port-royal - Filosofia di un suono "fuori moda"

Musica pensata per legare insieme le persone e per far bene all'amore. I Port-Royal raccontano il loro ultimo "Where are you now"

La band port-royal
La band port-royal

Ci sono voluti sei anni per arrivare a un nuovo disco. Dopo essere stati in giro per l'Europa e il Nord America, raccontano, si sono dedicati alle proprie vite personali, al lavoro, sempre precario, a tenere in piedi i contatti e le numerose collaborazioni che sono uno dei fulcri dell'album. Un incontro/scontro di diverse anime, dallo shoegaze all'electro-pop, dall'idm alla cassa dritta, in cui la filosofia gioca un ruolo fondamentale. Musica pensata per legare insieme le persone e per far bene all'amore.

Il titolo del disco è "Where Are You Now". Dove si trovano adesso i port-royal?
Non è così scontato rispondere alla domanda che dà il titolo al nostro nuovo album. Possiamo dire che ci siamo, anche se forse non sappiamo esattamente stabilire, in senso profondo, dove e se siamo adesso, concetti che vanno al di là della semplice locazione spazio-temporale. Geograficamente parlando, viviamo tutti a Genova, dove svolgiamo le nostre professioni parallele alla musica.

Dove siete stati negli ultimi sei anni dopo l'uscita di "Dying In Time"?
Come band siamo stati tanto in tour, girando per tutta l’Europa, l’ex Unione Sovietica e il Nord America. Abbiamo portato avanti alcune collaborazioni, frutto anche dei frequenti contatti intessuti durante l’intensa attività live degli ultimi dieci anni, ma soprattutto abbiamo lavorato a "Where Are You Now". Come singoli ognuno si è dedicato alla propria vita personale e lavorativa, permettendoci però anche il lusso di creare progetti paralleli come i Diamat di Attilio e le sperimentazioni di Emilio con Cabotronium.

Il primo aspetto che mi ha colpito ascoltando il disco è come tra il primo e l'ultimo pezzo, che regolano anche questa struttura circolare dell'album, ci sia veramente tanta massa, tanta densità sonora. Perché la scelta di "riempirlo" così tanto, passare dall'electro-pop alla cassa dritta, dalla dubstep allo shoegaze?
Sono tutti aspetti che fanno parte del nostro percorso e che, di conseguenza, ci rappresentano. Nulla nel disco è stato inserito col mero intento di riempire degli spazi. Anzi, nella versione finale dell’album, purtroppo, abbiamo pure dovuto tagliare qualcosa. D’altronde sin dall’inizio abbiamo sempre sviluppato discorsi molteplici e differenziati, non volendo né potendo mai rimanere legati a qualcosa di singolare. Tutti i nostri dischi offrono un prodotto finale, che è la sintesi, sempre precaria, dell’incontro/scontro tra tutte le varie anime musicali e non che albergano in noi.

Una riflessione interessante può essere quella relativa a un certo tipo di cristallizzazione che siete stati capaci di imprimere al vostro suono. Questo può aiutare da un lato ad essere riconoscibili, ad avere un'identità definita e personale, dall’altro però il rischio è che questo disco possa suonare “vecchio” alle orecchie di chi magari si avvicina per la prima volta ai port-royal. Come vi rapportate a questa cosa?
In questo periodo storico, in cui si può accedere in maniera immediata a quasi tutta la musica prodotta nella storia dell’umanità, con il rischio inevitabile di un consumo quasi frenetico (che non permette di assorbire realmente niente), i cambiamenti e le evoluzioni, posto che poi ci siano, viaggiano a una rapidità tale che il tentativo di ottenere sempre il suono giusto al momento giusto può diventare, almeno per quanto ci riguarda, una gabbia espressiva, che poi a ben vedere non porta tanto lontano. Pertanto non ci preoccupiamo più di tanto del rischio di suonare "vecchi"; ci preme piuttosto che il nostro suono esprima quello che siamo e siamo stati negli anni in cui abbiamo lavorato a questo album, quindi riflettendo in negativo anche il retroterra socio-culturale dell’epoca in cui viviamo. Se poi volessimo aprire il discorso, potenzialmente senza fine, di cosa suoni nuovo oggi, allora ci sarebbe da divertirsi. Cosa significa essere nuovo? Sembra davvero di vivere nel tempo della nostalgia perenne, e questo getta una luce sinistra quanto chiarificante sull’attuale epoca storica. "Essere nuovo" significa, piuttosto, creare un nuovo linguaggio musicale e produttivo, e quindi istituire una nuova percezione della musica. Ma è poi possibile? Per noi la domanda fondamentale è dunque questa: è possibile oggi essere radicalmente nuovi, come voleva lo spirito modernista delle grandi avanguardie della prima metà del Novecento? Considerando l’attuale situazione storica, è più saggio e corretto relativizzare: oggi il nuovo è ciò che non si cura di essere nuovo.

Quasi tutti i pezzi presentano questa doppia anima, partono lenti per poi aprirsi gradualmente e diventare epici ("Ain't No Magician" ad esempio), o al contrario accelerano subito per poi dilatarsi ("Death Of A Manifesto" ma anche "Karl Marx Song"). Come funziona la scrittura di un pezzo dei port-royal?
È abbastanza difficile parlare di "scrittura" dei nostri pezzi, in quanto in realtà quasi tutte le fasi della produzione di un pezzo avvengono in maniera non lineare. In pratica la scrittura, l’arrangiamento, il design dei suoni, il mixaggio, la produzione e la registrazione sono tutti passaggi che avvengono in maniera frammentata e senza un ordine prestabilito a priori. L’unica cosa che lasciamo sempre per ultima, ovviamente, è il mastering. Non c’è quindi un “metodo”. Probabilmente i primi esempi che porti sono un retaggio dei nostri ascolti post-rock anni ’90 e dei suoi crescendo ormai diventati cliché.

Quanto tempo avete impiegato a scriverlo?
Tutti i pezzi sono stati sostanzialmente scritti tra il 2010 e il 2013. Fanno eccezione "The Last Big Impezzo", una delle primissime canzoni scritte dai port-royal (se non la prima) e "Heisenberg". Il nucleo originario e principale di "The Last Big Impezzo" era già stato composto da Attilio nel 1999 (prima ancora di fondare i port-royal) e poi suonato con il gruppo in saletta (e live) dal 2000 fino al 2005. Finché il pezzo non venne spontaneamente abbandonato durante le registrazioni di "Flares"; psicologicamente forse ci sembrava allora troppo legata al primissimo periodo, che eravamo in procinto di lasciarci alle spalle. Tuttavia, sapevamo anche che incarnava qualcosa che la rendeva inassimilabile a quel primo periodo. Ecco forse spiegato, con questa dialettica paradossale, il vero motivo per cui l'abbiamo "covata" così a lungo. Tra il 2010 e il 2012, il pezzo è stato sostanzialmente riregistrato, ampliato, ripensato da cima a fondo, rielaborato, riarrangiato, mutilato di alcune vecchie parti (chissà se saranno mai registrate...), ricombinato etc. Fino al 2014 è stato oggetto di lavoro di lima, aggiunte e sottrazioni: non esageriamo se diciamo che forse si tratta del pezzo che più ci ha fatto penare! "Heisenberg", già scritta e suonata in saletta (ma mai live) nel 2000 o 2001, è il prodotto di una circostanza favorevole. Nel 2011, ritrovammo quasi per puro caso il giro chitarristico principale in coda ad alcune tracce di chitarra registrate nel 2004 per le session finali di "Flares". Il pezzo venne quindi ripreso, arrangiato ex novo, e infine sottoposto a Beatrice (la cantante) per poi diventare "Heisenberg".

Un aspetto che non è assolutamente scontato è quello relativo alle collaborazioni. Da fuori siete sempre apparsi un organismo molto autarchico in fase di produzione, in questo disco l'atteggiamento sembra cambiato. Come sono nate le diverse collaborazioni e cosa ognuna di esse vi ha aiutato ad aggiungere al disco?
Alcune collaborazioni sono state naturali, quasi inevitabili; basti l’esempio di Alexandr Vatagin e di Andrea Zangrandi, che sono stati entrambi collaboratori regolari per i live durante un certo periodo. Michele Di Roberto, che suona la batteria in "The Last Big Impezzo", è il fratello di Ettore, nonché nostro batterista dei primi anni "storici", il quale attualmente vive in Sud America. Dal momento che le prime versioni di questo pezzo erano nate in saletta proprio con lui alla batteria, ci è sembrato doveroso, sotto tutti gli aspetti, farlo partecipare alla stesura definitiva del brano. Il giapponese Kenji Kumemura, aka QPQQQPQ, è un nostro vecchio amico. Anni fa ci aveva fatto un ottimo remix e aspettavamo solo l’occasione giusta per poter collaborare, questa volta, a un pezzo nuovo. E «Karl Marx Song» non poteva rivelarsi occasione migliore per una tale collaborazione. Per quanto riguarda le voci aggiuntive di Bea May, Giada dei Vittoria Fleet, Veyl e Federico dei Jackeyed c’è stata una ricerca accurata e anche piuttosto lunga, che ci permettesse di trovare le persone giuste che fossero in sintonia con la nostra attitudine. Ma non si tratta di una novità assoluta, visto che già nel precedente "Dying In Time" avevamo lavorato con vari cantanti, seppur ci fossero meno parti cantate e meno pop rispetto a questo nuovo capitolo della nostra produzione.

La prima parte di "Death Of A Manifesto" è un'ottima sintesi pop. Avete mai pensato di dedicarvi a quello e lasciare da parte i droni?
In realtà vorremmo produrre pop con i droni!

Qual è il "manifesto" a cui si fa allusione nella prima traccia e di cui si celebra la morte?
Il titolo lascia intenzionalmente spazio a diverse interpretazioni. Essendo la prima traccia del disco e anche una delle più “pop”, potrebbe essere interpretato come un addio definitivo alle aspettative legate a echi di un certo tipo di musica che ci insegue dall’uscita di "Flares". Ma abbiamo voluto anche rievocare il concetto/speranza della morte come vita. Con Adorno, è proprio non realizzandosi che la filosofia e il manifesto politico “morto” si mantengono in vita.

Con quale chiave di lettura bisogna leggere le citazioni ad Adorno, Marx e Heisenberg nei titoli del disco?
Per quanto riguarda "Theodor W. Adorno" e "Karl Marx Song", chiari sono i riferimenti alla filosofia, cosa che da sempre contraddistingue la nostra produzione musicale ("Regine Olsen", "Karola Bloch", "Ernst Bloch", per citare alcuni nostri titoli più direttamente ed esplicitamente legati all’universo filosofico). Theodor W. Adorno e Karl Marx sono tra i filosofi che più apprezziamo. Il loro approccio critico-negativo alla realtà sociale reificata rimane imprescindibile nell’epoca dell’ideologia soft della post-ideologia del consumismo come imperativo, in cui la critica è tacitamente bandita dall’interno di ognuno di noi e sciolta nella sfera onnivora e riciclante del consumo. Adorno e Marx, pur con tutte le loro differenze, significano, in una parola, non adeguarsi, quando invece l’adeguamento e l’adattamento sono il diktat del "mondo amministrato". Con la nostra musica abbiamo quindi voluto offrire un piccolo tributo a questi grandi filosofi e al tempo stesso, abbiamo inteso testimoniare la nostra visione e rielaborazione del loro pensiero, provandone a catturarne alcuni lampi. D’altronde, sin dall’inizio, abbiamo concepito filosofia e musica in costante rapporto dialettico: filosofia della musica e musica della filosofia. "Heisenberg" è invece frutto di un’estetica del secondo grado. Non si riferisce all’omonimo fisico-filosofo tedesco, bensì alla sua rivisitazione e ripresa in "Breaking Bad", serie TV di cui siamo estimatori, dove Heisenberg è appunto l’alter ego del protagonista/antieroe Walter White. È interessante notare come da una quindicina di anni negli Stati Uniti i vertici dell’arte, della filosofia e della critica sociale (per quanto quest’ultima espressione possa apparire in un certo senso ridicola o paradossale negli Stati Uniti e, forse, oggi nel mondo intero) convergano ed emergano nella produzione televisiva.

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Ho visto il lavoro che avete fatto con il video di "Death Of Manifesto", è esemplificativo dell'attenzione che avete sempre riservato agli elementi visuali nella vostra musica. Avete studiato anche per il live delle forme di interazione con il pubblico sotto quel punto di vista?
Per il nuovo live che porteremo in giro abbiamo deciso di non aggiungere nessun tipo di supporto visivo. Dopo quasi dieci anni di concerti con i visuals abbiamo sentito il bisogno di tornare alla semplicità del rapporto musica-pubblico senza elementi aggiuntivi.

Che tipo di set porterete in giro?
Stiamo preparando il live proprio in questo periodo e stiamo sperimentando alcune soluzioni nuove per renderci la vita un po’ più difficile…

Ho ritrovato questa vostra nota del 2009 dove vi lamentavate del fatto che nessuno vi chiedesse mai nelle interviste se suonare nei port-royal era il vostro vero lavoro o c'era anche qualcos'altro che vi aiutava economicamente a sopravvivere. Alla fine concludevate dicendo che quel tipo di precarietà, nella quale la musica, rispetto alle vostre vite, finiva per essere inserita, era il marchio di fabbrica della band. Oggi la situazione è rimasta immutata?
Quando la band è nata eravamo tutti studenti. Poi, nel corso dei successivi quindici anni, ognuno di noi ha proseguito con la propria vita e con il proprio personale percorso professionale. I port-royal non sono mai stata l’unica occupazione di nessuno di noi, ma le nostre altre attività si sono quasi sempre intrecciate con il percorso della band, che rimane fondamentale per le nostre vite. Nello specifico, Attilio ha intrapreso un percorso accademico che lo ha portato a svolgere attività di ricerca e docenza all’Università e nei Licei (Filosofia e Storia) – attualmente è impegnato nella scrittura del suo nuovo libro sulla "filosofia della musica elettronica"; Ettore è diventato magistrato, ed Emilio si occupa principalmente di sound design e post-produzione. Con l’eccezione del caso di Ettore, la precarietà continua a essere una dimensione costitutiva delle nostre vite.

Ultimamente guardate a quello che succede in Italia, al fermento che ha investito una parte della scena elettronica? C'è qualche band o producer che vi piace?
In generale, la crescita sul piano della musica elettronica che ha avuto l’Italia negli ultimi anni è evidente. Oltre al ritorno di Populous, che seguivamo già ai tempi della Morr Music, ci sono tanti giovani produttori e musicisti che ruotano attorno a una serie di etichette molto attente al suono come la Bad Panda, la MagmatiQ, la White Forest, la Eves Music etc.

Un po' di domande secche: le ultime cose che state ascoltando?
Tante, tra tutte le preferite provengono da: Kiasmos, Chrome Sparks, Baths, Okada, TRST, Oneohtrix Point Never, Emeralds, The Field.

Qual è l'ultimo live che vi ha veramente scosso? Avete presente uno di quei live in cui esci con più domande che risposte dalla venue?
Recentemente non ci sono stati live che ci abbiano davvero scosso. Questo per vari motivi, forse più soggettivi che oggettivi: da giovani e inesperti è più facile entusiasmarsi, frequentiamo meno concerti rispetto a qualche anno fa, magari il livello generale delle proposte è inferiore rispetto a dieci o quindici anni fa. Gli ultimi live che ci abbiano veramente colpito risalgono a parecchi anni fa: pensiamo ai concerti di fine anni ’90/inizio anni ’00 di gruppi come Autechre, Mogwai, Arab Strap, The Chemical Brothers.

C'è un'artista tra quelli che ascoltavate agli inizi che ritenete sia invecchiato meglio di altri?
Non ce ne viene in mente nessuno. Tutti quelli che ascoltavamo agli inizi hanno smesso di suonare o si sono inevitabilmente evoluti (o involuti!) in qualcosa che non soddisfa più i nostri gusti, anch’essi evoluti (o involuti!).

Ci sono degli obiettivi, degli step che vi siete prefissati, per cui questo disco potrà dirsi riuscito o meno?
Il nostro obiettivo è sempre e soltanto essere completamente soddisfatti del risultato finale di tutto l’enorme lavoro svolto per produrre un album. E, in questo senso, possiamo considerare "Where Are You Now" un disco riuscito, altrimenti non l’avremmo pubblicato.

Ci saranno da aspettare altri sei anni da qui al prossimo lavoro, o possiamo ritenere questo come il primo capitolo di una nuova fase nella vostra carriera?
Chi lo sa? Certamente il ritmo di lavoro musicale non è più quello degli anni ’00 in cui potevamo e volevamo dedicarci maggiormente al progetto port-royal. Come abbiamo ripetuto spesso sin dall’inizio, ogni nostro disco si configura sempre come se fosse l’ultimo. Facciamo del nostro meglio per renderlo un ottimo prodotto, sapendo che "del domani non v’è certezza". Però, alla fine, questo motto per cui ogni produzione potrebbe essere l’ultima ci ha fatto andare avanti bene… In ogni caso, tutto quel che verrà sarà un dono di cui saremo grati, come già dicevamo anni fa...

Ogni vostro disco si caratterizza per essere nel momento dell’ascolto un’esperienza profondamente individuale prima di tutto. Avete mai pensato a dei momenti ideali per ascoltare un disco dei port-royal?
Da svariate persone provenienti dai paesi più diversi ci è sempre stato detto che la nostra musica è perfetta per l’attività sessuale. Pensiamo ci sia una componente di verità in queste affermazioni: ci sembra che in qualche modo la musica dei port-royal leghi le persone, le unisca e non sia soltanto adatta ad ascolti "in solitario". Comunque, potenzialmente, a ben vedere ogni momento, anche quello apparentemente meno adatto, potrebbe regalare un ascolto totalizzante, in cui perdersi per poi ritrovarsi, magari solo che un poco più felici e soddisfatti. Va però detto che si tratta di una musica che richiede, per poter essere apprezzata in pieno e regalare esperienze piacevoli, un’attenzione particolare oltreché un ascolto strutturale e reiterato.

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L'articolo port-royal - Filosofia di un suono "fuori moda" di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2015-09-28 10:33:00

COMMENTI (1)

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  • Utente eliminato 9 anni fa Rispondi

    ma questi nel 2015 parlano ancora di "ex Unione Sovietica "