Un buon titolo non è tutto. Se no uno manco la farebbe l'opera, titolerebbe e basta. Però fa molto. Ecco Südtirockè un ottimo titolo (e lo stesso dicasi per il sottotitolo "Suoni di confine) per un documentario, che però non si limita a questo. Affatto, rimane interessante e più che godibile per tutti i sessanta minuti della propria durata. È stato realizzato da Jadel Andreetto insieme al regista Armin Ferrari. Il primo è uno scrittore, giornalista e traduttore, oltre che autore di un bel podcast - Morte di un giallista bolzanino - uscito per Rai Play Sounds e musicista. Ferrari invece è regista e produttore di film e documentari da tanti anni. Anche lui suonava, chiaramente.
Il loro film è stato proiettato in anteprima qualche settimana fa al cinema Lumiére di Bologna nell'ampito di Biografilm, uno dei maggiori festival internazionali di cinema documentario, successivamente è stato selezionato per il Too Drunk to Watch, storico festival punk di Berlino e si può vedere qua, sul canale Rai del Trentino Alto Adige. Raccontala storia del rock e dei suoi vari addentellati in Alto Adige (o Südtirol, dipende dalla prospettiva) dagli anni '80 fini a metà degli anni '90. Una scena vivissima, potente e molto varia, in cui hanno brillato formazioni metal riconosciute ovunque nel circuito di riferimento, formazioni punk hardcore e altre di un rock più "tradizionale".
Uno dopo l'altro - a cominciare dalla più nota a livello internazionale, gliSkanners, ancora in attività – i membri di queste realtà dicono la loro nel corso del documentario, che inizia con una domanda che pare banale e che invece mette sin da subito in difficoltà: "che cos'è il Sud Tirolo?". Assieme ad artisti ed ex artisti, con profili e look molto diversi l'uno dall'altro, il documentario dà voce a giornalisti, storici, sociologi e commentatori, con un approccio che, partendo dalla musica, si pone l'ambizione di andare in profondità nell'analisi dell'identità di questo territorio di confine, fondato sulle proprie contraddizioni e del tutto indecifrabile (posto che pochi sono interessati a farlo) per chi guarda da fuori.
Oltre a ripercorrere epopee musicali molto rumorose, Südtirock parla di bilinguismo, di conflitti, di eroina e vite devastate, di politica fatta per strada, memoria storica, controculture. Una realtà in cui c'era un sacco di tensione, ma altrettanta creatività. E che valeva la pena storicizzare, perchè chi ha vissuto quegli anni sa quanto siano stati decisivi. Abbiamo fatto una chiacchiera con i registi, che ci regalano anche qualche consiglio di ascolto.
Quando nasce Südtirock?
A: Ho debuttato nel 2022 con il mio primo lungometraggio documentario dedicato al collettivo di scrittori Wu Ming e alla Wu Ming Foundation. Con Wu Ming Foundation si intende la serie di cantieri culturali e progetti di varia natura emersi proprio a partire dalla poetica letteraria di Wu Ming. In quel contesto ho avuto modo di conoscere Jadel Andreetto, artefice di uno di questi progetti satellite. Jadel è bolzanino di origine, ma trapiantato da anni a Bologna. Queste origini condivise (io a Bolzano oltre a esserci nato ancora ci vivo) hanno fatto scattare la serie di riflessioni che hanno portato alla nascita di questo documentario. Nello specifico è nato tutto proprio dal titolo, "Südtirock", una suggestione di Jadel, un punto di non ritorno.
J: La parola "Südtirock" mi ronzava in testa da parecchio tempo… Da qualche anno sto cercando di raccontare Bolzano nei libri e nella musica, sono sulla soglia. Metà della mia vita l’ho vissuta là, mentre l’altra metà l’ho vissuta altrove. Forse sto cercando di capire perché me ne sono andato e perché non ci voglio tornare, chissà. È una specie di resa dei conti… In ogni caso, le rese dei conti spesso si concludono con uno stallo, ma quando ho conosciuto Armin sul set di A noi rimane il mondo, ho capito che l’unico modo di narrare quell’incrocio spazio-temporale era farci un film e lui era la persona giusta con cui farlo.
Avete un approccio storico, politico e sociologico, oltre che musicale. Da cosa deriva?
A: Credo, e questo a parer mio vale per tutte le narrazioni possibili, che osservare un fenomeno da più punti di vista sia l’unico modo per provare a capirlo veramente. In questo caso parlare solo di musica oppure solo di storia avrebbe sicuramente semplificato il racconto, ma lo avrebbe anche in qualche maniera reso sterile e poco coinvolgente. Con questo approccio multiforme si può invece trascendere il semplice racconto e tentare di evocare lo spirito del tempo.
J: Se non c’è conflitto non c’è storia. E il conflitto in Sudtirolo - come da molte altre parti - passa dalla storia, dalla società, dalla politica e, come abbiamo scoperto facendo il film, dalla musica.
In cosa consiste l'identità del Sud Tirolo?
A: Bolzano e il Sudtirolo tutto erano e rimangono un luogo indecifrabile. Siamo formalmente in Italia, ma la maggioranza degli abitanti parla tedesco, peraltro in una versione fortemente dialettale. Quando ci nasci e ci vivi dentro sembra tutto normale, ma quando ti sposti a sud nel resto d’Italia o a nord, nei paesi germanofoni, ti specchi con delle realtà alle quali credi in qualche modo di appartenere, ma che di fatto non ti somigliano per nulla. Questo per me è il Sudtirolo: l’illusione di una finitezza e appartenenza che si sgretolano una volta varcato il confine geografico. Un enigma sociale incastonato in uno scenario da sogno.
Che posto era Bolzano negli anni '80 e '90?
J: Bolzano negli anni Ottanta e Novanta era la morte. Civile ed esistenziale (non che ora sprizzi di vita, eh… ma volente o nolente si è dovuta un po’ aprire). Un grumo di contraddizioni nerissime con un peso specifico talmente enorme da attrarre ogni briciolo di energia. La quintessenza della provincia. In apparenza felice, opulenta e socialdemocratica. In realtà indolente, supponente, bigotta, ubriaca, triste, incarognita. Senza speranza. Ma come recitava il titolo di un disco dei Contropotere: nessuna speranza, nessuna paura… E se non hai paura, puoi osare.
Quelli che raccontate erano anche anni di eroina e violenza nelle strade. Quanto erano forti questi fenomeni a Bolzano e quanto hanno inciso sulla musica questi fenomeni?
A: È la domanda alla base del documentario e la risposta, nel bene e nel male, è il documentario stesso. Naturalmente non si tratta di una risposta precisa, ma piuttosto di un congegno per attivare una riflessione su un periodo particolare che, a distanza di 35-40 anni, può effettivamente essere osservato attraverso il filtro del tempo e della Storia.
J: La musica, anche se all’epoca eravamo troppo in media res per rendercene conto, ha fatto da agente sublimatore, da catalizzatore e da detonatore. Tutta quella violenza compressa, sottesa, non detta doveva esplodere prima o poi. E lo ha fatto nelle sale prove con una quantità impressionate di band a cui non restava che alzare il volume per sovrastare il rumore delle bombe nelle strade, dei proiettili e dei coltelli dei serial killer, degli stantuffi delle siringhe…
Raccontate un'epoca in cui c'erano italiani e tedeschi, rigorosamente divisi, con pochi contatti e molte botte tra le due comunità. E ora?
A: Il paesaggio cambia a seconda di chi lo osserva. C’è chi ti dirà che era meglio prima, chi ti dirà che è meglio adesso. Cambia l’epoca, cambiano i parametri, il tempo passa e sicuramente le cicatrici sbiadiscono, ma forse ne appaiono anche di nuove. La sensazione è che ciascuno viva questa terra complessa con la propria sensibilità. Bisognerebbe forse chiederlo ai giovani di oggi e mettere in relazione le risposte con quelle dei giovani di ieri per capirci davvero qualcosa. La musica, come raccontiamo in Südtirock, ha sicuramente avuto un ruolo unificante, ma la sensazione è che quell’unità non abbia saputo andare oltre quell’ambito.
J: Le particelle di italiani e tedeschi vibrano ancora a velocità troppo diverse, occupano lo stesso luogo ma non la stessa dimensione. L’altro da sé è un concetto chiarissimo da quelle parti. L’arrivo di molti stranieri però ha messo a nudo la vera criticità di quel modello scellerato di separazione: è soprattuto una questione di classe sociale oltre che “etnica”.
C'erano però molti gruppi "misti". Quali i piu importanti?
J: Skanners, No Choice, Graveworm, Jagoda, Feline Melinda…
Il film propone interessanti riflessioni sui concetti di fascismo e antifascismo applicati al contesto locale. C'è stato un nazirock sudtirolese, e una antifa?
J: C’è una band molto nota che fa incetta di dischi di platino in tutta Europa che si definisce “Konservative Antifaschisten”, in sostanza sono nazisti antifascisti (!). Sembra assurdo, lo so, ma una volta visto Südtirock forse la cosa potrebbe risultare più chiara. Ah, io li odio i Konservative Antifaschisten del Sudtirolo… Negli anni successivi a quelli raccontati nel documentario c’è stata qualche band hardcore destrorsa, ma nulla di cui valga la pena parlare. Nella scena anni Ottanta - Novanta locale l’antifascismo era una questione legata alle singole persone più che alle band. In molti gruppi militavano diversi antifascisti, anche se le varie formazioni non erano propriamente ascrivibili a una scena antifa tout court.
Nel film si parla di Tirol Isch Lei Oans dei WC (al link tutta la loro discografia) come di un inno, come dei vostri Ramones (anche se da molti punti di vista mi ricordano di più i Sex Pistols). Cosa rappresenta questo brano per un sudtirolese?
A: Il brano Tirol isch lei oans è l’inno ufficiale tirolese. Quello che rappresenta nella sua versione divertentissima e trasfigurata dei WC è forse quello che poteva rappresentare God save the queen dei Sex Pistols; un grido grezzo ed efficace per disinnescare le sovrastrutture di significato attribuite ad un brano e farlo diventare un inno davvero popolare.
J: Si tratta di un brano patriottico ottocentesco reinterpretato da tantissimi gruppi folk locali, che per sua natura è diventato il simbolo dell’irredentismo. Il testo, in tirolese, dice più o meno: "Il Tirolo è uno solo, è un posto molto bello e accogliente… ed è mio".
Quali sono i gruppi che bisogna per forza conoscere per capire cos'è stato il "Südtirock"?
J: Gli Skanners sono ormai una leggenda del metal, calcano i palchi internazionali da più di quarant’anni e non hanno nulla da invidiare ai nomi più blasonati del panorama. Mi è capitato di vederli dal vivo questa estate e sono fenomenali. I loro live sono imperdibili e fanno mangiare la polvere a tante band contemporanee… I Graveworm hanno fan sparsi a quattro angoli del globo e per gli amanti delle sonorità tra death e gothic sono una certezza… Anche i veterani Anguish Force (siamo dalle parti della più canonica NWOBHM) hanno un loro pubblico fedele e appassionato e ogni anno organizzano un piccolo festival un po’ sgarruppato ma verace, l’Atzwang Metal Fest. Altro discorso per la scena punk-hardcore che rispetto a quella metal è meno vasta: avrebbero meritato molto di più i Khalmo, che non avevano nulla da invidiare a Negazione, Kina, Indigesti e i vari nomi dell’Olimpo italiano del genere. Dall’hardcore Ruth Goller è passata al jazz d’avanguardia e oggi è una musicista molto apprezzata sia come solista che come turnista, tanto che ha suonato anche un certo Paul McCartney. Molto interessante la “re-union” a distanza di decenni degli Xelam… un ottimo synth-pop che strizza un occhio ai Suicide e l’altro ai Depeche Mode… Dategli una possibilità e non ve ne pentirete. In ambito rock, quando quello italiano era in piena esplosione, gli Eugénie sembravano sul punto di farcela… erano davvero a tanto così. Immagine e suono sono tipicamente anni Novanta, come si evince dal video deIl silenzio tra di noi… Ci sono diversi libri dedicati alla scena locale, tra cui Alta Fedeltà di Paolo Crazy Carnevale che è forse il più completo e ricco di aneddoti sugli ultimi sessant’anni di musica sudtirolese.
Veniamo a cinque brani fondamentali per capire il periodo?
J: Di quelli che si possono trovare con facilità online direi Oltrisarco in the night degli Skanners (ça va sans dire), Visioni meccaniche dei Khalmo, Maestro dei sensi dei No Choice, Sommer in Tirol dei WC e Spieglein, Spieglein degli Still Blind. Ci sono moltissimi altri brani di band come Occupazione, Jagoda, Grenzland, Anna e i Dentici, Gloomy Solution ecc. che potrebbero incarnare alla perfezione il periodo, ma purtroppo sono reperibili sono su nastri malandati e VHS traballanti. Un vero peccato.
Quale il ruolo delle donne nel "movimento"?
J: Come in tutte le altre regioni, all’epoca, le donne erano un po’ in minoranza, ma in ambito punk ci hanno regalato alcune delle band più interessanti e innovative del panorama, tra cui le Stuff and Nonsense, le D.A.R.M.A, Anna e i Dentici…
Quali sono stati i luoghi e locali più importanti?
J: Di locali, in sostanza, non ce n’erano anche se un bar in particolare in centro a Bolzano era il ricettacolo di tutta la scena alternativa. Dietro al bancone di Holler, che oggi è un pub irlandese, si trovavano punk, metallari, mod e vecchi rocker, artisti, personaggi eccentrici sui generis, ma anche persone insospettabili appena uscite dal turno in banca o in fabbrica, ma soprattutto italiani, tedeschi e stranieri, che una birra dopo l’altra, uno zibibbo dopo l’altro, creavano una comunità speciale, lontana anni luce dalla cosiddetta “società civile” che soffiava sul fuoco dell’odio dell’intolleranza e della diffidenza. Tre realtà importantissime che per ragioni di tempo non siamo riusciti a raccontare nel film sono radio Tandem, l’associazione Uscita / Ausweg e il centro giovanile Papperlapapp, che nel corso dei decenni hanno sostenuto e promosso la scena locale al di là di ogni logica commerciale e politica.
Che reazioni hanno avuto le band all'idea di raccontare e "storicizzare" il fenomeno?
A: “Che cos’è il Sudtirolo?” è la domanda che apre il documentario ed è la domanda che ha aperto ogni singola intervista fatta, incluse quelle ai musicisti, che probabilmente si aspettavano un approccio molto diverso da quello adottato. Questo piccolo escamotage ha creato il terreno dissestato e fertile per condurre delle interviste molto particolari dove si alternassero, senza soluzione di continuità, sprazzi di ricordi musicali a incursioni nello spaccato della società dell’epoca. Le reazioni di per sé sono state molto varie, ma lo stupore ha sicuramente prevalso. Tanti suonano ancora oggi, ma naturalmente il tessuto sociale è completamente cambiato e con esso le energie in campo.
J: All’inizio non è stato facile. Chi pensava di ritrovarsi a parlare dei bei tempi andati in cui si suonava è rimasto un po’ spiazzato, ma una volta rotto il ghiaccio e inquadrata la prospettiva le persone hanno cominciato a dipanare l’indipanabile matassa. Il film ha preso forma mentre lo facevamo, abbiamo scoperto molte cose che non sospettavano in corsa. Credo si legga nelle espressioni di molte persone che compaiono sullo schermo… Alcuni musicisti sono ancora in sella e producono cose egregie, anche se il contesto è totalmente diverso. Südtirock non racconta solo le storie delle band dell’epoca, ma anche la storia in cui erano calate, per farlo abbiamo chiesto a giornalisti e storici di aiutarci a raccontare quelle vicende, tra loro c’è anche Andrea Di Michele che ha da poco dato alle stampe per Laterza un saggio fondamentale per trovare alcune risposte alla domanda iniziale del film: Terra italiana. Possedere il suolo per assicurare i confini 1915-1954.
Cosa offre il panorama musicale locale? Esiste qualcosa di simile a una scena?
A: È difficile dirlo, banalmente perché per ragioni anagrafiche non frequento l’ambiente. Quello che mi sento di dire, con ragionevole certezza, è che il tipo di scena che raccontiamo nel documentario non esiste più perché non esistono più i presupposti. Complici le nuove tecnologie e l’epoca storica che viviamo, la musica come grande aggregatore sociale in senso tradizionale sembra davvero una cosa ormai passata.
J: Oggi in ambito doom, stoner e compagnia bella Deadsmoke e Slowtorch sono nomi consolidati. Come lo sono i thrasher Bullet-proof. C’è un’inossidabile etichetta discografica che si occupa di indie e dintorni, la Riff Records, che fa un lavoro pazzesco. Anni fa pubblicò People Do Not Know Who Rules dei Sense Of Akasha, un gioiello post rock che vale la pena riscoprire. Due band molto interessanti con percorsi rock obliqui e traiettorie sperimentali sono i Satelliti e i Controfase. È bolzanino il combo degli Strawdogs che ha accompagnato il cantautore londinese Ed Laurie nel suo splendido Cathedral. Sul versante elettronico e di ricerca non posso non citare i lavori di Claudio Rocchetti, Ulrich Troyer (da solo e con l’incredibile Vegetable Orchestra) e Bartolomeo Sailer in arte Wang Inc. In ambito folk-rock al confine con il country, se vi piace il genere, il nome da tenere d’occhio è Mainfelt, se invece siete curiosi di vedere il folk tirolese con altri occhi, anzi di sentirlo con altre orecchie, non vi resta che darvi all’Herbert Pixner Project, che vanta alla chitarra il virtuoso Manuel Randi, già nei gloriosi No Choice. Le ultimissime novità le conosco poco, ma la redazione musicale del giornale online salto.bz è sempre molto attenta e aggiornata sulla scena…
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L'articolo "Südtirock": come il punk e il metal hanno ridefinito l'identità di una terra di confine di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-09-02 12:08:00
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