Francesco Sgrò - solo Sgrò quando canta - nasce a Lucca nel 1989. Dopo gli anni di studio a Bologna si trasferisce a Milano, dove vive, lavora e suona ancora oggi. “Ho bisogno di guardarmi allo specchio e non trovarmi più” dice, fuggendo da “un’immagine pacifica” di sé. C’è chi l’ha etichettato come indie, “ma è una definizione in cui sono caduto, non ho scelto” dice, e rivendica una musica incentrata sulle emozioni. Rompiamo questa solitudine per farci raccontare il suo progetto.
In che modo ti sei formato musicalmente?
Il primo incontro musicale decisivo è stato con la voce di De Gregori. Mi vergogno a parlare di questo rapporto intimo perché è stato adolescenziale, perciò totalizzante. Purtroppo - ma è un purtroppo che dico a posteriori - la musica nasce come divertimento, perché avevo un'urgenza di pancia. A volte penso che da adolescente avrei dovuto incontrare il rap e l'hip hop, perché ogni volta che sento un disco, una canzone, sento che mi chiama, sento che sarei potuto nascere lì dentro, ci sarei potuto vivere. Ma il rap e l'hip hop da adolescente non sapevo nemmeno cosa fossero, intorno a me nessuno lo ascoltava, in casa mia c'erano solo dischi di cantautori e non avevo internet.
Come definiresti la tua musica in quattro parole?
Intima, analogica, emotiva, attenta al dettaglio. Poi spero che sia attuale, e attuale non vuol dire contemporanea, ma che non si siede a bordo piscina a prendere il sole. È musica con gli occhi aperti, musica che non rinuncia mai a un conflitto col mondo e con se stessi. Le categorie che mi sono state date, una di queste è "indie". Ma è una definizione in cui ci sono caduto, non ho scelto. Mi hanno spinto le parole degli altri. Non so se sia giusto o no come genere, ne prendo atto.
Quali sono i tuoi artisti di riferimento?
Oggi, i miei ascolti, sono Stromae, Caparezza, Tuttifenomeni ed Emma Nolde, sono loro le mie costellazioni. Invece, intorno al 2017, mentre lavoravo al mio disco d’esordio, Macedonia, ho riascoltato tanto Battisti e Battiato. Ovviamente era un ascolto di studio oltre che di piacere.
Collabori con qualcuno?
Il mio produttore artistico, Andrea Ciacchini. Insieme cerchiamo il paesaggio sonoro più adatto alla voce che ho. Ci facciamo comandare dal cantato, da quello che esprime. Lavoriamo unicamente rispettando quello che il mio timbro trasmette. Poi ho collaborato con i Fanfara Station, un gruppo molto interessante che unisce l'elettronica a sonorità nordafricane, in vista del mio ultimo singolo, Non siamo al centro del mondo.
Qual’è il significato del brano?
Dopo l'uscita del mio disco d’esordio, Macedonia, a fine 2021, ho fatto uscire a luglio scorso un'altra canzone, Non siamo al centro del mondo. Il pezzo nasce da una mia stanchezza. Sono stanco di generare parentele con tutto quello che mi è familiare, non ne posso più di ritrovarmi a fare sempre cose che mi confermano, che mi rimandano un'immagine pacificata di me, ho bisogno di guardarmi allo specchio e non trovarmi più. Non siamo al centro del mondo è un invito ad allontanarsi dal calcolo sicuro e comodo della propria quotidianità, è abitare i bordi, i margini, le periferie, al di là del nostro centro, del nostro punto di equilibrio, è provare a violare la nostra presunta integrità.
Qual’è il ricordo più bello che hai di un tuo live?
Il momento dell'esibizione è un'esperienza davvero stimolante perché ogni volta che suono in pubblico non mi piaccio, e questa cosa è bellissima. Mi sento fortunato. Incontrarsi difettosi, brutti, stonati, sporchi è una fortuna. Ti dà la misura di cosa sei e su cosa puoi lavorare per crescere. Il palco, poi, live dopo live, sta diventando un luogo magico. Solo lì sopra mi sento legittimato a parlare, a spiegarmi, a riflettere e a prendermi in giro.
Hai già dei progetti in serbo per il futuro?
Voler bene a questo disco appena uscito e portarlo in giro.
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L'articolo Sgrò: la solitudine dei frutti primi di Redazione è apparso su Rockit.it il 2023-01-16 17:09:00
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