all'atmosfera estiva o primaverile. Insomma, cose nuove che nascono, che sbocciano…
Il mio momento preferito dell'anno è sicuramente la primavera. Diciamo che mi sarei opposto se qualcuno mi avesse proposto di farlo uscire in inverno. Non avrebbe avuto tanto senso, secondo me. Non sono solo fissazioni da artisti, per me decidere quando fare uscire un disco è importantissimo, perché sai che la gente assocerà quei suoni a quel periodo dell’anno e della propria vita. Infatti se c'è una cosa che mi ricordo distintamente è la prima volta che ho ascoltato "Fly Or Die" dei N.E.R.D: era una sera di primavera, con una brezza profumata. Adesso ogni volta che ascolto un pezzo di "Fly Or Die" mi ricordo di quel periodo, di quella sera in cui l'ho ascoltato per la prima volta a casa. E la stessa cosa la potrei dire di tanti altri dischi.
In quale contesto speri che la gente ascolti il tuo disco?
Per prima cosa, penso che “Azulejos” si possa ascoltare tranquillamente a casa mentre si fa altro, di sottofondo. Ma è ottimo anche se ascoltato a volume alto, per ballare. Di sicuro non è adatto ad un rave o nel momento clou della serata, ma ci tenevo anche che fosse, tra i miei dischi, quello più ballabile.
Questo è il terzo aspetto chiave di “Azulejos”, secondo me: oltre al presobenismo, oltre ai colori e al Sudamerica, c'è anche una certa attenzione al clubbing. Si sente che vuoi far ballare, ma non in maniera esasperata.
È per questo che ho deciso di non occuparmi io del mix. Volevo fare un disco che potesse essere suonato anche nei club o nei sound system in riva al mare, e quindi mi sono rivolto a Jo degli Aucan. Avevo bisogno di un orecchio esterno che mi potesse aiutare a definire degli standard da club, quindi dosare bene le basse frequenze, fare una cassa di suoni bella grossa. È un disco che suona bene, ecco. Sono contento di come suona, forse perché non ho fatto io il mix (ride, ndr).
(La copertina di "Azulejos" disegnata da Hello This is Kae)
Per la prima volta hai affidato la pubblicazione del disco anche ad un’etichetta italiana, La Tempesta International. Com'è andata?
Sì, perché mi è stato abbastanza chiaro che non aveva senso lavorare con un’etichetta straniera sul mercato italiano. Però ci tengo a precisare che la mia collaborazione con La Tempesta è andata al di là del semplice "mi piace la tua musica, vuoi incidere con la mia etichetta?". E ti spiego perché. Quando ho incontrato Enrico Molteni un po' di tempo fa gli ho spiegato quello che volevo fare. Gli ho detto "guarda, mi fa piacere che tu voglia collaborare con me, ma io sto facendo un disco con sonorità sudamericane, con molta cumbia, non so se è adatta a voi". E lui mi fa "ma dai, non ci posso credere! Anche noi con i Tre Allegri Ragazzi Morti siamo in fissa con la cumbia". Poi è uscito il pezzo cumbia dei Tre Allegri con Jovanotti, e poi ancora il progetto dell'Istituto Italiano di Cumbia. Questa coincidenza è stata veramente inquietante e quindi ho pensato "ok, se veramente io un giorno collaborerò con un'etichetta italiana, deve essere La Tempesta".
Anche io sono entrata nel tunnel della cumbia da due o tre anni a questa parte. È virale, pazzesca. Lo scorso anno ne parlavamo con Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, e secondo lui la ragione per cui ti si attacca così tanto addosso è che è semplice e ripetitiva, ma allo stesso tempo quasi animalesca. Una cosa quasi “punk”
La cumbia viaggia su due binari paralleli: quello della melodia, che solitamente è anche malinconica, e quello del ritmo. E il ritmo è super sexy, davvero super sexy.
Secondo te è quello che la rende una musica contagiosa?
Sì, è quello, è sexy. Stimola delle parti di te e del tuo corpo che un altro tipo di musica non riuscirebbe nemmeno a sfiorare. La techno per esempio va a toccare delle corde, la cumbia altre completamente diverse...
In effetti è una chiave di lettura che ha senso
Per forza. È una musica tremendamente sexy. Deve essere per forza così. Ci ho riflettuto molto sopra, e questa cosa mi ha conquistato. Il disco è influenzato dal kuduro, dall’afro funk, alcune tracce sono più veloci, altre più lente. Però ero sicuro di voler fare un disco un po' sexy, fisico…
Avvolgente?
Maschio, se mi permetti il termine, ma non machista. Alla fine il sesso è una cosa che non avevo mai preso molto in considerazione nella mia vita, però ultimamente è abbastanza importante...
Quindi mi stai dicendo che è un disco per scopare?
Sì! (ride, ndr) È anche un disco per scopare. Ce ne vogliono di più di dischi così!
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L'articolo Populous - Ritmo puro per riflettere la luce di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2017-06-05 12:17:00
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