Abbiamo incontrato Gian Maria Accusani per farci raccontare l'ultimo album dei Sick Tamburo, "Un giorno nuovo", pieno di positività e che riesce ad essere contemporaneo anche assumendo soluzioni musicali più vicine al rock degli anni '90, da cui i Sick Tamburo provengono. La nostra intervista.
La prima volta che ti abbiamo intervistato ci avevi detto che i Prozac+ erano in pausa, e che i Sick Tamburo andavano considerati un side project dei Prozac+. A distanza di 8 anni, possiamo considerare la proporzione ribaltata?
I Prozac+ erano in pausa quella volta così come lo sono ancora adesso, non ci siamo mai detti basta. È un capitolo che potrebbe essere ancora aperto, non è detto che succeda, ma non è un progetto concluso. I Sick Tamburo invece hanno inevitabilmente preso un'importanza sempre maggiore. È nato così, dire per scherzo sarebbe esagerato, ma per provare a fare le cose con più leggerezza. Man mano che andavamo avanti siamo diventati sempre più coinvolti e le nostre vite ora sono incanalate nei Sick Tamburo, e viceversa i Sick Tamburo raccontano la nostra vita.
Sempre in quella intervista si parlava di quel velo di tristezza che ti porti sempre dietro. Dei testi si diceva che fossero "più neri che mai". Però la prima impressione su questo disco, a partire dal titolo "Un giorno nuovo", è che si respiri un'aria diversa, molto più positiva.
Io sono uno che si porta dietro sempre un po' di malinconia, è proprio nelle mie corde umane, però effettivamente questo disco vuole essere questo: la consapevolezza che è la visione che fa la contentezza o la tristezza. È l'occhio che guarda le cose, che fa le cose. Anche le cose peggiori che ti possono capitare in realtà possono essere le prime maestre di quello che è importante. L'importante è accontentarsi delle cose pratiche che abbiamo, delle cose più banali se vuoi. Questo disco spinge in quella direzione. "Un giorno nuovo", il singolo che da poi il titolo al disco, è quello: vuole vedere la parte buona di tutto quello che è anche brutto.
L'aspetto che mi ha colpito di più dei testi è che riescono a parlare di grandi temi, molto complessi (vita, morte, malattia), ma con parole semplici. Non hai nessun problema a usare un linguaggio senza metafore, molto diretto.
Sì, è vero, credo che certe cose debbano essere trattate in maniera diretta se vuoi farle arrivare. Poi ci sono delle altre che è buono anche tirarle fuori con metafore, perché hanno dei respiri maggiori. Però certe cose vanno dette in maniera diretta, perché sono talmente importanti in questo stesso istante, che è inutile perdere il tempo di quel respiro per farle arrivare. Oggi ci sono quelle cose lì, oggi le vogliamo. Tutto sommato senza paura. Certe cose sono raccontate perché esistono, perché sono la nostra realtà e non dobbiamo fare altro che accettarla con una certa serenità, perché noi siamo questo, qui e adesso. Non possiamo inventarci altro, le altre cose sono i pensieri, che poi possono essere tesori volendo, ma quello che succede adesso è adesso e ha senso che venga detto in maniera diretta.
In ogni caso sei riuscito ad azzeccare una nuance dolce, delicata, anche utilizzando delle immagini molto reali. Mi viene in mente un testo che già dal titolo è programmatico: "La fine della chemio". È raccontata senza alcun tabù, si parla esplicitamente di caduta dei capelli, contiene una serie di immagini molto drammatiche. Però c'è questa dolcezza di fondo che spoglia completamente il discorso dalle componenti patetiche. L'anno scorso è uscito un altro disco in Italia che affronta il tema del cancro, "Folfiri o Folfox" degli Afterhours, ma lo tratta in maniera diametralmente opposta, con momenti drammatici, lenti, strazianti. Racconta la malattia dalla prospettiva di qualcuno che ha affrontato la battaglia e l'ha persa.
Credo che la differenza sia proprio questa, qui si parla di una cosa che si sta ancora combattendo. Quindi c'è tutta la gioia e la voglia di essere positivi. Diciamo che quella canzone è come una sorta di... è difficile per me raccontare quel brano... (esita) diciamo che è così, una battaglia che si sta ancora combattendo e quindi bisogna affrontarla in maniera positiva. Specialmente per le persone a cui quella canzone è rivolta in maniera diretta. Il giorno nuovo è qui perché ogni giorno che arriva è un giorno nuovo e dobbiamo godercelo, perché il giorno dopo il giorno nuovo chissà cosa ci aspetta.
Anche quando si parla della morte non se ne parla mai in termini di sconfitta, ma in termini di rimandarla a quando sarà il momento giusto di morire.
È vero, anche perché la morte è semplicemente un cambio di situazione. Noi siamo qui oggi che agiamo, e a un certo punto c'è la morte... cosa succede? Nessuno lo sa. È chiaro che siamo abituati a pensare alla nostra cessazione, ma sarà veramente così? Non lo so. Se c'è una certezza che tutti condividiamo è che la morte arriverà. Ma sarà così brutta? Sarà così terribile? Bisogna averne tanta paura? Forse no. Non che io non abbia paura della morte, ma forse fare un piccolo lavoro su questa cosa è importante. In questo disco c'è anche questo. Cerchiamo aiuto per noi stessi.
Mi parli di "Menomale che ci sei tu"?
In qualche modo il testo è legato al resto delle tematiche del disco. Nonostante tutte le cose che ci accadono, avere una persona su cui puoi contare, che ti faccia sentire a casa anche nei periodi di negatività, è importante. È fondamentale non sentirsi soli. Quando sei sconfitto, il pensiero di aver qualcuno, anche nei ricordi più cupi, anche uno che ti insulta!, ti fa sentire meglio.
Com'è nata la collaborazione con Motta?
Un paio di anni fa abbiamo suonato insieme ai Criminal Jokers e poi abbiamo fatto serata e siamo stati benissimo insieme. Siamo rimasti in contatto e poco tempo fa, mentre stavamo facendo il disco, Francesco mi ha scritto che gli sarebbe piaciuto fare qualcosa insieme. Gli ho mandato due-tre pezzi e lui ha scelto quello, è stato molto semplice! Io e Francesco ci siamo visti una volta e ci siamo presi da subito: questo feeling è sfociato in una collaborazione, quasi una cosa naturale.
In "Un giorno nuovo", l'aura positiva si respira anche nelle melodie. Certe volte sono quasi delle filastrocche, tipo "Perdo conoscenza".
"Perdo conoscenza" e anche "Un giorno nuovo" vogliono essere proprio quello. Vogliono raccontare delle cose pesanti in una maniera serena. È stato quasi naturale scriverle in quel modo... l'intenzione era quella.
Su queste melodie molto gioiose e su arrangiamenti molto stratificati, le chitarre sono rimaste le stesse del rock, anche con dei riff molto anni '90. Penso a "Sei il mio demone" o a "Dedicato a me".
Infatti "Dedicato a me" è un pezzo scritto non ricordo se per il primo o secondo disco dei Sick Tamburo. Il ritornello era diverso, è stato cambiato perché ha preso un senso rispetto al resto del disco, però quel pezzo ha un bel po' di anni.
Come avete lavorato su questi arrangiamenti? Si sentono tante cose, come i synth che suonano gli archi. Quando scrivete funzionate ancora come una band? Vi ritrovate in saletta eccetera?
Funziona sempre in maniera diversa, tendenzialmente sono io che scrivo i pezzi. Nasce tutto chitarra e voce e a seconda di quello che c'è a livello di testi si prendono delle direzioni. La maggior parte delle idee si sviluppano in studio da me. Poi si va in sala prove e le cose prendono una via più precisa, vengono fuori i dettagli che fanno la differenza e fanno sì che ognuno possa mettere la propria impronta. I dettagli sono tra le cose più importanti. È il bello di un gruppo, perché si da importanza a chi scrive, ma non è l'unico tipo di scrittura... le persone attorno spesso scrivono anche senza esserne consapevoli, nel senso che se ti arriva un feedback da qualcuno, ti spingerà inevitabilmente in qualche direzione, e anche se fai finta di niente quel passaggio tendi a cambiarlo. Dentro un lavoro di gruppo i diversi ruoli portano tutti alla costruzione di qualcosa. Anche solo col dire "bello" o "brutto" stai scrivendo.
Mi hai detto che comunque i brani partono da te, forse può sembrarti un po' banale ma ritieni che l'ispirazione per scrivere un brano nuovo ti arrivi con un'urgenza diversa quando sei triste e quando sei felice?
Assolutamente. Per me la maggior parte delle volte scrivere una canzone è il metodo per risolvere delle cose sia in senso positivo che in negativo. Chiaramente arrivano per un'esigenza molto diversa. Quando sono contento e ho l'esigenza di canalizzare questa sensazione positiva scrivo in un certo modo, quando mi succedono cose brutte ho l'esigenza di sistemarle e viene fuori una cosa completamente diversa. Scrivere è sempre stata per me come una terapia, una sorta di seduta psicanalitica.
Vorrei chiederti un paio di opinioni, prendilo come un gioco. Spesso ci diciamo che il rock è morto, che non riesce a reinventarsi, che non ci sono più ascoltatori di rock, i ragazzini non lo ascoltano più. Però quando esce un disco come il vostro si può tirare un sospiro di sollievo, perché anche se di base i riff di chitarra sono rimasti quelli dei '90, in "Un giorno nuovo" tutti i brani sono delle potenziali hit, basati su struttura strofa-ritornello, dritti, ma tutti comunque necessari alla struttura dell'intero disco. La normalità è trovare dischi con 3-4 brani buoni e il resto riempitivi. "Un giorno nuovo" invece si ascolta tutto, ed è una cosa un po' rara in questi tempi in cui contano le playlist di Spotify, i singoli... è vero che non si fanno più i dischi in cui tutte le canzoni sono necessarie?
Be', io non so se ci riesco o se ci sono riuscito in questo caso, ma è una cosa che penso da tanto tempo. Una volta compravo un disco delle mie band preferite e nel 90% dei casi un pezzo meglio dell'altro. Adesso con lo stesso gruppo compro il disco, e ci sono due pezzi che mi piacciono tantissimo, gli altri certe volte no. Credo sia proprio un modo diverso di fare i dischi. Ci sono tante cose che mi piacciono, poi quando vado ad approfondire magari mi piacciono solo quelle due cose che ho già sentito. Sono dischi che nascono da una visione della musica diversa rispetto a tempo fa. Certe volte anche io ho un pezzo che me lo gioco come mio preferito e poi lo perdo, perché faccio il ragionamento della velocità del disco, che è la mentalità di questo momento che ti spinge a fare considerazioni di quel genere lì.
L'altro giorno stavo parlando del vostro disco con Alessandro Baronciani e lui mi ha detto una cosa che mi ha colpita molto: "Gianmaria è uno dei pochi della mia età che ha veramente ancora la voglia ancora di fare musica, dischi, di salire sul palco". Poi quella stessa osservazione, con parole molto simili, l'ha scritta anche l'autore della recensione su Rockit. È davvero così? Da dove vi viene questa voglia? Trovi che nei musicisti della tua generazione invece sia un po' passata questa voglia?
Sicuramente noi abbiamo voglia, perché nel momento in cui questa voglia diminuirà, non riuscirei a fare una cosa se non spinta da una grande voglia. Questo è sicuramente vero. Non so se sia buono o meno, ma deve partire tutto da una voglia. È poi anche vero che a sei anni se mi chiedevi cosa vuoi fare da grande rispondevo "il musicista". Ce l'ho dentro da sempre. Per quanto riguarda i musicisti della mia generazione o di generazioni vicine devo dire che be', ancora gente che ha voglia di fare ne vedo. È possibile che ci siano di misunderstanding. A volte è anche questione di capire e di farsi capire. Succede anche a me: sento una cosa e non mi arriva; però magari la band per farla ci hanno messo il sangue. Quando il momento di chi deve capire coincide col momento di chi deve farsi capire, lì sei nel posto giusto al momento giusto.
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L'articolo Sick Tamburo - Ogni giorno è un giorno nuovo di Chiara Longo è apparso su Rockit.it il 2017-06-01 10:59:00
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