Se Achille Lauro (QUI la nostra recente intervista) sta al rap italiano come Renato Zero alla canzone d’autore, Rosa Chemical, sta alla trap nazionale come l’autore di Rolls Royce all’hip-hop. L’innovazione del giovane rapper di Torino è una rivoluzione che si attua sul piano ideologico ed estetico ancor prima che musicale, una visione artistica a 360 gradi che rende ancor più sfaccettata la già interessante figura di uno dei nomi più controversi della nuova scena tricolore. Imbianchino e modello, macellaio e fenomeno del writing, in occasione del repack di Forever, il suo primo album ufficiale, abbiamo scambiato quattro chiacchere con il rapper divenuto famoso con Polka, per farci raccontare la volontà, tra dieci anni, di ritirarsi in Olanda per fare il pittore come Angus Young.
Come sei diventato Rosa Chemical?
Credo di esser sempre stato un artista, ancor prima di prendere in mano un microfono. Vengo dall’hip-hop, sono arrivato alla musica attraverso una scaletta creativa: giravo le jam, facevo writing, dipingevo ed ho fatto il tatuatore. Quando mi sono trasferito a Londra per studiare grafica, ho avuto i miei primi contatti con la trap. Ero già intenzionato a diventare un musicista ma, per mantenermi, ho dovuto cercare un impiego, sono stato assunto da un macellaio e sono durato tre giorni. Il secondo giorno mi ero già ferito gravemente, sono diventato vegetariano ma, soprattutto, ho capito che nessun lavoro poteva fare per me. Ho capito che avrei dovuto trovare la strada per mantenermi con l’arte.
Beh, hai fatto anche il modello…
Ho fatto anche l’imbianchino, ma ogni volta che trovavo un impiego mi sentivo inadeguato, sentivo un blocco allo stomaco. Con tutto il rispetto per ogni lavoro, quella da modello è stata un’esperienza legata alla creatività, all’espressione: non lo faccio per professione. Immergermi in un contesto che non avevo mai provato, conoscere il background di un settore che non mi apparteneva direttamente è stato stimolante. Il senso dell’arte per me è anche questo, conoscere persone che possono capirmi, circondarmi di creativi per aumentare idee e possibilità.
E quindi, perché fra tutte le discipline hai scelto proprio la musica?
Credo sia un sogno maturato sin da piccolo, sono sempre stato immerso nella musica e, anche crescendo, ne ho sempre ascoltata tanta. Essendo parecchio empatico mi rispecchiavo in molti testi delle canzoni, proprio per questo a un certo punto ho deciso che non volevo più essere il fruitore delle emozioni altrui ma quello che le creava. Volevo trasformarmi in “quello che lascia qualcosa alle persone”, mettermi dall’altra parte. Anche quando facevo graffiti questa era la mia intenzione, ma la portata del mio messaggio era limitata a un muro.
Se ci pensi, davanti a quel muro saranno passate milioni di persone, paradossalmente, più di quante abbiamo ascoltato una tua canzone...
È strano, perché l’ambiente dei graffiti è un ambiente super chiuso e anonimo, quindi è normale che il 95% delle persone che hanno visto un mio disegno non sappiano nemmeno chi sia. La potenza del messaggio sta proprio nel medium utilizzato. Modestia a parte, a diciotto anni ero uno dei writer più forti d’Italia, ho abbandonato un percorso che sarebbe sicuramente proseguito per tentare di sfondare con la musica, rischiando di floppare clamorosamente.
Il machismo che si è sempre imputato all’hip-hop è uno dei motivi che ne ha dettato gli stilemi? Voglio dire, essere genderless si rispecchia anche nella tua fluidità artistica?
Sicuramente. Anche perché la maggior parte delle persone dedite a questo genere la pensa così, di conseguenza, anche gli artisti continuano a portare avanti un meccanismo che funziona: è più facile dare al pubblico ciò che si aspetta. Noi abbiamo deciso di non starci dentro, abbiamo deciso che sarebbe stato meglio piacere a una fetta più piccola di persone che ci avrebbero veramente apprezzato per ciò che siamo. Abbiamo deciso di essere noi stessi senza accontentare nessuno.
Al giorno d’oggi esprimersi vuol dire esporsi, nei tuoi testi percepisco un certo piacere nell’essere edgy, nell’uso del politicamente scorretto.
Mi sono arrivate più accuse di razzismo che di sessismo. Ma, in generale, quando ho avuto la possibilità di parlare con chi mi ha accusato ha sempre cambiato idea. Chi non capisce o è un ignorante -e con gli ignoranti non voglio parlare- o vuole fare scandalo, fissarsi su una parola senza approfondire il discorso, analizzare i miei testi e conoscere il mio pensiero. Oggi la percezione di un artista è sballata anche dai social, ho già perso quattro profili, su Instagram non posso mostrarmi per quello che realmente sono. La maggior parte della gente che si appassiona alle tematiche LGBTQ sostiene che la parola “frocio” non si possa usare se non si è gay: ma tu sai davvero cosa faccio nella mia vita privata? Al giorno d’oggi esprimersi su qualsiasi argomento vuol dire esporsi alla gogna, e l’Italia è un Paese di furbi, ma non un Paese di svegli. In Italia censuriamo le parole come censuriamo le bestemmie, per nascondere la polvere sotto il tappeto e far finta di risolvere i problemi. I problemi si risolvono sensibilizzando il popolo, con la cultura. Il problema di una parola non risiede nella parola stessa ma nell’odio che prova chi la pronuncia, il problema dei termini “frocio” e “negro” è che esistano ancora persone che odiano i gay e chi ha una colorazione della pelle diversa. Scandalizzare è sempre stata l’arma principale dell’arte.
Una delle novità che ho riscontrato maggiormente nei tuoi testi è l’uso di termini che derivano dalle community americane, molto diffusi nei meme sui social ma assolutamente irrilevanti all’interno del vocabolario rap italiano. In che cosa ti senti veramente nuovo?
Non ci limitiamo a riportare lo “slang” che utilizziamo, l’uso di quei termini è frutto di una ricerca più ampia sull’espressione dei concetti, una ricerca per uscire dai vincoli del vocabolario rap italiano che è in realtà molto limitato. Insomma se prendi una canzone basic trap italiana non sembra un nostro pezzo. Poi credo pochi artisti possano vantare un connubio musica immagine forte come il nostro. Sicuramente, con tutto il mio team, non lavoriamo come dei rapper: difficilmente scrivo qualcosa di getto, la nostra freschezza è frutto di un processo più lungo. Polka non è una hit nata per caso.
Com’è nata?
L’illuminazione spesso è casuale. Ma la canzone è frutto di un duro lavoro. Ero a casa di Greg Willen con una ragazza che frequentavo, a un certo punto, ci fece ascoltare un remix balcanico di una canzone di Lady Gaga. Sono entrato in modalità “scrivere pezzo trap”, ma al testo sono arrivato mesi dopo il beat. Ora che ha avuto successo sembra facile, non era così scontato inserire delle sonorità gitane in un contesto trap. Polka ci è servita per portare la nostra arte al di fuori dai nostri confini, ma, nella nuova versione, grazie alle partecipazioni di Guè Pequeno ed Ernia, ora è la gente che viene alla nostra arte.
Come pensi o possa evolvere Rosa Chemical per suonare sempre nuovo? Hai già pensato al tuo futuro?
Grazie ai miei trascorsi credo di aver dato vita non solo a delle canzoni, ma a un personaggio, un mondo con un’estetica coerente. Mi sono dato dieci anni nella musica, e in questo lasso di tempo vorrei lavorare nell’ambito a 360 gradi: approdare in televisione, magari attraverso il cinema firmando colonne sonore, curare i progetti artistici di brand importanti, lavorare con la moda o produrre altri artisti. Vorrei fare come i calciatori, guadagnare molto in poco tempo, abbastanza per aprirmi una azienda, di non so cosa, che mi permetta di trasferirmi a Eindhoven e morire pittore.
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L'articolo Rosa Chemical: "Voglio fare i soldi veloce come i calciatori" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2021-04-19 15:22:00
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