Prendete il Sorpasso e i Giant Sand, Ry Cooder e Nino Rota, Mina e i Los Lobos, aggiungeteci una cultura musicale che spazia praticamente in tutto il mondo e una capacità di creare atmosfere che in Italia ha pochi eguali. Avrete un'idea – parziale – di “Delone”, ultimo disco dei Sacri Cuori: ce lo presentano in quest'intervista, oltre che con le parole del chitarrista Antonio Gramentieri, anche con un suggestivo making of girato da Andrea Pedna.
Allora: cominciamo con i complimenti per il disco, che è un discone.
Grazie, non ci aspettavamo proprio, alla nostra età, di essere disco della settimana su Rockit, è stata una bella sorpresa.
Mai dire mai, l'importante è fare il disco giusto, e voi con “Delone” l'avete fatto. Peraltro oltre che con quest'intervista ce lo raccontate anche con il bel mini-documentario di Andrea Pedna.
Sì, ci tenevamo molto a farlo. Non volevamo che fosse un videoclip o una ripresa di noi dal vivo, ma un'opera afferente a un'altra arte, come un mini-film che catturasse le sensazioni e lo spirito di quelli che sono stati questi due anni che hanno portato alla realizzazione di “Delone”. A un certo punto, quando ci siamo resi conto che stavamo partendo con il viaggio che ci ha portati poi a questo disco, ho chiamato subito Andrea che è un nostro amico e bravissimo regista perché mi piaceva che nei momenti salienti ci fosse anche una camera esterna che ci riprendesse dal di fuori. Non gli era stata data nessuna indicazione se non essere lì nel momento e documentare le varie fasi, tanto che nemmeno lui sapeva cosa avremmo fatto di tutto il girato. Questa è un'idea che mi era venuta dopo aver visto “I am trying to break your heart” sui Wilco.
Che è un documentario però in cui emergono tantissimi conflitti, anzi praticamente racconta la rottura tra Jeff Tweedy e Jay Bennett... qui per fortuna non ci sono, si fotografa invece benissimo il processo di crescita del disco.
Andrea Pedna: Certo, senz'altro. Con i Sacri Cuori avevamo iniziato a collaborare ai tempi del Ravenna Festival, qui ho cercato di mettermi in un'ottica diversa, stando al di qua e al di là del vetro dello studio di registrazione, che è quasi come se fosse un'inquadratura, una porta verso qualcosa. Qui ho lavorato insieme alla band, mi sono lasciato guidare da loro, per poi ricomporre in un secondo momento l'unità che Antonio ed io cercavamo. È stato molto facile, in realtà, perché loro hanno questa capacità evocativa unica, quando suonano, quando eseguono, di evocare degli scenari. Quindi il difficile non è stato trovare cosa mettere nel quadro, ma quali aspetti scegliere: cosa mettere per raccontare un'atmosfera. Ovviamente abbiamo usato tanti pezzi di musica, del disco, che hanno creato una sorta di colonna sonora naturale.
Sicuramente il documentario ha il pregio della dinamicità, anche grazie alle interazioni tra il parlato e le parti suonate, e le parti in cui si vede che gli arrangiamenti sono in divenire: riesce a non rendere assolutamente noiosa la rappresentazione di un lavoro in studio.
Merito anche del gran lavoro che ha fatto Andrea in fase di montaggio, ha avuto il coraggio anche di rinunciare a scene molto belle dal punto di vista visivo per tenere fluida soprattutto la linea narrativa, e per dare il senso di come un disco nasca dagli incontri, ma come a volte si faccia anche da solo, cresca da solo.
Infatti una delle frasi del documentario dice: “A volte i dischi nascono con un punto di vista ben preciso, altre volte lo scoprono strada facendo”. Dunque per “Delone” è stato così? Qual è stato il momento in cui avete capito di averlo scoperto, questo punto di vista?
Avevamo iniziato a buttare giù delle idee già subito dopo “Rosario”, che era un disco che lanciava tanti spunti in direzioni diverse, si trattava di capire quale intraprendere per il disco nuovo. Quindi avevamo buttato fuori un sacco di cose diverse, un sacco di idee, abbiamo la fortuna di avere degli studi in casa e anche studi di amici molto buoni che ci permettono di fare questo tipo di operazioni anche con una certa efficacia, perché se viene fuori un pezzo buono su un provino, possiamo poi iniziare a lavorare su quello se è già registrato piuttosto bene. Però era appunto materiale che andava in un sacco di direzioni diverse e serviva un criterio ordinativo; noi qua abbiamo lasciato che il percorso che stavamo facendo, fatto anche di tournée, viaggi molto distanti dall'Italia, ci desse quella spinta per mettere tutto in fila. E sicuramente viaggiare molto è diventato un criterio ordinativo, lo è stato conoscere un sacco di italiani emigrati in varie zone del mondo, lo è stato imbatterci in Carla Lippis, che appartiene alle due categorie di prima. L'incontro con lei è stato uno stimolo importante, è stato anche lo stimolo per deciderci a lavorare sulla forma-canzone, che per un gruppo strumentale è un passaggio delicato e non sempre semplice da fare, quindi via via i viaggi, la geografia, ci hanno suggerito quali erano i pezzi che stavano dentro “Delone” e quelli più personali, di avvicinamento a certe sonorità.
Ecco, Carla Lippis ha una vocalità che richiama un certo tipo di atmosfere, un'interpretazione che manca da tanto in Italia, molto languida, con tante basse. A me ha fatto venire in mente uno stile che era molto di moda negli anni '60, e che oggi sembra quasi scomparso. Non mi viene in mente una cantante che canti a questo modo in Italia.
No, non c'è, ci sono molte interpreti che potrebbero provarci perché in Italia ci sono sempre tante brave cantanti, però questa è una cosa che se la fai perché “vuoi provarci” viene sempre un po' posticcia e innaturale: nel caso di Carla invece c'era uno strato di influenze sue familiari, di ascolti suoi e dei suoi genitori che le erano rimasti in latenza quasi a livello genetico, che l'incontro con noi le ha ritirato fuori. Noi l'abbiamo incontrata ad Adelaide, che è a dieci ore da qualsiasi altra città australiana, perciò isolata: quando è arrivata sul palco mi è venuto in mente tipo i ricercatori del polo nord che hanno trovato la navetta con dentro Capitan America ibernato. Carla era una sorta di Capitan America di quel tipo di vocalità, noi l'abbiam trovata, se lei fosse stata in qualsiasi altra zona del mondo quel tipo di vocalità gliel'avrebbero addomesticata in un'altra direzione, e credo proprio che lei sia diventata il simbolo del punto di vista che volevamo avere sui suoni italiani, di un certo stile italiano. Vintage, se vuoi, ma che non volevamo riproporre a mo' di cartolina perché è un tipo di procedimento che a noi non interessa; volevamo provare a riviverlo con un certo livello di rischio e di sincerità proprio andando alla base genetica di tutto questo. Quando Carla ha incontrato noi, il nostro suono era una pista di decollo ideale per il suo tipo di interpretazione. E lei ci è decollata subito.
Infatti nel documentario dice questa cosa che mi ha colpito molto, della musica che “galleggiava” nella sua casa. Immagino si riferisca non solo alla canzonetta italiana ma anche a Morricone, Rota, e le varie colonne sonore. Ora, Carla ha genitori italiani ma un percorso straniero, eppure la musica è la stessa che galleggia anche nelle nostre case, nel senso che è sopra e sotto il filo dell'acqua della cultura popolare. E voi in tutti i dischi avete dimostrato un talento straordinario nel raccogliere tutta questa musica che continuerei, citando Carla, a chiamare “galleggiante”, per tirarla fuori dall'acqua e darle una nuova vita.
Ti ringrazio della constatazione, che mi onora. Il punto è che arrivi a un'età anche anagrafica del tuo percorso artistico, qualunque esso sia, in cui un confronto con le tue radici finisci per farlo, volente o nolente. Da noi in Italia è accaduto qualcosa, tra gli anni '80 e '90, in cui, con la pretesa di diventare la nuova musica italiana, anche perché allora sembrava la cosa giusta da fare, si è cominciato a guardare un sacco verso dei modelli rock stranieri e rifarli in italiano. Parlo di gruppi ovviamente validissimi che hanno fatto la storia degli ultimi vent'anni, ma è evidente ad esempio che i Marlene Kuntz si rifacevano molto ai Sonic Youth, soprattutto all'inizio, in maniera direttissima, poi gli Afterhours che prima erano dei fan di Springsteen, poi guardavano più agli Afghan Whigs, e tutto questo va benissimo, ma viviamo ancora con l'idea che rifarsi a dei modelli stranieri anni '90 sia una cosa progressiva o progressista, mentre non lo sia rifarci a quelli che erano i nostri contributi più importanti alla cultura mondiale almeno dell'ultimo secolo. Pensiamo solo alle colonne sonore: io sono nato all'inizio degli anni '70, c'era ancora un certo tipo di cultura degli anni '60 anche se era in fase ovviamente calante, c'erano ancora quei film in televisione, che allora aveva uno o due canali: ecco, questi avevano un'incidenza sul tessuto sociale inimmaginabile in una cultura come quella odierna in cui non ci sono mai stati meno di venti o trenta canali disponibili. Si andava anche al cinema, e quello che succedeva là finiva per permeare la visione che una nazione aveva di se stessa, e sono stati anni in cui quello che abbiamo fatto ha avuto una potenza anche nei confronti del mondo che nessuno nella nostra produzione culturale ha più avuto, per cui noi lì abbiamo inevitabilmente respirato un'aria. Poi quando – torno ai Sacri Cuori - abbiamo visto che nella nostra formazione, composta per lo più di suoni americani o afro-americani, ricominciava a venire fuori un certo modo, volente o nolente, di prendere le melodie, contrariamente ad altri esperimenti, anche quelli che abbiamo detto prima, dove l'italianità è stata invece tenuta a debita distanza perché sembrava un'agente inquinante, nel nostro caso l'italianità l'abbiamo fatta entrare a porte aperte, e abbiamo lasciato che da sola creasse un'unione con tutte le nostre cose che avevamo ascoltato. Quando la cosa è arrivata ad un certo livello da sedimentarsi e creare qualcosa di nuovo, abbiamo deciso che era ora di fare anche i nostri pezzi, le nostre composizioni, che sono figlie di questa musica che galleggia, figlie di musica che abbiamo scelto noi di far galleggiare nelle nostre case, forse all'inizio quella più afro-americana, e la musica che normalmente galleggiava nelle case dell'Italia in cui siamo cresciuti.
Volevo andare su questo discorso delle radici per parlare dell’interazione che c’è stata con i musicisti stranieri ospiti nel vostro disco (Marc Ribot, Howe Gelb dei Giant Sand, Steve Shelley dei Sonic Youth, Evan Lurie). In che modo la vostra idea iniziale di “sound italiano” ha interagito con quella che dall’estero i musicisti avevano percepito?
Per noi gli incontri sono stati fondamentali per mettere ancora meglio a fuoco la prospettiva dalla quale stavamo guardando certi suoni. Noi abbiamo anche nella nostra carriera di ascoltatori dei numi tutelari abbastanza chiari. Quello che avevano fatto i Los Lobos e quindi David Hidalgo con le radici è molto interessante, quello che ha fatto Marc Ribot andandosi ad appropriare di certa musica popolare, del blues, della musica popolare cubana suonata con un piglio newyorkese, con un piglio contemporaneo - ci sembrava gente che era andata attorno alle radici con rispetto ma allo stesso tempo con la voglia di premere sui confini, di allargarli. Avere la possibilità di lavorare con loro in studio, dandogli in mano questo materiale melodico che se vuoi ricorda un po’ certa musica cubana, latina, messicana - però di fatto aveva una latinità di matrice italiana – ecco, vedere come loro si rapportavano ad essa, come la pronunciavano, sentire certe frasi melodiche pronunciate col loro accento ci ha aiutato ancora meglio a definire questa diagonale fra i suoni che rimanesse italianissima nelle premesse, ma che non assomigliasse mai una cartolina. Lo stesso Howe la musica italiana in pratica non la conosce, però mi ha sempre detto che la sua visione dei suoni del deserto è inevitabilmente condizionata dai western che ha visto da bambino, per cui sostanzialmente da una visione italiana del West. Quindi la musica ad esempio di Morricone, che non metterei tra le mie primissime influenze, almeno nella chiave western, ma che rimane un compositore e arrangiatore clamoroso. La sua abilità di disegnare degli spazi è qualcosa che ha influenzato anche gli abitanti di quegli spazi stessi: un discorso simile si può fare per Nino Rota, pensa alla Romagna trasfigurata in Amarcord, e a come (pur essendo tutto fuorché romagnolo) ha cambiato il modo in cui è vista questa regione persino dai suoi stessi abitanti.
Prima dicevi che non è considerato progressista ispirarsi a queste atmosfere. A me sembra però che qualcosa stia cambiando negli ultimi tempi: gruppi come Calibro 35, Ronin, Guano Padano stanno avendo un'attenzione a livello di pubblico, in Italia ma anche all'estero, che pochi anni fa era impensabile
Guarda, quello che hai detto è vero, ma per ognuno è un caso diverso. Ovviamente siamo tutti amici con queste band, con Bruno Dorella mi è anche capitato di giocarci a racchettoni, con Martellotta dei Calibro ci sentiamo spesso, idem con i Guano, con Asso abbiamo fatto tante cose, poi qualche volta siamo capitati sia io che Diego dei Sacri Cuori nelle orbite di Vinicio a far delle cose particolari, per cui non dico che siamo una grande famiglia ma ci conosciamo abbastanza bene tutti. Però, in realtà, non c'è una scena vera e propria. Sai che nella storia le scene le hanno sempre inventate i giornalisti: prendi i Calibro, che sono sicuramente in Italia quelli che hanno più spinta di tutti, anche come pubblico. Loro sono bravissimi a suonare, intendiamoci, ma hanno fatto un discorso da subito molto centrato su ritmi funky quasi ballabili, se vuoi, laddove il ballabile non è una parolaccia, è groovy, e questo approccio gli ha sicuramente aperto tutta una fascia di pubblico... Secondo me i Calibro sono la prosecuzione un po' più acida di quello che era successo nei primi anni '90 di quello con la Irma Records di Bologna, che riprendeva tutti i dischi anche di Piccioni o di Umiliani, ripescando le cose più danzerecce e “pestate” delle loro colonne sonore. I Ronin, secondo me, fanno dell'heavy metal rallentato (ride), perché Bruno viene da quella cosa là, tutte queste figure con le chitarre ad incastri, eccetera, poi nelle atmosfere ci sono anche ovviamente dei punti di contatto. E i Guano hanno fatto un lavoro molto specifico sullo spaghetti western, per cui ognuna di queste formazioni si è concentrata su un'area molto precisa. Noi forse siamo quelli che si sono tenuti un campo molto aperto, da una parte fai fatica a chiuderci in una parola, però al tempo stesso spaziamo un pochettino di più. Non è né un pregio né un difetto, è semplicemente collocarsi all'interno di qualcosa. Se ci pensi questa cosa del recupero delle radici è già successa altrove molto tempo prima, con gruppi come Mano Negra, o Les Negrettes Vertes, o i Los Lobos che alcuni in Italia continuano a considerare dei bovari country-rock mentre sono un gruppo eccezionalmente contemporaneo: tutti questi affrontavano la sfida del contemporaneo ma portandosi dietro le loro radici ed esponendole molto chiaramente. In Italia uno che è riuscito sempre a mettere le sue influenze prima in un'ottica europea e poi in un'ottica mondiale, è Paolo Conte. Quello che ha fatto e che continua a fare sulla melodia popolare, andandola a colorare una volta più d'Africa una volta più di jazz manouche, una volta più di canzone francese, una volta più di boogie woogie o di ragtime, ma rimanendo sempre intimamente italiano: quello forse è il percorso che continuiamo a sentire più vicino. A livello di Davide e Golia, eh, sia chiaro.
Ecco, tra le radici e la musica italiana "galleggiante" di cui parlavamo, c'è anche il liscio, genere che oggi è facile bersaglio per i giovani ma che i Sacri Cuori non hanno mai avuto timore di affrontare
Io direi prima di tutto che le giovani band parlano male del liscio perché il liscio ha fatto il possibile dal canto suo per far parlare male di sé. Quando ne parlavo con Federico Savini di Blow Up, che fece un lungo servizio l'anno scorso, dicevo che il liscio è uno dei rari generi che non è morto, si è suicidato (ride). Detto questo per me la musica è musica e nel liscio ci sono un sacco di bellissime melodie, bravissimi compositori e gente che lo suona benissimo. C'è anche tutto un lato deteriore, soprattutto nel testo, che non si è mai evoluto al pari passo con la musica, perché doveva essere una musica di servizio, di intrattenimento molto basico. Poi vedi, noi siamo romagnoli, per cui nel pensare la musica come professione, volente o nolente, tangenzialmente ci siamo passati tutti. E negli ultimi anni, qua grazie al Ravenna Festival che ha fatto tutta un'edizione dedicata, c'è stato un grande fermento in merito. Per me il liscio lo si può riproporre o lo si può incorporare: noi stiamo cercando di incorporarlo, avendo cercato di farlo anche con la nostra voce in un paio di occasioni molto rispettose. Le riletture del liscio che negano l'aspetto danzereccio, che so, jazz, punk, divertite e situazioniste, spesso non mi piacciono e mi innervosiscono, perché partono dal presupposto di superiorità culturale. Molti gruppi ridono del liscio, ma prima di ridere di una cosa bisognerebbe essere sicuri di averla capita, se no magari si diventa ridicoli nel riderne.
Devi conoscere il genere e la sua storia prima di giudicare.
Assolutamente. E aggiungo quello che ricorda spesso Andrea, che sul liscio ci ha girato un intero documentario: che il liscio nasce nel dopoguerra per incanalare tutta l’energia che c’era in quel momento, incorporando elementi stilistici diversi. Ma anche i generi di cui parlavamo prima, anche le colonne sonore, partono da lì: hanno dentro il momento più positivo, di ottimismo, di questo Paese… e quindi è veramente musica nata con dentro dei presupposti e un’energia pazzesca, esplosiva. Non è un caso che sia ancora quella che risuona di più.
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L'articolo Sacri Cuori, lontano dall'Italia da cartolina: la musica dei luoghi in "Delone" di Silvio Bernardi è apparso su Rockit.it il 2015-06-24 10:03:00
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