Mauro Remiddi ha lasciato l'Italia dal 2002, prima Londra e poi New York. Nel mezzo ci sono state tante esperienze musicali diverse - tra cui un David di Donatello, un musical, una band di buskers, un gruppo indie - e solo ora, a 40 anni ha iniziato a fare dischi seriamente. Non poca roba quindi, e lui te la riassume con scioltezza raccontandoti i momenti pesanti, le paure, i rapporti personali persi, tutte cose che il suo ultimo album, “Permanent Signal”, ti restituisce meglio di una radiografia. Sandro Giorello l'ha intervistato.
Partiamo dalla tua storia. Ti sposti a Londra tardi, a 27 anni, non sembra il classico colpo di testa che si fa da adolescente.
No, in realtà è il contrario. Una mossa del genere difficilmente è ragionata. Ai tempi non sapevo nemmeno parlare inglese, per cui immagina uno che lascia i suoi amici e ricomincia da zero in un altro paese con una cultura completamente diversa. Se ci avessi pensato troppo non sarei mai andato via. E' stata una sorta di intuizione: ho intuito che non avrei mai combinato nulla in Italia. In più c'era un fattore, diciamo, famigliare. Ho avuto un'infanzia felice, una famiglia bellissima, ecc ecc, però ho iniziato a sentire troppi occhi su di me. Troppa gente che si preoccupava per me. Mauro è strano, mi dicevano, ma io non mi sentivo strano (sorride, NdA). Sai, c'è quest'idea della famiglia italiana che ti segue sempre ad ogni passo della tua via, per certi versi è anche bello, fantastico, però, ecco, la mia incominciava a starmi stretta.
Di che tipo di estrazione sociale è la tua famiglia?
La mia è una famiglia povera, ma mi ha sempre incoraggiato a investire sulla musica, ed è stata la cosa fondamentale. Magari non mi hanno dato della basi economiche, o insegnato a guadagnare soldi, ma mi hanno trasmesso un certo tipo di confidenza, del tipo: se sbagli, fa niente, riprova. E per un bambino questo tipo di sicurezza è fondamentale.
La mia domanda iniziale era dovuta a questo: a 25 anni tu avevi già vinto un David di Donatello per un corto, a 27 avevi partecipato come musicista a uno spettacolo di tip tap a New York di cui, tra l'altro, avevi composto diverse partiture. I segni, a volerli leggere, c'erano tutti. Il trasferimento a Londra mi è sembrato un semplice tassello di una persona che ha deciso di continuare meglio la sua carriera musicale.
Ho avuto la fortuna di essere cresciuto in Italia (sottolinea bene la parola fortuna, NdA), è un paese eclettico, ti apre la testa a mille strade. Ho avuto prima un band di buskers e abbiamo girato molti festival italiani, abbiamo per caso incontrato un circo di Berlino e ci hanno invitato a suonare con loro. Poi ci sono state colonne sonore... Insomma, ho avuto la possibilità di crescere sperimentando le cose più assurde e, semplicemente, imparare a capire cosa mi piaceva. Ed è fondamentale, posso dire che la mia “carriera musicale” inizia a 16 anni, ma ho iniziato a far dischi ora che ne ho 40. Ora ho una mia maturità, una mia voce, ho la possibilità di godermi cosa mi sta succedendo in maniera, forse, più profonda. Me ne sono andato dall'Italia perché, situazione famigliare a parte, ci sono anche un sacco di cose negative. Quando ho vinto il David sono accadute cose assurde, il regista non voleva più lavorare con me perchè la sua produzione voleva affiancarlo a musicisti più famosi. E a quel punto mi sono cadute le braccia, semplicemente ho capito che non avrei potuto andare avanti soltanto con il talento. Anche se molti amici mi dicevano che stavo scappando, che mi stavo lasciando alle spalle cose non risolte.
Che tipo di cose non risolte?
Discorsi del tipo: dovresti essere qui, lottare e creare una scena musicale più credibile, creare qualcosa di speciale.
Una volta a Londra, l'attenzione che hai ottenuto è arrivata naturalmente o hai dovuto lavorare molto per farti conoscere?
Ti direi naturalmente. Sono arrivato nel 2002 e ho continuato a esplorare la musica come ero abituato a fare in Italia. Ho iniziato una sorta di progetto elettronico live, dove io suonavo le tastiere e un mio amico la batteria; facevamo cose tipo Boards Of Canada, ma suonate dal vivo. Non avevamo chissà che riscontro a livello di fan o della stampa, ma avevamo molte date ben pagate, avevamo addirittura delle residencies settimanali in alcuni bar. Per un certo periodo ci siamo abituati fin troppo bene, siamo diventati lazy, ma obiettivamente era un progetto che non portava da nessuna parte. Allora ho mollato tutto e ho fondato il mio primo gruppo, i Sunny Day Sets Fire. Lì sì che c'era da lavorare, passavo ore su ore a scrivere e registrare.
Secondo wikipedia i Sunny Day si sciolgono nel 2009. Perchè?
Perché non mi sentivo più a mio agio, ad un certo punto erano usciti discorsi tipo: bisogna essere seri, dobbiamo trovarci un produttore. Cose che io non ho mai capito, volevo semplicemente creare qualcosa di originale, prodotto da me. E non è stato facile, quella era diventata la mia identità, doverla abbandonare mi ha buttato giù parecchio. Ci ho messo un bel po' prima di ricominciare a scrivere. Quando ho registrato i primi demo di Porcelain Raft ho deciso di ripartire da zero e di non usare nessun tipo di contatto che avevo raccolto con il gruppo (booking, label, management, ecc ecc). Ai tempi MySpace stava per morire ma un po' funzionava ancora, ho postato un paio di brani e diversi blog londinesi mi hanno contattato per spingere la mia musica. Dopo un mese avevo già diverse mail da label come 4AD, Rough Trade. Il tipo della 4AD, in particolare, rimase impressionato e suggerì ai Blonde Redhead il mio nome per l'opening act di alcuni loro concerti.
Sembra una favola.
Londra è un polo discografico importante per tutta l'Europa ma, dopotutto, resta pur sempre solo una città. E' facile, quindi, che gli addetti ai lavori frequentino gli stessi posti. Davvero può capitare che suoni in un bar e al bancone trovi il tipo di Rough Trade o il dj X che ti chiede una collaborazione. Hai un grosso spotlight tutto per te, magari dura solo cinque minuti, sta a te giocarteli bene.
E l'altro lato della medaglia?
C'è anche il lato negativo, ovvio, ed è una cosa che negli USA non ho ritrovato. Vivo a New York da un paio d'anni e ti direi che qui la scena è più sana. In UK c'è la tendenza a creare un hype così assoluto e forte appena nasce una band per poi lasciarla cadere quando l'album è pronto. E quindi ci sono moltissime band che ogni anno vengono super hyped da NME o altri magazine, per poi essere abbandonate poco dopo. Per cui non è più una questione di talento, è far diventare un piccolo pulcino un dinosauro nel giro di pochi mesi, e ovviamente se hai vent'anni il tuo ego esplode; poi, quando tutti quanti se ne vanno e tu rimani da solo con la tua musica, entri in una depressione assoluta. Molte band si sono sciolte per quello... cos'è 'sta roba? (c'è casino nella stanza vicino alla nostra, NdA).
E' un remix dubstep degli Afterhours, ogni tanto in redazione lo mettiamo su per farci due risate.
(Ride, NdA) Com'è la scena italiana oggi? Mi ricordo che cinque anni fa con i Sunny Day, avevamo partecipato ad un festival in Sardegna organizzato da Rockit, il Mine Festival, e c'era questa band formidabile, Il Teatro degli Orrori, forse erano appena usciti. Una vera bomba. Fossero nati in America ora sarebbero, che ne so, i Nirvana.
C'è chi dice che se fai le cose in America conquisterai il mondo, se sei in Europa rimarrai lì, per via del mercato ristretto, ecc ecc.
Secondo me sono due punti vista differenti, e sono entrambi positivi. Negli USA l'attitudine musicale, è molto fresh, non hanno un'infrastruttura culturale come c'è in Europa. In Europa c'è un sacco di cultura, sai, a partire dall'arte classica, poi quella rinascimentale, i futurismi, le avanguardie, ecc ecc. Per per cui quando inizi a fare una cosa c'è sempre una sorta di self consciousness, è come se dovessi...
...rendere conto a chi è arrivato prima di te?
Esatto. Negli USA questa cultura non esiste, sono dei bambini, è come se conoscessero tutto per la prima volta. Può essere il dubstep come qualsiasi altra cosa. Non gli interessa se sei silly, stupido, nessuno ti giudica. La parte positiva dell'Europa sono le radici, è un cilindro lunghissimo da cui puoi tirare fuori di tutto. Per come la vedo io da qui, molti paesi europei – la Germania, la Spagna, l'Italia, la Francia soprattutto – stanno vivendo un momento di memory lost, sono affascinati dalla musica inglese o americana e si dimenticano delle proprie radici. E non sto generalizzando, so benissimo che in molti lo hanno capito questo discorso e stanno sperimentando in questo verso. Ci sono ritmi tradizionali che possono aprirti a una miriade di idee, o melodie popolari che possono portarti soluzioni bellissime. E non è vero che il mercato è più ristretto, è un falso problema. Se fai una cosa fatta bene questa viaggia da sola.
In tutti questi spostamenti - Italia, inghilterra e America - come hai fatto con gli affetti da cui ti sei separato di volta in volta?
E' una delle parti più difficili, ma è anche una cosa che ti fa crescere. Capisci che se nasci in un posto, può essere l'Italia come un altro paese, dai per scontato che le persone ti siano vicine. Le conosci da sempre. Quando ricominci da zero impari a ridimensionare tutto. Capisci che puoi creare connessioni, amicizie forti anche in maniera spontanea. Ti dico, a Londra ho sempre lavorato, ho iniziato strappando i biglietti al cinema, non parlavo una parola di inglese e nonostante questo i miei colleghi mi hanno subito portato fuori con loro, si è creato un'empatia istantanea. E ora sono i miei migliori amici.
Le connessioni sembrano l'argomento centrale delle canzoni di “Permanent Signal”. C'è uno strano senso di isolamento.
L'ho composto e registrato nel giro di due mesi, è la fotografia di quello che provavo una volta finito il tour, quando sono ritornato a New York e alla mia vita normale. Amo suonare dal vivo, ma il tour per forza di cose ti spinge in un altro mondo, come se fossi un una bolla separata dalla realtà. Per cui le canzoni hanno queste emozioni incerte, delle volte fragili, impalpabili, poco chiare.
Comunicano uno spaesamento.
Esatto, è come se fossi in una sorta di limbo. E, ti dico la verità, quelli della casa discografica all'inizio non hanno regito bene. "Ma dov'è il singolo?", dicevano. Mi hanno detto: Mauro, dobbiamo essere onesti, è intimo, bello, ma poche persone potrebbero connettersi ad una cosa del genere. Ovviamente sono importanti i feedback di questo tipo, li tengo sempre in considerazione, quindi ci ho ragionato molto, l'ho riascoltato per una settimana di fila ma ad un certo punto sono arrivato quasi a sentirmi in colpa. Alla fine gli ho detto: this is it, questo è l'album. Mi hanno appoggiato ugualmente.
Mi spieghi l'immagine di te su una distesa di vetri rotti in “Minor Pleasure”?
E' difficile da spiegare. Mi ero immaginato questa persona seduta su uno sgabello molto alto e sotto questo deserto di vetri rotti, per cui appena sarebbe sceso tutti l'avrebbero sentito. "Broken glass on the ground", come ti muovi fai del rumore. Non saprei spiegarti meglio.
Mi racconti “It ain't over”?
Quest'album è una sorta di conversazione immaginaria che ho fatto con degli amici che, in qualche modo, non potevo raggiungere di persona. Quella canzone si riferisce ad una mia amica che non è stata molto bene, e allora le facevo coraggio dicendole che non era finita. Spesso parlo di queste cose, “I lost connections” parla di due miei amici carissimi che si non conoscevano tra di loro e poi hanno iniziato a frequentarsi e solo dopo hanno capito di avere me come amico comune. Parla di come le distanze a volte siano strane... in effetti, è difficile parlare di queste cose, alla fine le scrivo nelle canzoni perché non potrei raccontarle altrimenti.
Ultima domanda e rimaniamo in tema connessioni. Com'è stato scoprire quello che in Italia hanno chiamato lo scandalo “datagate”, ovvero Edward Snowden che rivela a tutti come il governo degli Stati Uniti abbia permesso un traferimento alla National Security Agency (NSA) dei dati relativi a milioni di telefonate. Com'è viverlo da americano?
Sai, qui c'è molta meno ipocrisia. C'è una di consapevolezza diversa su questo tipo di cose. Tutti lo sapevano, nessuno si è stupito. Tutte le persone che conosco, liberi professionisti, avvocati, persone comuni, non solo musicisti. Certo dicevano che era inaudito, perché non è normale che ci sia questo tipo di regime, un tipo di controllo che avvolge praticamente tutto il mondo e a cui si dedicano forze enormi per tenerlo nascosto. Però era evidente, was in place, direbbero i miei amici.
Concludo come farebbe mio padre: a soldi come sei messo? Il cambio UK-USA ha giovato?
(Sorride, NdA) A dirti la verità, continuo ad essere broke, come si dice qui. Non trovo una grossa differenza, penso che inizi a notarla solo quando i numeri diventano davvero grossi. Diciamo che ora posso sopravvivere serenamente con la musica, permettermi un'appartamento vero e non solo una stanza, comprarmi gli strumenti. Sono sempre senza una lira ma faccio una vita decente. Sto bene, grazie.
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L'articolo Porcelain Raft - Lost in translation di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2013-09-17 00:00:00
COMMENTI (4)
L'intervista è molto bella, ma - con tutto il rispetto e la stima - che il TDO avrebbe potuto diventare i Nirvana 5 anni fa, quando 5 anni fa (e tuttora) suonava come i Jesus Lizard del 1993...
Bell scambio. Mi ha colpito soprattutto quando fa il riferimento al Teatro degli Orrori di 5 anni fa.
bravone bravone
Numero uno.