Qualche tempo fa, per un caso fortuito, ci è capitato di imbatterci in Romeo Lippi, meglio conosciuto come "Lo psicologo del rock". All'inizio ovviamente pensavamo si trattasse di una messa in scena, invece a quanto pare esiste davvero: è uno psicologo psicoteraputa iscritto all ordine degli psicologi del Lazio che al contrario dei suoi colleghi utilizza la musica, e in special modo il rock, per le sue sedute. Ci abbiamo fatto quattro chiacchiere per saperne di più.
Da dove nasce la tua idea di unire la tua passione per il rock con una professione difficile come quella di psicologo?
Parte da una mia esigenza personale: non perdere mai la musica, portarla in tutto quello che faccio. Perché nella musica c’è una parte fondamentale di me. Oltre a fare lo psicologo, scrivo canzoni e anni fa ho fondato una band, Le Ferite, di cui sono anche il cantante. Tuttavia, come hai intuito tu, il mio lavoro è difficile, perché assorbe molte energie personali e non mi lascia tempo sufficiente per curare la mia passione per la musica. Così, integrando il rock nella mia pratica professionale, riesco a portare le canzoni che amo nel mio lavoro, e posso rimanere in contatto con quella parte di me che vive in loro. Perché per me rock non vuole dire per forza chitarre distorte, ma tutto ciò che è autentico, emotivo, vero in una canzone.
E poi lo faccio anche per i miei pazienti: questa integrazione infatti permette di rendere le sedute e gli incontri più divertenti e coinvolgenti, altrimenti c’è il rischio di vivere la psicologia solo come una cosa “pesante”. Invece in una seduta di terapia si può ridere, si può ballare, si può cantare. Recentemente, con una paziente abbiamo cantato “Vaffanculo” di Masini, dedicandola a delle persone che le avevano fatto del male: è stato molto divertente oltre che liberatorio. Altro esempio in campo formativo: in un workshop per cantanti abbiamo lavorato su come rendere il canto più emotivo. Prima di fargli cantare dei brani, li facevo focalizzare sulle loro emozioni forti, risvegliando in loro ricordi collegati alla rabbia, alla tristezza o alla gioia.
In cosa consistono le tue sedute? Cosa succede di preciso?
Le mie sono sedute di psicoterapia integrata: dentro integro, appunto, anche aspetti artistici. Le canzoni non ci devono entrare per forza. Diciamo che la musica è sicuramente lo strumento che io prediligo, ma poi mi adatto alle preferenze della persona che ho davanti: se questa persona ha più passione verso il cinema o la fotografia, utilizzeremo stimoli visivi piuttosto che sonori. Con le canzoni faccio diverse cose in vari momenti del percorso: all’inizio traccio sempre la carta d’identità musicale e poi ne parlo con la persona. Poi uso la musica per lavorare su specifiche problematiche e diagnosi, cercando insieme al paziente una canzone che definisca il suo stato. Molte persone che vengono da me hanno il problema di essere troppo “disponibili” verso gli altri, e allora ascoltiamo e discutiamo sulla canzone “Un medico” di De André. Poi c’è tutto il lavoro che si fa per l’espressione delle emozioni bloccate: qui il processo cambia da persona a persona, siamo molto creativi. Una ragazza ad esempio aveva difficoltà a esprimere la sua rabbia, non riusciva a fare neanche fantasie aggressive, così le ho fatto fare un lavoro specifico, facendole immaginare di spaccare la testa di persone “odiate” con in sottofondo “Hells Bells” degli AC/DC. Con un’altra paziente abbiamo fatto un lavoro di rilassamento, contro la sua ansia, con il sottofondo di “Intro” degli XX; con un’altra abbiamo elaborato un trauma attraverso “Alle Anime Perse” dei TARM. Altro caso è quello di un ragazzo, molto timido, che ha suonato per la prima volta davanti a me un brano che aveva composto con la chitarra prima di entrare in una band, per vincere la sua paura del palcoscenico.
Hai fatto riferimento ad una “Carta di Identità Musicale” (il cui acronimo peraltro richiama i vecchi Centri di Igiene Mentale nati a seguito della Legge Basaglia) dei pazienti. Ci spiegheresti in cosa consiste e soprattutto in che modo riesci a tracciarla?
Non ha alcuna attinenza con i CIM. È un esercizio che faccio fare a tutte le persone che incontro in seduta: chiedo alla persona di indicarmi quali sono le sue 10 canzoni più importanti e che emozioni sono collegate a questi brani. È un esercizio di autodefinizione d’identità: è chiaro che se la persona indica tutte canzoni di Noyz Narcos, Fabri Fibra o Gemitaiz, si sta definendo in una maniera abbastanza circoscritta (spesso collegata alla rabbia), mentre se sceglie Baglioni, Pausini o Tiziano Ferro, starà definendo altri suoi bisogni, come quelli relativi all’affettività. Spesso le persone introverse e riflessive scelgono altri tipi di autori più “oscuri”: Nirvana, The Cure, Radiohead e l’alternative italiano.
Ovviamente, non faccio certo una diagnosi partendo solo da questo, ma per me si tratta di elementi molto importanti per capire chi ho davanti e soprattutto per creare una relazione tra me e i miei pazienti. È anche un modo per non far sentire troppo “malata” la persona che ho di fronte, dato che sentirsi malati è una paura comune di chi va per la prima volta da uno psicologo. Ad esempio, se reputo che non sia il caso di chiedere a una paziente se ha pensato al suicidio o se ha problemi con i genitori, nel caso in cui porti “La guerra è finita” dei Baustelle o “Aurora sogna” dei Subsonica, posso approfondire, attraverso i testi di queste canzoni, quegli argomenti difficili.
Ci descriveresti che tipo di pazienti si rivolgono a te e soprattutto che tipo di reazioni generalmente hanno ad un approccio un po’ insolito alla psicologia come quello che tu adotti?
Ho un’utenza molto varia, ho molti ragazzi tra i 14 e 19 anni, molti giovani adulti tra i 25 e i 35, ma anche professionisti della musica che si trovano in un momento di stallo professionale o personale. Lavorando con dei neurologi, a volte arrivano da me anche persone over 60. Sono di solito piacevolmente sorpresi da questo approccio. Non si aspettano di parlare di musica con me, nello stereotipo comune lo psicologo ti chiede che sogni fai e che rapporti hai con mamma e papà. Io invece mi trovo a parlare dei Coldplay con signore di sessant’anni con una cultura di riferimento tradizionale-cattolica. A volte stupisce anche me.
Come hanno reagito i tuoi colleghi più “tradizionalisti” ad una innovazione come la tua?
Sulla pagina Facebook ricevo quasi ogni giorno complimenti da parte di colleghi entusiasti: mi chiedono come ho fatto, quali libri posso consigliare, se possono partecipare a questo progetto. C’è comunque sempre una minoranza più tradizionalista. Recentemente ho pubblicato su Youtube un video in cui ho ripreso 4 volontari (consapevoli) durante una seduta di psicoterapia centrata sul contatto emotivo; il video ha come sottofondo una mia canzone che parla proprio dei processi che si stanno vedendo tramite le immagini. Una collega ha subito condiviso il video sulla sua pagina Facebook, e una ragazza che ha commentato mi ha definito “uno psicologo opinabile”. Anche se ho cercato di argomentare, non credo abbia cambiato opinione. Le innovazioni sono sempre accolte così: o con entusiasmo o con paura/rifiuto.
Nel tuo sito fai riferimento alla condizione di “normopatia”, cioè “quella normalità che ci rende piatti e schiavi” (cit.). credi quindi che un po’ di sana follia renda il mondo un posto migliore, oppure è semplicemente una critica a quella che Pasolini chiamerebbe “omologazione culturale”?
Le nostre “stranezze” ci rendono umani e interessanti, noi ci innamoriamo delle peculiarità e delle follie dell’altro. La psicologia e la musica hanno l’obiettivo di canalizzare queste caratteristiche, a volte estreme, in un percorso di sano sviluppo e di utilità per gli altri. Ozzy Osbourne era trattato come un disabile a scuola, è diventato un’icona per generazioni; Franco Califano ha trasformato il suo problema alla voce nella SUA voce, indimenticabile; Alex Turner è un ragazzo timido che suona davanti a centinaia di migliaia di persone. Hanno trasformato i loro limiti in risorse. Le persone hanno paura di scoprire il potenziale creativo che hanno dentro, per questo si uniformano alle aspettative che gli altri hanno su di loro. Come dice Fritz Perls (padre della psicoterapia della Gestalt), diventano “persone di carta”. L’omologazione culturale è lampante, è presente, ma è un discorso da affrontare con attenzione.
Oltre che ad attività di psicoterapia individuale, hai anche attivi dei progetti di Psicologia Cantata che hanno a che fare con ragazzi delle scuole e che vengono aiutati, attraverso la musica, ad affrontare temi tipici dell’adolescenza quali il conflitto d’identità, l’emarginazione, o la timidezza. Che tipo di reazioni hanno i ragazzi, forse più legati alla sfera emozionale rispetto agli adulti, a questo tipo di terapia?
Vorrei fare una precisazione: io ho degli sportelli di orientamento psicologico nelle scuole superiori, dove i ragazzi possono venire a parlare e dove utilizzo il metodo integrato che ti ho descritto prima. La psicologia cantata è invece una lezione/live che faccio di solito durante le assemblee d’istituto davanti a tanti ragazzi: gli parlo dell’importanza della musica, delle ricerche scientifiche su questo tema e poi collego i temi dell’adolescenza con alcuni brani che poi cantiamo tutti insieme. Parliamo e cantiamo di relazioni, sessualità, sostanze, rapporti con i genitori, facendo brani di autori italiani: da Vasco a Nesli, da De Gregori a quelli delle Ferite. Le Ferite sono il mio progetto musicale, la mia band, dove metto nei testi le mie esperienze emotive come uomo, come paziente e come terapeuta. I ragazzi sono sempre molto entusiasti.
A parte questi progetti nelle scuole, come lavori di gruppo, gestisco anche dei gruppi di Song Therapy, che sono gruppi di lavoro terapeutico, dove utilizzo anche qui le canzoni per stimolare la crescita personale. Partecipano sia giovani che adulti.
Che tipo di impronta ha dato il rock alla tua vita professionale e individuale?
Per me è la vita. Quando sento “What’s the story, morning glory?” degli Oasis, sento che ce la posso fare, che è tutto possibile se lo vuoi. Quando ascolto “Lo Show” di Vasco Rossi, capisco che il mio “narcisismo” (nel senso di voler essere protagonista della mia vita) e le mie emozioni possono essere utili a qualcuno. Come ti dicevo, per me rock non è solo un genere musicale, ma un modo di essere, è tutto quello che è autentico, emotivo, vero. Per me i cantautori italiani sono rock. Ho un grosso debito con i grandi maestri italiani, mi hanno accompagnato nella crescita, mi hanno motivato, mi hanno confortato quando ero triste, mi hanno fatto comprendere dei processi di vita, e più di tutti, mi hanno aiutato a scoprire il mio lato più emotivo e autentico: per questo sto dedicando loro il ciclo di seminari-evento patrocinato dall'Ordine degli psicologi del Lazio “Cantautori: terapeuti dell’anima”, per mostrare le connessioni tra le loro canzoni e i temi importanti della psicologia e della nostra società. Ho trattato Vasco come il grande interprete della filosofia del “qui e ora”, De Gregori come il maestro dei simbolismi junghiani di cui tutti abbiamo bisogno per sopravvivere, i Subsonica come i narratori del sofferto rapporto tra uomo e tecnologia. Il prossimo appuntamento è su Battiato, maestro e saggio della “cura” dei nostri mali causati dalla società conformista e materialista. La mia vita professionale e individuale stanno diventando un’unica cosa, e questo è molto bello.
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L'articolo Abbiamo intervistato lo psicologo che usa il rock per curare i propri pazienti di Alberto Giusti è apparso su Rockit.it il 2016-02-17 12:47:00
COMMENTI (2)
Lavoro come psicologo con il teatro. Hai tutta la mia stima :-)
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