Setti: ascolta "Arto" in anteprima e leggi l'intervista

Oggi vi presentiamo in anteprima il nuovo album di Nicola Setti, "Arto"

“Arto” è il nuovo disco di Setti. Costruito su brevi ma efficaci flash surreali e paradossali. Scritto inseguendo libri, dischi e film che finiscono per segnarti la vita. E che poi si intersecano tra situazioni surreali, paradossali, seguendo le coordinate di un racconto apparentemente sconclusionato ma non privo di incontrollabili flussi di coscienza. Setti, il cui nome registrato all’anagrafe è Nicola, racconta la gestazione del suo nuovo lavoro, di Modena, di concerti persi, di Sufjan Stevens e di come qualcuno abbia definito la sua musica “indiana”.

Le recensioni di “Arto” uscite son qui sono molto benevole nei tuoi confronti. Come la stai prendendo?
Molto bene. Nel senso che il periodo di scrittura e la lavorazione del disco sono stati parecchio lunghi. Abbiamo registrato per quasi un anno a La Falegnameria Studio, poi siamo passati alla post produzione. Una volta completato il tutto, quasi un anno fa, ho avuto bisogno di non riascoltarlo più per vari mesi e oggi lo vedo con più distacco. Sono molto contento del lavoro fatto. La recensione di Arturo Compagnoni, poi, l’ho molto apprezzata: sono un suo fan da tempo, è un giornalista che mi ha fatto scoprire tante della band che amo: la sua recensione è stata davvero emozionante. In ogni caso, mi piace sentire cosa si pensa delle cose che ho creato, sia in bene sia in male. Lo trovo un gesto commovente.

Arturo Compagnoni, su “Rumore”, ha scritto che sei “un tipo che ha la capacità di infilarsi in situazioni paradossali, vivendole in modo assurdo”. Ti ci ritrovi?
Sì, devo dire che amo molto il paradosso e l’assurdo. Quindi, li cerco. Ma forse è un esercizio mio. Quale situazione non è potenzialmente assurda? Forse dipende anche da come la guardi. L’umorismo assurdo è un tipo di approccio che mi ha molto influenzato e salvato in alcuni casi. Probabilmente, preso dai film, libri, dischi che ho ascoltato e ascolto. Non cerco le situazioni assurde ma amo il lato assurdo delle situazioni. Forse Compagnoni si riferiva anche al pezzo “Woods”, che racconta di un concerto a cui non sono riuscito ad arrivare. È forse la prima volta che scrivo una canzone su di un fatto realmente accaduto, di solito è un collage di fatti. Io e alcuni amici volevamo andare a vedere i Woods all’Hana Bi di Marina di Ravenna, ma abbiamo trovato un incidente in autostrada e siamo rimasti bloccati due ore. Quindi, non saremmo riusciti ad arrivare in tempo e così siamo andati a mangiare gnocco e tigelle. Non è allusivo, è la cronaca di quello che è successo. Magari, se al concerto ci fossi arrivato, quella canzone non l’avrei mai scritta. Paradossale anche questo, a suo modo.

Io invece ho scritto: “Setti poggia la sua poetica su di una sorta di geografia interiore, salgariana, non mancando di intersecarla a un romanzo generazionale tascabile. Un racconto apparentemente sconclusionato, senz’altro bizzarro, surreale, a volte triste, altre decisamente gioioso”.
Mi piace moltissimo. In effetti, una volta scelti i pezzi di questo nuovo disco, quando si sono messi  in fila da soli nella mia testa, ho notato che si potevano vedere come tappe di un viaggio. In cui c’è una prima parte con riferimenti americani e una seconda con riferimenti più europei. Ma è un viaggio da fermo del tutto interiore, per questo penso a Emilio Salgari nel suo scrittoio che immagina la Malesia. Ho cercato anche forme di narrazione meno lineari, per immagini, per suscitare emozioni, lasciando aperta l’interpretazione. Spesso ho scritto i pezzi mettendomi nei panni di qualcun altro, di un personaggio, Quindi, per me è bello se ci vedi dentro un insieme di sentimenti anche contrastanti, nelle opere che preferisco c’è questo tipo di commistione. Mi interessa molto. Grazie.

“Arto” da Arto Lindsay?
Il titolo “Arto” ha una serie di motivazioni. Era il titolo di lavorazione da circa tre anni. Volevo mantenere una parola con la A come il precedente “Ahilui”, fare una specie di trilogia AAA che, ovviamente, non farò mai. Poi mi sono innamorato del pezzo “Simply are” di Arto Lindsay e pensavo che cercare cose che “semplicemente sono” fosse un buon metodo di lavorazione, oltre alla libertà a livello di sperimentazione e il senso melodico. Continuo: il mio amico Alessandro Formigoni mi aveva regalato un suo quadro bellissimo con un maiale astronauta senza un braccio, un arto quindi, che ho avuto davanti per tutta la lavorazione e adesso è nell'artwork del disco. Poi perché mi sembrava un disco più arty, anche in senso ironico e perché, visto il tempo, l’energia e l’investimento nella realizzazione, mi sembrava di stare dando un arto. E poi mi piaceva il suono della parola. Il disco è sempre stato “Arto”, con l’idea di cambiarlo una volta finito, invece, il nome è rimasto “Arto”.

Come sono cambiate le tue canzoni una volta entrato in sala di registrazione?
Dunque, è stato un processo lungo, come ti dicevo. Il disco è stato un lavoro di gruppo. Ci ho messo molto a scegliere i pezzi. Ho dato i demo voce e chitarra a Luca Mazzieri (A Classic Education, nda), gli ho chiesto di darmi una mano a dare loro una veste. Avevo bisogno della figura del produttore artistico e Luca è stato il migliore che potessi avere, mi sono affidato a lui. Abbiamo scelto insieme e ci siamo lasciati guidare dagli eventi, dalla nostra sensibilità. Inoltre, ho registrato alla Falegnameria Studio di Stefano Bortoli, che è stato molto disponibile, quindi ci siamo presi tutto il tempo necessario, in base alle disponibilità dei musicisti che abbiamo invitato a suonare. Il tutto è stato poi mixato da Luca Lovisetto dei Baseball Gregg, che ha anche inserito altre parti strumentali durante il mixaggio, il master è stato fatto da Andrea Suriani all’Apha Dept. Ho scelto le persone con cui collaborare dando loro abbastanza libertà, persone che mi piacevano molto e mi hanno dato tantissimo. Non sapevo esattamente cosa sarebbe venuto fuori ma avevo voglia di collaborare. In fase di mixaggio abbiamo poi scelto cosa utilizzare: sono molto contento del risultato, anche inaspettato a volte, ma era quello che desideravo. Forse il caso più eclatante è stato “Bestia”, uno dei miei pezzi preferiti: ha preso questa piega tropicalista storta, che mi ha indicato Luca Mazzieri, a cui proprio non avevo pensato, Luca Lovisetto ha fatto una bellissima parte di chitarra solista e Stefano Bortoli mi ha aiutato a trovare il modo di cantarla. Da solo non lo avrei mai fatto ma mi rappresenta al 100%. Poi, nel disco ci sono molti ospiti, tutte persone che amo sia a livello artistico sia a livello umano. Lavorare con Luca, in particolare, è stato fondamentale, mi ha spinto a crescere molto e ad avere più fiducia in me, a cercare la veste giusta senza porsi limiti. Il produttore giusto, insomma.

Le tue canzoni, a parte “Woods”, che dura 3’17’’, non vanno quasi mai oltre i 2’30’’. Da dove deriva questa stringatezza? Suppongo sia una esigenza artistica: a primo impatto, sembri un logorroico da competizione...
Eh sì, in effetti, se stimolato con le domande giuste, mi lascio abbastanza andare! Diciamo che quando scrivo mi fermo quando sento che il pezzo è finito. Non mi pongo limiti. Tipo “Iowa”, nella mia testa durava quattro minuti, ha due strofe e due ritornelli, invece dura un minuto e mezzo. Son stato più corto ora!

E allora non era una domanda giusta… Proviamo con questa: che rapporto hai con la musica di Sufjan Stevens?
Lo amo moltissimo. Sono un suo fan. Il gioco delle canzoni con nomi di stati americani è nato dal primo EP di Setti, era il 2008 e il pezzo si chiamava “Tennessee”, se non sbaglio. Ero in ospedale, in sala d'attesa, e ho sentito due signore sedute una di fianco all’altra, in silenzio. Poi una delle due, dal nulla, ha detto all’altra: “Il Tennessee sta in America del Nord?”.  E l’altra ha risposto: “Non lo so, ma direi sì”. E sono tornate in silenzio. In quei giorni ascoltavo molto “Illinois” (il quinto album di Sufjan Stevens, nda) e ho fatto un pezzo che aveva nel ritornello il dialogo tra le due signore. Da lì è stato un gioco mettere in quasi tutti gli EP e album un pezzo con un nome di uno stato americano. Che però non parla assolutamente dell’America. Peraltro, sono posti in cui non sono mai stato, tranne Boston, ma non ho mai scritto un pezzo dal titolo “Boston” (o “Massachusetts”), lo hanno fatto i Baseball Gregg e io ho scritto e cantato una strofa in italiano nella canzone. Il tutto derivato dal progetto degli stati americani di Sufjan Stevens, ovviamente. Come il gioco di fare ogni anno un EP di Natale da regalare agli amici, i miei sono tutti inediti e, ovviamente, non hanno una tematica religiosa, sono dei giochi. Apprezzo anche il tipo di ricerca che fa Stevens a livello di immagine e suono, apprezzo la sua etichetta. Insomma, mi affascina molto, anche se lo sento distante dal mio approccio. Forse è l’emotività che condivido. Penso che sull’influenza e importanza di un disco come “Carrie and Lowell” non ci sia da aggiungere nulla, per me è uno dei dischi più belli degli ultimi anni: l’ho trovato struggente e surreale al tempo stesso, molto sincero.

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E con John Grant, invece?
Ah, è vero! John Grant lo cito nel pezzo “Presente”. Mi piace molto anche lui. Mi piace il suo percorso artistico e il suo modo di scrivere i testi. Credo che “Glacier” sia una delle ballate più struggenti e meravigliose che abbia sentito negli ultimi anni. Quando dico che ascolto “John Grant sono sopra uno scoglio” è perché descrive abbastanza la sensazione che mi dà, come stare su qualcosa di saldo mente tutto il resto si muove. Non sei al sicuro, ti arriva l’acqua addosso e non sai come andrà a finire, ma sai che c’è qualcosa di solido sotto. Amo il modo in cui scrive e il livello di autobiografismo, le immagini che trova, mi piace la ricerca sonora che sta facendo, e poi ha una voce bellissima.

In che modo costruisci i tuoi testi? Per quel che mi riguarda, sono piacevolmente sorpreso dal tuo modo di giocare, spesso in modo sottile, con le parole.
Grazie mille intanto. I testi li realizzo come flusso di coscienza per lo più, poi amo il pop e i ritornelli. In particolare, in passato usavo i giochi di parole ma qui sono rimasti solo in un pezzo, perché per me il gioco in realtà nascondeva un concetto drammatico. Diciamo che la scrittura è la mia parte preferita, mi è capitato di farlo anche per altri e mi sono divertito. Anche per quello non mi pongo regole. Leggo molto e ascolto molto, poi assecondo un’immagine che mi viene in mente. Cerco un ritmo interno alle parole e provo a generare immagini che mi provocano un’emozione. Ho studiato alcuni meccanismi in passato, sono laureato in lettere moderne ma poi ho cercato di dimenticarmene. I testi che non mi stanco di cantare sono quelli che non capisco fino in fondo nemmeno io, quelli che mi imbarazzano un po’.

Abbiamo parlato di visioni, letture, ascolti. Puoi citare un film, un libro, un disco senza i quali non avresti mai scritto e cantato canzoni?
In “Ahilui”, il mio disco precedente, c’era un pezzo che si intitola, guarda caso, “Pezzi”, che ho scritto pensando al film “Harry a pezzi”, di Woody Allen. Un film bellissimo per me, in particolare c’è una scena in cui Robin Williams fa la parte di un attore che va sul set ed è sfocato. Non è a fuoco e non riescono a inquadrarlo. Io ho pensato all’immagine di una persona che, a forza di darsi piano piano, sparisce. Non facendo film, posso lasciare che chiunque ci veda quel che vuole. Nel disco nuovo, il testo del primo pezzo penso sia profondamente influenzato dalla poetica di Morrissey, anche se ho cercato di italianizzarlo e portarlo verso il mio mondo: è quel tipo di autocommiserazione adolescenziale autoironica che trovo molto britannica e ho visto raramente nei testi in italiano in cui mi sono imbattuto. Il pezzo parla delle scuole superiori. Quindi, per “Stanza”, a livello di testo pensavo a molti pezzi di Morrissey e, musicalmente, ad alcune cose degli <b>Yo La Tengo</b>. Poi, il risultato penso non c’entri niente con nessuno dei due. Per il libro, ha avuto una grossa influenza su di me lo studio di Eugenio Montale all’università, lo trovo un grande umorista, a livello ritmico lo amo moltissimo. Quindi “Ossi di Seppia” (a parte un riferimento a un mio pezzo, “Seppia”) e “Le occasioni”, ma anche altre raccolte. Per quel che riguarda i libri, penso che l’influenza sia più sottile, forse più inconscia. Ad esempio “Bestia” è un pezzo sulla psicanalisi, sto leggendo molti saggi sull’argomento in questo periodo, per questioni di lavoro e studio, e credo che abbiano influito.

Se ti definiscono musicista indie ti offendi?
Ma no, assolutamente, non è la cosa più brutta che mi hanno detto. Pensa che quattro anni fa un mio carissimo amico, a cui non interessa più di tanto quel che suono, andava in giro a dire che facevo musica indiana! Tipo flauti di pan. Ci ho messo un po’ a spiegargli. Mi pare che il termine abbia preso un significato diverso da quello che gli ho sempre attribuito io. Anni fa, appena patentato, sono stato a uno dei primi MI AMI Festival, avevo comprato tutto il catalogo della My Honey Records, ho ascoltato tanta musica che a inizio 2000 chiamavamo indiepop. Per me indie erano gli Yo La Tengo, i Moldy PeachesThe Magnetic Fields, i Grandaddy, i Belle and Sebastian e così via. Oggi la parola ha un significato diverso. Mi sembra quasi indichi più un target che un’attitudine. Ma non mi offenderei, chiederei semplicemente a chi me lo dice cosa intende per “indie”. In ogni caso, quando qualcuno mi dice il suo parere o cosa pensa della mia musica, per me è sempre un regalo enorme, lo trovo un gesto di affetto e attenzione.

Finora non ti ho ancora paragonato a nessuno. Adesso ci provo: lo sai che in copertina ti atteggi un po’ à la Tiziano Ferro?
(Ride, nda) Allora, sinceramente non pensavo di usare una foto per la copertina. Ma alcuni amici, dopo aver sentito il disco, mi hanno consigliato di provarci. Il bravissimo Lucio Pellacani mi ha fatto un set e ho deciso di giocare con il titolo “Arto” come collegato al termine arty. Lupetto nero, foto ben fatta e il resto. Ovviamente ci divertiva anche. Il cerchio dietro è reale, non fatto in post produzione, mi piaceva giocare con l’idea di un cerchio contenuto in un quadrato, di forme. In ogni caso, c’era una parte ironica ma poi, quando ho visto la foto finita in copertina mi è piaciuta moltissimo, per la luce e altri aspetti. In fin dei conti in primo piano c’è un braccio, quindi un arto. Chi mi conosce di persona vedrà come sono e chi ascolterà il disco si farà un’idea, mi piacciono anche i contrasti, se dici che è troppo allora va bene. Tiziano Ferro mi piace in generale, se devo essere sincero, non ho mai comprato suoi dischi ma le sue canzoni le ascolto sempre volentieri quando mi capita. È un artista interessante. Non pensavo a quel tipo di immaginario ma va bene che l’immagine risulti un po’ stonata. Per questo disco mi farebbe molto piacere che ognuno si facesse la sua idea, ci vedesse quello che vuole, sarebbe il massimo.

Com’è la vita del musicista a Modena?
La mia vita molto buona, diciamo che siamo una zona d’Italia con molti circoli e locali. C’è Musica nelle Valli di Bob Corn che è sempre bellissima. C’è il Mattatoio in cui farò il release party, Laika Mvmt e lo Juta Club, la Fermata23, il festival ArtiVive e tanti altri locali che mi piacciono. A livello di fermento e di offerta la città non mi sembra al suo apice, anni fa la situazione mi sembrava più stimolante, ma si trova sempre il modo di divertirsi. Poi io mi sento più ascoltatore che musicista, faccio pochi live mirati in città e suono di più fuori. Mi piace andare ai live, spesso piccoli, spesso per curiosità, anche se ormai, seguendo i miei gusti, finisco sempre a Carpi, Bologna e Reggio Emilia.

Quanto c’è della tua città nelle canzoni che scrivi?
Nelle canzoni poco, credo. Non in modo esplicito almeno. Ma ce n’è molto in me, quindi, di riflesso, anche nei pezzi. Non mi sento campanilista ma apprezzo alcuni aspetti della città, una certa attitudine. Per esempio, uno dei gruppi con cui sono cresciuto sono stati i Lomas, uno dei miei preferiti in assoluto. Loro parlano moltissimo di Modena. Alessandro Formigoni dei Lomas mi ha influenzato molto nella scrittura, nella libertà metrica e ritmica delle parole e dei contenuti. Mi ha regalato un disegno che poi è finito nell’art work di “Arto”. Il primo singolo del mio disco precedente si chiamava “Zoo”, che da noi assomiglia molto a “giù”, in dialetto. Ci sono alcuni giochi simili nelle canzoni, ma probabilmente li vedo solo io.

E soprattutto, a Modena c’è la Barberia Records…
Che per me è come una famiglia, nel disco suonano tanti musicisti che hanno avuto a che fare o hanno a che fare con l’etichetta. “Arto”, inoltre, è stato coprodotto da Vaccino Dischi, un’etichetta di cui non si conoscono i gestori, sono anonimi, ma mi hanno convinto dimostrandomi di amare l’album. Alcuni artisti nell’epoca attuale hanno scelto l’anonimato per lanciare anche un messaggio, mi sembrava interessante che un disco chiamato “Arto” uscisse per un progetto del genere, per ovvie ragioni.

E un giorno, nella tua Modena, potrai organizzare un “Setti & Friends”, proprio come il tuo illustre concittadino Luciano Pavarotti…
Praticamente il disco è già un “Setti & friends”, ci sono gli ospiti che volevo in ogni canzone! Parto sempre dal pezzo per decidere con chi cantarlo, con chi registrarlo. Pensandoci, però, un “Setti & Friends” c’è stato davvero. Quando ho suonato al Festival de La Barberia Records all’Hana Bi. Ero l’ultimo in scaletta, ho passato la giornata a girare per la spiaggia e a parlare con qualche amico musicista e non. Alla fine, dopo un po’ che parlavamo, finivo per dire: “Perché non vieni su a fare un pezzo con me dopo?”. Alla fine avrò fatto quindici pezzi con un ospite diverso, alcuni anche con delle band, in ogni caso con persone che amavo. Amici, insomma. Mi piace fare cose con gli altri, sperimentare, mi dà sempre degli stimoli.

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L'articolo Setti: ascolta "Arto" in anteprima e leggi l'intervista di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2018-10-01 10:06:00

COMMENTI (1)

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  • luca.faccialibro 6 anni fa Rispondi

    Bravo Nicola!! Finisci sempre a Carpi al Tuwat ;)

    Ci si vede al Mattatoio