(Le foto sono di Barbara Asnaghi)
Un concerto infra-settimanale, con i soliti orari nottambuli romani, non spaventa la gente che pian piano riempie i divanetti del Lian Club, a S. Lorenzo. Un'occasione intima per la presentazione del nuovo album di Giuliano Dottori, "Temporali e rivoluzioni". Una bella occasione per una chiacchierata subito dopo cena, prima del concerto, per parlare del disco, di istinto e di riflessioni "a posteriori", di passioni in generale.
Bentornato Giuliano Dottori. Come va? Cos'hai combinato in tutto questo tempo?
Va molto bene, sono molto stanco (Ride, NdR)... No, va molto bene, nel senso che l'uscita del disco è sempre un momento di grandissima adrenalina, e al tempo stesso, non dico ansia, ma molta aspettativa per come viene accolto. Se intendi da quando è uscito "Lucida", nel frattempo ho fatto una riedizione del disco con quattro out-takes, più il singolo "Lontanissimo da qui", che è uscito a Febbraio. Quindi in realtà non sono mai stato proprio fermo, anche se ovviamente l'uscita del disco è il momento più forte, rispetto ad altro. Comunque ho continuato sempre a scrivere e a suonare con gli Amor Fou, di cui sono chitarrista "ufficiale" da un po'. Quindi no, non sono mai stato fermo, perché chi si ferma...
...è perduto. Nel mentre, quindi, la lavorazione del tuo secondo album "Temporali e rivoluzioni"...
"Temporali e rivoluzioni" ha avuto una lavorazione abbastanza breve. E questa è stata una cosa molto bella. È stato fatto tutto in super velocità, intendo registrare, arrangiare, missare, masterizzare. Per "Lucida" c'erano canzoni scritte nella fine degli anni 90, per dire "Alibi" è un testo del '99 che ho musicato dopo. Invece "Temporali e rivoluzioni" è stato scritto molto velocemente, nell'arco di pochi mesi. A parte un paio di canzoni che più o meno risalgono all'uscita del primo album, quindi grosso modo al 2007, il resto è piuttosto recente. Da un lato c'era la grande urgenza di chiudere il disco in poco tempo perché volevo assolutamente che fosse colto un momento mio molto forte dal punto di vista emotivo. Dall'altro c'era un problema pratico, cioè il fatto che Giovanni Ferrario, che ha prodotto il disco, sarebbe partito poco dopo in tournè mondiale con P.J. Harvey e John Parish: in sostanza dovevamo chiudere entro una certa data. "Temporali e rivoluzioni" nasce un po' su questi presupposti.
"Temporali e rivoluzioni". In linea di massima due sostantivi che stanno convenzionalmente a significare "cambiamenti irreversibili", nel bene o nel male. T'è successo qualcosa del genere che ti ha ispirato questo titolo?
Il titolo rimanda senz'altro a questa idea di cambiamento. In realtà nello svolgimento del disco, nello sviluppo lirico delle canzoni, c'è secondo me un percorso che si riesce in qualche modo a ricostruire. Ognuno poi chiaramente fa la sua strada. Non voglio mai spiegare troppo perché mi piace lasciare un po' di curiosità, in modo che ogni ascoltatore possa sentirci quello che vuole. Dal mio punto di vista "Temporali e rivoluzioni" è un titolo che contiene però anche un po' di ambiguità. Perché il concetto di temporale è qualcosa che arriva ma comunque poi passa. Dopo la tempesta arriva sempre il sereno. Per cui più che il cambiamento volevo fotografare il "percorso" del cambiamento, non il cambiamento a cose fatte. Questa è l'idea che stava dietro.
Alcuni pezzi sembrano delle polaroid scattate con luci soffuse ed intime, come in "La tua casa è piena", altri invece sembrano profonde analisi emotive che, nel marasma di situazioni ostiche, riescono comunque ad essere costruttive e positive, come in "Tenerti stretto un ricordo". Questo sguardo attento alle cose dentro e fuori di sé, non rischia di essere autolesionista certe volte?
Sì, da un certo punto di vista sì. Cioè, capisco che potrebbero esserlo. Io, in realtà ho un carattere sicuramente incline alla malinconia, ma non sono molto incline alla riflessione. Anche se forse può non sembrare, soprattutto quando scrivo i testi sono molto istintivo, non faccio delle gran riflessioni. Faccio più delle riflessioni a cose fatte. Quando ho scritto una canzone e l'ho messa in piedi, e riesco un po' a guardarla da lontano non mi faccio domande sui contenuti, più che altro sulla forma. Mi chiedo se è una cosa che funziona. Perché comunque il testo è una cosa che viene penetrata dalla musica. Tendenzialmente viene sempre prima la musica, e quando va di straculo vengono le due cose insieme. Quello è il caso di "Non fa mai male la verità", che è venuta proprio di botto, quasi dall'inizio alla fine, tutta. Ed è proprio un caso che capita raramente. Normalmente viene prima un verso e poi c'è una componente di artigianato, per "portare a casa la canzone". Quindi in realtà sono molto istintivo, e la riflessione semmai la faccio alla fine.
"Temporali e rivoluzioni" reca con sé un atteggiamento più rassicurante rispetto a "Lucida", che aveva una venatura decisamente più malinconica. Tu come la pensi a riguardo?
Sicuramente "Lucida" era molto più malinconico, son d'accordo. Quello era un disco un po' più scuro nel sound, anche per gli arrangiamenti con gli archi, con i fiati, che erano dei legni, che rendevano tutto molto più soffuso, molto più "rotondo". Invece questo disco è più "quadrato", ha molti più spigoli. In realtà, in questo senso, dal mio punto di vista, lo trovo molto poco rassicurante, perché, mi ripeto, il processo del cambiamento genera paura e a volte anche sconforto, rispetto all'idea della "nuova vita". In realtà trovo che "Temporali e rivoluzioni" sia un disco amaro.
Dal titolo di una canzone, credi davvero che la verità non faccia mai male?
Ovviamente no. Anzi credo che sia proprio questo il caso in cui la musica spiega il senso. E' chiaro che non penso quella cosa lì. La canzone ha un incedere così triste, è così arresa... è più uno sguardo sarcastico e distaccato. Poi con il fatto che è stata istintiva, trovo questa canzone magica, credo che non la farò spesso dal vivo, perché è un brano che ha una magia difficilissima da riprodurre.
Per quanto riguarda la musica invece, le strutture armoniche mi sembrano più dirette, quasi semplificate, rispetto al precedente lavoro. Perché questa scelta?
Questa scelta è stata decisa e condivisa con Giovanni Ferrario. Quando l'ho contattato e abbiamo deciso di fare questo lavoro insieme, gli ho dato il disco vecchio, qualche riferimento e lui mi ha detto che avrebbe voluto trovare un sound più crudo, togliendo tutta la sovrastruttura di arrangiamenti, per costruirli semplicemente con le chitarre. E in effetti è estremamente crudo questo disco. Quindi la scelta è stata operata in questo modo e credo che sia, sempre a posteriori, funzionale a quell'idea di urgenza di cui ti parlavo prima. Ed è stata molto più importante la take, il come fai la parte, piuttosto che aggiungere e togliere dopo. Ci siamo detti, la canzone è questa, gli strumenti sono questi, dobbiamo dare più importanza all'energia che mettiamo nella take; tra l'altro - tra parentesi - ci sono solo tre musicisti e mezzo, cioè il mio trio con l'aggiunta di Giovanni che compare qua e là. In "Lucida" suonò invece molta più gente.
Alcuni ti accostano a Moltheni, altri trovano che certe intonazioni invece ricordino Manuel Agnelli, ma tu, hai degli artisti a cui ti ispiri, a prescindere dagli accostamenti che fa chi ti ascolta per la prima volta?
Diciamo che da artista non mi ispiro a nessuno, cioè non ho dei riferimenti così forti, tali da essere imprescindibili. Capisco che Manuel Agnelli sia un accostamento facile, perché credo che gli ascolti di un certo tipo di rock americano, di un certo background siano terreno comune, poi c'è anche la dizione, quell'inflessione milanese, ma credo che la "pasta" della voce sia totalmente diversa. Poi ovviamente gli Afterhours mi piacciono, non è un accostamento che mi dà fastidio. Moltheni mi piace anche, alcune sue canzoni mi piacciono molto. Per quanto riguarda altri artisti italiani che mi piacciono devo dire che faccio sempre fatica a fare nomi. Mi piace citare De Gregori, perché in Italia nel periodo fine anni 70, inizio anni 80, ha scritto delle canzoni veramente pazzesche, e trovo il suo modo di cantarle, strepitoso. E comunque con gli italiani stop, per quanto riguarda gli stranieri invece, ti dico Bob Dylan in primis, che è Dio per me, poi Neil Young, ma anche artisti più recenti, Elliott Smith sicuramente mi piace molto, da poco ho scoperto Sufjan Stevens, e ancora Patrick Watson, un cantautore grandissimo. E' di Montreal, come me, anche se io sono un canadese finto (è nato a Montreal ma all'età di due anni e mezzo si è trasferito con la sua famiglia in Italia, NdR). Poi mi trovo sempre in difficoltà, perchè dico cose banalissime, però non posso non citare anche i Led Zeppelin! Io vado matto per i Led Zeppelin, tutt'ora quando ascolto "Immigrant Song", faccio come Jack Black in "School of Rock"! E Jimi Hendrix...a suonarci sopra...
Per quanto riguarda invece la dimensione live, qual è il tuo approccio col pubblico?
Buona domanda questa. Io, non ho un approccio, direi. Diciamo che non salgo sul palco per far la battuta e far ridere le persone ma non sono neanche quello che sale sul palco per darsi un'aria superiore, in quanto artista o autore di canzoni. Alla fine ho suonato tanto col mio progetto, dal club un po' più grosso alla pasticceria minuscola e di fatto non sai mai cosa succederà, perché comunque ti trovi sempre davanti un po' di pubblico che è venuto lì per il concerto e altri a cui non gliene frega niente. Dopo un po' l'esperienza te la fai, sai che in un posto devi spingere un po' di più mentre in un altro è meglio tenersi un po' più indietro e creare più attenzione. In ogni caso mi interessa che la resa musicale sia bella.
Come deve essere il pubblico perfetto?
(Lungo respiro, NdA) Premesso che la perfezione non esiste, il pubblico è pubblico. Il pubblico come il cliente, ha sempre ragione. Sono delle dinamiche stranissime, ci fanno degli studi di sociologia vedendo i comportamenti del pubblico ai concerti. La timidezza negli applausi, che poi alla fine si lasciano andare... sono cose stranissime. Capisci quando c'è un applauso "di dovere" e quando c'è l'applauso "sentito". A volte ci sono delle situazioni anche più rumorose, in cui però c'è, come direbbe Mauro Sansone, il mio batterista, la "vibra giusta".
Giuliano Dottori invece com'è, per Giuliano Dottori?
Riciclo una risposta: "Giuliano Dottori è un musicista precario sottopagato". A vedermi da fuori prima magari mi annoierei a morte, secondo direi: "cazzo, però, è bravo", terzo "cazzo, che bello che è..."
Guarda che scrivo tutto...
Sì, sì, scrivi...
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L'articolo Giuliano Dottori - Roma, Lian Club, 11-11-2009 di Elisabetta De Ruvo è apparso su Rockit.it il 2009-11-23 00:00:00
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