Tra i cento e più romanzi di successo che rimarranno solo nella mia testa, una volta ne ho scritto uno che racconta la storia di un rapper milanese in erba che si ritrovava in crisi d'identità per via della poca coolness del suo quartiere. Per questo rinnegava l'amato Giambellino e iniziava a fare rime sulla dura vita di Niguarda, dove era in realtà stato tre o quattro volte in vita sua. Quando ho letto che il nuovo disco di Nicolaj Serjotti aveva intitolato il suo disco, uscito oggi per Virgin/La Tempesta, Milano 7, sono andato in crisi.
Dopo anni a immaginarmi – al posto di quelle di Gadda e Beccaria – le targhe commemorative sulle case natie di Guè Pequeno, Ernia o Entics, non mi sentivo pronto per questo rimescolamento sulla base dei 9 municipi. E invece non avevo capito nulla. "Milano 7 è l'area che racchiude il mio paese, Busto Garolfo, nello Stibm, il sistema di tariffe integrato dei mezzi pubblici di Trenord", dice al telefono Nicolaj, ben consapevole dell'equivoco che il titolo avrebbe potuto ingenerare.
Sono sempre più confuso, terrorizzato dall'idea che la rivelazione possa smantellare tutta la geografia dell'hip hop milanese per come l'avevo concepita e interiorizzata. Passo oltre. "La patria dei Busto Garolfo Cops", gli dico, sperando di guadagnare punti con una citazione da Aldo, Giovanni e Giacomo (che veniva proprio dal comune del Nord-Ovest milanese). Un altro buco nell'acqua: "non li ho mai seguiti, i miei amici me lo rinfacciano spesso", dice.
Ci sta: l'ultima cosa davvero figa del trio comico è forse del 2000, Nicolaj è nato due anni prima. A 12 o 13 anni si avvicina al rap, inizia a scrivere e nel 2018 pubblica il suo primo ep Oversized Thoughts. Nel frattempo il suo nome comincia a circolare grazie alle collaborazioni con l'amico Generic Animal – con cui c'è stato uno scambio di feat. negli ultimi dischi – e con la 2004 Sgrang, strano gruppo di amici nato che tiene assieme Palazzi d'Oriente, Generic Animal, Massimo Pericolo, Nicolaj Serjotti, Fight Pausa e Wuf.
Questi ultimi due sono anche i produttori di Milano 7, un disco scritto a "sei mani e tre teste" nel corso di due anni. Il lavoro sui suoni è ciò che rende prezioso il disco: nelle nove tracce nu jazz, elettronica e rimandi al rap anni '90 si fondono e confondono, con batterie squantizzate che si innestano su tappetini minimali e loop avvolgenti.
La voce di Nicolaj – zero prodotta e molto "comune", evviva! – lega tutto assieme e contribuisce alla sensazione di fluidità, con testi introspettivi e talvolta ermetici – qualcosa funziona bene, altri passaggi appaiono ancora un po' acerbi – a costruire, grazie anche a un uso molto personale della metrica e della dizione, un senso di grande spleen che deve essere il mood base in quello spicchio di terra e palazzi tra le province di Milano e Varese.
Che succede da quelle parti: perché i vostri colleghi hanno le "bitch" e bevono la caipiroska e voi cantate sempre questo "kind of blue"?
Ciascuno vive la propria quotidianità, conosce e frequenta pesone diverse. Chi parla di party selvaggi o chi fa reggaeton non penso faccia finta: ha quel tipo di mentalità e di gusto, e scrive per rispecchiare quel che gli piace. Io – e credo valga anche per gli altri che hai citato –amo raccontarmi, in maniera anche intimità.
Il tuo moniker è fighissimo. Mi ricorda quando al calcetto del liceo storpiavamo i nomi dei giocatori più scarsi con -inho o di quelli più "istintivi" in -ic.
Mi ha sempre affascinato che molti rapper americani avessero un nome e anche un cognome d'arte, tipo Earl Sweatshirt. Nicolaj Serjotti nasce come uno scherzo di Filippo e Riccardo, i ragazzi che curano il progetto visivo del disco: una volta mi hanno regalato una cornice che conteneva varie foto mie, per raccontare la storia di un fantomatico "Nicolaj Serjotti", che è la storpiatura del mio nome Nicolò Ceriotti.
Mi affascina molto anche questa cosa che tu sei "diventato" milanese da poco (e grazie a Trenord), e hai subito deciso di dedicare un disco alla tua "nuova" città.
È curioso che abbiano ri-geolocalizzato una zona che già esisteva: Milano si allarga e finisce per inglobare anche me.
Questo è un disco dell'hinterland di Milano?
Direi proprio di sì. Non che parli tanto di vita di provincia o di paesaggi "padani", ma questa cosa di Milano e del suo hinterland è come un come fil rouge che collega tutte tracce. Tutto quello che scrivo deriva da esperienze vissute qua e persone che vivono qua: in questo disco siamo Milano 7 e io.
Abbiamo capito da dove parte il disco. Dove speri che arrivi?
In realtà io rimango volentieri qua, e vorrei che venisse più gente possibile a Milano Sette a trovarmi. Questo disco è uno snapshot degli ultimi due anni della mia vita, in cui sono andato a letto pensando alle canzoni ogni giorno. È stato un percorso intenso di consapevolezza, esplorazione di ciò che voglio fare e ricerca di equilibri.
Si dice sempre che un disco parte da "un'esigenza personale". Non di rado è un cazzata, questa volta mi pare di no. Qual era l'esigenza?
Raccontare un ragazzo di vent’anni, la cui storia può avere diversi punti in comune con altri ragazzi della stessa età. Valorizzare e mettere in luce qualcosa di normale. Adoro gli spaccati di realtà, le finestre che si aprono sulla vita di qualcuno per mostrarti ciò che accade in quell'istante.
Da chi hai preso spunto per questa narrazione del "qui e ora"?
Rap Album Two di Jonwayne è la straordinaria fotografia di un periodo in cui lui non ce la faceva più, perché ciò che aveva sempre cercato, una carriera musicale, in realtà lo aveva distrutto. Poi dico Mac Miller, uno dei nomi che mi ha più segnato in adolesceza: Watching Movies with the Sound Off è un album che mi sono studiato sul pullman mentre tornavo a casa da scuola, andavo su Genius e cercavo di vedere come faceva nascere i suoi incastri. Infine I Don't Like Shit, I Don't Go Outside di Earl Sweatshirt. Mi rendo conto che sono tutti dischi "pesanti" e negativi, ma sono anche quelli che svelano debolezze che altrimenti è difficile mettere in luce.
Siccome i consigli musicali erano ottimi, ti chiederei anche un paio di libri.
Nell'ultimo anno mi sono appasionato molto agli scrittori americani contemporanei. Ho letto Infinite Jest di David Foster Wallace in due mesi, e appena finito avevo voglia di ricominciarlo. Trovo incredibile come riesca a creare una versione alternativa del mondo in cui viviamo e a dare senso e verosimiglianza agli elementi surreali e ai dettagli che inserisce nel suo interminabile racconto. E poi Franzen, con i suoi intrecci di storie e prospettive molto dinamici: ho adorato Libertà.
Non ti faccio domande su questa o quella traccia perché ho fruito il disco come una cosa unica, il che nella mia testa è un super complimento. A te fa piacere questa cosa?
Eccome. Penso che la cosa più importante quando si fa musica sia l'idea artistica, che a seconda di come uno la sviluppa ha varie sfaccettature, alti e bassi. Ma è importante che ci sia.
Un pezzo lo nomino: Pepsi Cola. Citazione da Vasco o reminescenze "migosiane"?
In realtà è una citazione da me stesso: la Pepsi è stata la mia fissa per un lungo periodo e con i miei amici ci giocavamo su parecchio. Passavamo ore a discutere se fosse meglio lei o la Coca e io dicevo che la Pepsi è più leggera, più rilassante, più "dreamy", "smooth". Ci sembrava figo portare quella gag nel disco e metterla vicino e contrapposta a Mitra, uno dei brani più intensi.
Fai cadere le sillabe spesso in posti strani nelle barre. Da dove deriva questa modalità?
Spendo un sacco di tempo a cercare il punto giusto dove fare cadere le sillabe, lo stesso che passo a cercare cosa dire e quali immagini evocare. Penso sia altrettanto importante per provare a creare una propria cifra stilistica. Lavoro per innescare un dialogo tra quel che voglio dire e la strumentale e cerco di scrivere sempre qualcosa che non posso contare, in cui io per primo non riesca a capire bene quante barre sono o quando sono andato a capo. Mi dà un'idea di fluidità.
Come hai conosciuto i tuoi produttori e come lavori con loro sulla musica?
Wuf l'ho conosciuto a 13 anni perché è di Legnano – Milano 7 anche lui –, abbiamo gusti musicali simili e ci siamo trovati. Alcuni anni fa ho incontrato Fight Pausa e abbiamo cominciato a lavorare assieme su un suono che rappresentasse tutti e tre. Abbiamo tanti punti in comune che volevamo valorizzare, e allo stesso tempo fare emergere e incastrare le differenze: ad esempio Fight Pausa è pieno di suoni e dettagli strani mentre Wuf lascia molti vuoti, è più minimale. Per dare vita a un equilibrio abbiamo fatto per due anni ping pong tra casa di Wuf e di Fight Pausa, tra l'Ableton del primo e quello del secondo. Quella che sentite è la sintesi del nostro immaginario comune, in cui convivono pezzi più serrati come Colpa mia o melodici come Tetrapak e Latitudine.
Tu che musica pensi di fare?
Ci sono varie influenze: dal jazz, di cui sia Wuf (che suona il sax) che Fight Pausa sono appassionati, all'elettronica e l'R'n'B. Ma io faccio rap, che è anzitutto un modo di scrivere, in cui io mi riconosco. La sua bellezza è che negli anni ha partorito infiniti sottogeneri e ognuno può trovare quello più adatto a sé: a me piace la roba più smooth, più cadenzata, più timida forse.
La tua voce naturale mi ha ricordato un'epoca passata, quando il rap non aveva l'ansia – e la passivo-aggressività – del vincitore.
Grazie, anche se a me piacerebbe che il tipo di rap che amo io si prendesse la sua fetta di vittoria. In america il successo è più spartito: ci sono i nomi giganti e poi tanti underdog, come i Danger Incorporated o gli Injury Reserve, che mi piacciono tantissimo.
Qualche tempo fa, visto il discorso da cui siamo partiti, avevo chiesto al tuo socio Generic Animal se fosse felice (per altro pochi giorni dopo è scoppiata la pandemia). Tu lo sei?
Non so come sia felice lui, anzi non so nemmeno come lo sono io. Però mi sento di dire di sì: sono sereno, è un periodo in cui mi succedono delle cose belle.
Che colore ha Milano 7?
Il colore della copertina, un verde fluo. Anche nei momenti più blu, nelle tracce più disperate e catastrofiche, l'ironia è lo strumento che uso per guardare al futuro. Per me scrivere è una scappatoia, e io penso ci sia sempre una via d’uscita.
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L'articolo Il "rap timido" di Nicolaj Serjotti racconta l'hinterland delle nostre anime di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-11-27 10:21:00
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