Da decenni artisti come Claudio Baglioni, Riccardo Cocciante, Umberto Tozzi, Max Pezzali imperversano su radio, televisioni e spiagge del Belpaese. Sono alcuni dei capisaldi inossidabili dell'italianità, parte di una cultura popolare che volenti o nolenti tutti noi ci portiamo dietro in una certa misura, amandoli o odiandoli con tutto il cuore. Per quanto avanzino sempre di più nuovi hitmaker nostrani, non può esistere un'estate passata senza sentire almeno una volta Centro di gravità permanente o Disperato erotico stomp, a meno che non si viva chiusi in un eremo.
Contemporaneamente dall'altro lato della spiaggia le tendenze alternative e sperimentali si sono sempre tenute a debita distanza da questi idoli nazionalpopolari, scavando una strada altra e portando avanti un'idea di musica agli antipodi del seminato dei loro ingombranti e malvoluti colleghi. Negli anni l'Italia ha visto nascere un numero enorme di controculture e subculture musicali, il cui lascito continua a essere raccolto da nuove generazioni. Ma il mondo del pop italiano non scompare, è un monumento celebrato o ingiuriato che non verrà mai abbattuto.
Ora è stato costruito un ponte tra questi due mondi da parte di una delle realtà più atipiche del panorama nostrano. Una band che ha vissuto negli anni numerose incarnazioni e mutazioni, sempre alla ricerca di un sound abrasivo e dirompente come il punk, ma al contempo scomposto e stratificato come il jazz più libero. Gli Splatterpink – formazione seminale nata a Bologna nel 1990 – sono tornati in scena dopo un periodo di pausa con un album atipico e di certo inaspettato. The Best of Italian Music, uscito in vinile e cd per Improved Sequence (che ha anche ristampato il loro primo storico lavoro "Industrie Jazzcore), prende una manciata di inni della musica "iper-generalista" italiana – come la chiamano loro – e li decostruisce, stravolgendone armonia, ritmo e arrangiamenti, per dare vita a un ibrido tra l'hardcore e il pop, tra il concerto punk e il Festival di Sanremo.
Ascoltare Ci vuole un fisico bestiale di Luca Carboni trasfigurata in una cavalcata schizzata alla Primus o Vaffanculo di Marco Masini massacrata da cannonate adrenaliniche alla Naked City non capita tutti i giorni. È la riconferma del talento e di quel pizzico di follia che ha garantito agli Splatterpink di restare a galla nel mare increspato di una scena musicale sempre più spietata e impetuosa. Certo, non vedremo mai i pezzi di quest'album soppiantare le loro versioni originali nelle radio, ma non è questo l'obiettivo della band. La loro è contemporaneamente una burla e una dimostrazione di maturità artistica. Tendere la mano al "nemico" e allo stesso tempo fargli una linguaccia.
Questo spirito goliardico e fuori dagli schemi lo abbiamo ritrovato parlando con Diego D'Agata, bassista, cantante e forza motrice degli Splatterpink. Gli abbiamo chiesto un po' di cose riguardo questo nuovo capitolo discografico, i live, Bologna e la scena musicale attuale.
Come descriveresti gli Splatterpink?
Gli Splatterpink sono sempre stati fondamentalmente una mia creatura, quindi hanno sempre seguito i miei umori musicali. L'unico punto di unione dei miei ascolti è il fatto che a me sono sempre piaciute le cose complesse, nella musica come nella letteratura o nel cinema. Ho trovato nella sperimentazione ritmica e in certe forme di avantgarde una fonte di ispirazione fortissima. I NoMeansNo, per esempio, sono un gruppo che sembra hardcore, ma a conti fatti non lo è, perché ha una grande complessità al suo interno. Quello che ha sempre mosso i miei passi è la ricerca di una forma di complessità che possa essere anche fruibile e lasciare spiazzati quando la si ascolta. Non potevo non riversare tutto questo nella mia musica. Io sono cresciuto negli anni '80, ma le mie grandi influenze vengono dagli anni '90, come Helmet, Mr. Bungle, Primus, Naked City. Ho sempre cercato di assomigliare il meno possibile a quello che ascolto, c'è una grande operazione di "frullamento" interiore per digerire ed espellere nel modo più possibile personale la musica che ascolto.
Come nasce il progetto The Best of Italian Music?
L'idea di confrontarmi con una musica totalmente agli antipodi da quello che avevo sempre ascoltato l'ho sempre avuta in testa. La musica pop italiana a me ha sempre fatto cagare. Da anni volevo fare un disco di cover, però non riuscivo proprio a trovare la quadra. Quando ho iniziato a registrare i primi provini, circa quattro anni fa, venivano fuori praticamente gli stessi pezzi, ma con la chitarra distorta. Armonicamente la mia versione era uguale all'originale e non era quello che volevo ottenere. Poi un giorno, come mi capita spesso, stavo canticchiando un riff che avevo in testa e ho visto che sopra ci stava perfettamente il testo di Gloria di Umberto Tozzi. In 11/8, ma era lui. E così ho capito che dovevo scardinare completamente tutto l'insieme dei pezzi, non farli più suonare come suonavano, ma magari identificare per ogni brano un tratto distintivo, come la linea di sax all'inizio di Triangolo di Renato Zero. Qualcosa che potesse avere un minimo di attinenza con l'originale e nel frattempo cambiare tutta la musica mantenendo solo il testo. Con queste coordinate ho realizzato il disco.
Ti sei ispirato a qualcuno in particolare nel realizzare questo disco?
A farmi capire che stavo percorrendo la strada giusta è stata anche la lezione di gruppi come i Residents, che hanno avuto lo stesso approccio nell'affrontare cover di Hank Williams, Elvis Presley e James Brown, stravolgendone totalmente basi, ritmiche e armonie. Se qualcuno venisse a contestare il mio lavoro gli direi: "perché i Residents lo possono fare e io no?".
Sei riuscito a fare pace con gli artisti che hai rivisitato o hai riconfermato la tua distanza da loro?
Un po' l'uno e un po' l'altro. Quel poco che avevo ascoltato di musica pop italiana mi era bastato a farmi capire quanto mi facesse schifo, tutt'ora non è musica che ascolto o ascolterei neanche sotto tortura, per il semplice fatto che non mi piace. Ora però un po' di pace con questo mondo l'ho fatta. Per esempio, ho riscoperto alcuni dei testi di queste canzoni. Non è di certo roba che scriverei io, ma sicuro riconosco un grande lavoro nello scriverli. Ovviamente non c'era nessuno spirito di animosità o di distruttività alla base di questo lavoro, ci tengo a chiarirlo. Lo vedo come un esercizio di stile e andando avanti mi sono reso conto quanto questo progetto mi divertisse. Spero lo sia altrettanto per chi lo ascolterà.
Parlando di ironia, quanto è importante negli Splatterpink?
Per chi conosce i miei dischi io appaio sempre un po' come un nichilista scontroso, ma in realtà non è così, o almeno non più. Ho sotterrato l'ascia di guerra anche per quanto riguarda i contenuti della musica che faccio. Prima c'era molta più rabbia. I primi dischi degli Splatterpink sono molto cupi, i testi sono pesanti, incazzati. Da Mongoflashmob fino a quest'ultimo lavoro mi sono molto ammorbidito, mi preme di più fare musica che sia in un certo modo divertente, voglio che la gente esca dai concerti ridendo. Questo non significa diventare un gruppo demenziale, ma di certo lasciare più spazio alla positività. Poi con quello che è successo negli ultimi anni mi sembra che l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno sia il pessimismo anche all'interno della musica.
Nella formazione attuale ci sono ben due bassisti. Cosa ha portato a questa scelta?
Prima di tutto, nei provini che ho realizzato ho usato il basso al posto della chitarra. Avendoli registrati da solo ho suonato le linee di basso e poi con un pedale whammy ho sovrainciso con lo stesso strumento le parti pensate per la chitarra. Risentendoli mi sono reso conto che si era creato un suono molto particolare. In più il chitarrista ha lasciato il gruppo (in amicizia), quindi ho pensato di coinvolgere un mio carissimo amico e ex allievo, Michele Freguglia, un bassista eccezionale. Al contempo se n'era andato anche il batterista con cui suonavamo negli ultimi anni, Ivano Zanotti, che ultimamente era impegnato con tantissimi progetti e che ora è stato sostituito da Daniel Csaba Dencs. Per ultimo ha mollato il sassofonista. Nel disco c'è il sax ma ora siamo un trio e penso che per un po' saremo stabili in questa veste. Il sax è stato importantissimo per gli Splatterpink per tanti anni, ma avevo anche voglia di tornare alle nostre origini come power trio.
Siete tornati a suonare dal vivo per presentare il nuovo materiale. Come sta andando?
Siamo tutti e tre gasatissimi. Avevamo già fatto l'estate scorsa un beta test dal vivo e la gente ha reagito più che bene. Per ora abbiamo suonato a Ferrara, Savona, Milano e Bologna e abbiamo visto che il pubblico adora la nuova roba perché rimane spiazzato. Quasi tutti conoscono gli originali quindi ti ritrovi persone che cantano a squarciagola, che ballano o soprattutto che ridono di gusto. Quando cominciano a capire di che canzone si tratta entrano nel gioco. Si poga anche, perché la componente hardcore non se n'è mai andata. Solo che ora invece dei testi nostri ci sono testi di altri. Con il nuovo progetto non mi sono totalmente reso conto di quello che stavo facendo finché non ho visto la reazione del pubblico. Noi siamo molto contenti del risultato ottenuto finora, da qui possiamo sperare in un aumento del pubblico, mi sembra che tutti escano entusiasti dai nostri concerti.
Cosa pensate di fare nel prossimo futuro? Ci sono nuove idee che volete sviluppare?
Noi pensiamo che potrebbe essere divertente continuare con questo format. Dobbiamo ancora massacrare l'indie e l'itpop. Sicuramente continueremo a fare pezzi in questa direzione, e essendo The Best of Italian Music anche uno show dal vivo avremo la necessità di variare il repertorio. Poi adesso, per esempio, mi sto molto interessando all'elettronica e vorrei cercare di renderla più portante all'interno degli Splatterpink, soprattutto nella dimensione del live. Questo potrebbe essere un possibile sbocco. Proprio questi giorni stiamo lavorando a una cover di Riccione dei Thegiornalisti dove né io né Michele suoneremo il basso, ma saremo tutti e due sui sintetizzatori, una roba un po' alla Depeche Mode. Penso che cose del genere si faranno sempre più strada all'interno della band.
Come vedi la scena musicale underground odierna?
In Italia i gruppi bravi non mancano. Quello che manca purtroppo è la volontà di dar loro il giusto spazio, anche da quelli che dovrebbero essere i settori predisposti a incoraggiare un certo tipo di musica. Anni fa giornali come Rockerilla, Rumore e fanzine orientate verso quel tipo di musica si sarebbero fatte torturare a morte piuttosto che recensire Baglioni. Se anche quelle che dovrebbero essere riviste attente si sottomettono al gioco del mainstream noi possiamo anche avere tutte le band migliori del mondo, però si farà sempre una gran fatica a individuarle e valorizzarle. Sicuramente alla base c'è anche un fattore economico ma tutto questo non fa per niente bene a un circuito di musica indipendente che fatica a venire riconosciuto. Non vorrei nemmeno far passare l'idea che il pop vada disprezzato: un gruppo pop per eccellenza sono per esempio gli XTC, che amo alla follia. Ma c'è anche da dire che è un pop molto raffinato, distante anni luce dalle classifiche odierne.
Gli Splatterpink sono nati e cresciuti a Bologna. Qual è il tuo rapporto con questa città?
Io ho sempre avuto un rapporto un po' conflittuale con Bologna, che ritengo una città un po' avida. Noi siamo sempre stati degli outsider a Bologna. Non siamo mai stati capiti, o almeno non abbiamo mai gravitato nei giri "giusti" per poter arrivare un po' più in là di dove eravamo. La città vive un po' troppo di ricordi, anche se i movimenti punk e new wave degli anni '80 non facevano altro che copiare quello che c'era già da altre parti del mondo. Raccontarla come se fosse chissà quale tipo di rivoluzione per me non ha senso. I Massimo Volume sono un gruppo che ho amato e che amo ancora, per il resto penso che ci sia stato un periodo piuttosto breve in cui Bologna poteva definirsi una città all'avanguardia. Dal 1990 al 1995 c'è stato una sorta di rinascimento musicale e Bologna non ha fatto eccezione, sfornando ottime band. Oggi penso che sia una città allineata a quello che è un decadimento culturale piuttosto capillare. Continuano a esserci gruppi interessanti, come i Cani dei Portici o i Marnero.
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L'articolo Prendi la musica italiana, trattala male di Martino Petrella è apparso su Rockit.it il 2022-04-26 15:00:00
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